Ufficialmente sconfitte nel 2017, le milizie dell’ISIS hanno lasciato migliaia di ordigni nascosti sul territorio degli yazidi: mine nei campi e bombe nascoste nei giochi o nelle bottiglie. Per Hana Kihider non c’era altra scelta che essere coraggiosa.Una caraffa, un cellulare e un joystick. Quand’è l’ultima volta che hai tenuto in mano questi oggetti? E soprattutto, ci hai fatto caso o li hai presi soprappensiero? Quando la persecuzione si infila nelle pieghe della quotidianità non ci sono alternative tra la disperazione e il coraggio. Hana Kihider è una madre di 3 figli, consapevole che in una caraffa, in un cellulare o in un joystick può essere nascosta una bomba. È yazida e vive a Sinjar, dal 2014 la violenza dell’Isis ha assalito il suo popolo con lo scopo preciso di sterminarlo; mine e trappole esplosive disseminate e nascoste in tutto il territorio sono il colpo di coda dello Stato Islamico che, sconfitto ufficialmente nel 2017, ha voluto lasciare la sua imponta di morte sui territori che aveva occupato. Come a dire: siamo ancora qui ad ammazzarvi.
Leggi anche:
Suor Marta, trappista nella Siria in guerra. Rimanere è amare
E così, mentre noi ci lamentiamo di dover leggere tutte le informazioni sulle precauzioni igieniche e di distanziamento, nella spianata di Ninive a bambini e ragazzi vengono distribuiti volantini per insegnare loro a non raccogliere oggetti abbandonati per strada, anche se sembrano innocui e attraenti come una bottiglia o un gioco. Possono essere trappole mortali.
Sono un popolo antichissimo che vive nella piana di Ninive, nel Nord-Ovest dell’Iraq. La loro città principale è Sinjar. Sono considerati una comunità all’interno della etnia curda, ma si distinguono per cultura e religione.
Nel corso dei secoli hanno subito innumerevoli persecuzioni da parte di invasori di ogni tipo dai persiani ai britannici e ai turchi. L’ultima persecuzione che ha tragicamente devastato questo popolo è stata quella perpetrata dal 2014 dalle milizie dell’Isis.
Quale è la giustificazione di questa aggressione? L’Isis definisce gli yazidi «adoratori del diavolo», forzando un’interpretazione sbagliata del loro credo religioso. La religione yazida è un culto molto complesso frutto di contaminazioni tra fedi gnostiche, zoroastriane, cristianesimo e islam: all’origine immagina un Dio e sette angeli creatori che sono sue emanazioni. Tra questi angeli, il principale è l’angelo ribelle Melek Taus, che si pente, viene perdonato da Dio e assume le sembianze di un pavone. Il ruolo dell’angelo ribelle – poi pentito – ha fatto sì che gli Yazidi venissero considerati «gli adoratori del diavolo».
Dalla definitiva sconfitta dello Stato Islamico nel 2017 si parla di numero di assassini tra gli yazidi compresi tra i 2.100 e i 4.400 e al rapimento di circa 10.000 persone, per la maggior parte giovani donne stuprate o costrette a essere sfruttate come schiave negli harem dei signori della guerra dell’Isis. Sono numeri impressionanti considerando che questo popolo conta circa 600 mila persone. Tuttora vengono alla luce fosse comuni e nella comunità internazionale è riconosciuto il loro genocidio.
Nel 2018 è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace alla Nadia Murad, giovane yazida vittima di stupro e testimone di violenze che non ha avuto paura a raccontare.
Sminatrice
Un video del National Geographic intitolato Into the Fire documenta in venti minuti la vita stravolta di Hana Kihider, che da madre di famiglia come tante è diventata una sminatrice per liberare la terra dei suoi figli dagli ordigni dell’ISIS. È entrata a far parte del Mines Advisory Group, un’associazione che è parte del gruppo internazionale per la messa al bando delle mine, insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1997. Non ha paura, lo ripete più volte e poi si corregge con sguardo fiero: «Non ho mai paura».
Quello che stiamo facendo è mandare un messaggio chiaro all’ISIS. Cerchiamo di dimenticare il passato e ogni mina fatta brillare sulla nostra terra ci aiuta a sentirci più forti. E possiamo iniziare a curare le nostre ferite.
Sono i dettagli di lei a colpirmi più di tutto. Niente a che vedere con l’immagine mascolina di Soldato Jane, Hana indossa un cappello di paglia molto simile a quello che indosso anche io in vacanza al mare, si lega i capelli con quei fermagli da casa così pratici e ha degli orecchini d’oro dall’impatto forte ma eleganti. Non si è trasformata o disumanizzata, ma ha portato tutta se stessa in un mestiere a cui è stata costretta dalle circostanze. Non avrebbe mai scelto di essere una sminatrice, ma la guerra ha stravolto ogni briciolo della sua vita e come madre ha sentito il dovere di dare ai più piccoli e indifesi una terra sicura su cui camminare e giocare. Vicino a lei altre famiglie hanno perso figli e nipoti, usciti per fare una passeggiata o per portare qualche capra a pascolare e mai più tornati, o tornati con il corpo a pezzi.
Lavora lenta, lavora paziente, lavora con cura
Hana non è un caso isolato, nell’associazione di cui è parte sono molte le donne impegnate in questa missione rischiosa e indispensabile. Bisogna davvero fare un salto oltre gli stereotipi, e a pensarci bene la predisposizione femminile alla cura e alla pazienza sono le doti migliori per chi si mette lì, un passo dopo l’altro a sondare un ritaglio di terra alla volta in cerca di ordigni nascosti.
«Lavora lenta», è questa una delle indicazioni più importanti che Hana dà alle giovani meno esperte di lei che scelgono di partecipare all’opera di sminamento del territorio iracheno. Siamo agli antipodi della frenesia occidentale. Nella distesa desertica attorno a Ninive le sminatrici si muovono lente e in allerta, consapevoli che il passo sbagliato può significare morire. Tengono in mano uno strumento che segnala la presenza di ordigni: col detector controllano ogni centimetro di terreno, passando lo strumento più e più volte, fin dove non c’è pericolo mettono una sbarra di legno e allargano il recinto di sicurezza poco, pochissimo, per volta. La cura e la pazienza fanno la differenza tra la vita e la morte.
E penso a quanto abbia da insegnarci questa pazienza, questo avanzare lentissimo e quella sbarra rossa. Che sembra essere lì per dire: stai al tuo posto, sei mortale. La guerra è una sconfitta umana indicibile, ma anche dentro le circostanze peggiori l’uomo ricapitola chi è. E noi siamo fatti di vulnerabilità e finitudine. Quella sbarra rossa abbiamo smesso di vederla, ci crediamo illimitati nel potere e nelle capacità. Falso. Anche attorno a noi, che ci sentiamo al sicuro e corriamo leggeri di qua e di là, c’è un campo minato fatto di idoli che gridano empowerment ed orgoglio ma portano solo una morte per apatia ed egoismo. Non mi riconosco nel femminismo urlato a suon di slogan, invece mi dà una bella svegliata alla coscienza una donna che avanza lenta, che è ben consapevole di essere fragile, che non teme di dare la vita per chi ama.
Mamma, oggi vai a lavorare?
Attorno a un tavolo una famiglia fa colazione, si parla del più e del meno. La mamma si premura che tutti e tre i figli mangino per bene, fa una battuta al più affamato. Una delle bimbe ha bisogno di aiuto per fare i codini, e si sa che è un’operazione che richiede competenze eccellenti di precisione e maestria. Questa scena avviene quando il marito di Hana va a lavorare e lei resta a casa. Se fosse il suo giorno di lavoro sarebbe cominciato ben prima dell’alba, quando tutti dormono ancora.
La domanda della figlia: «Mamma, vai a lavorare oggi?» lascia trapelare tutto il tremore con cui una apparente normalità familiare non smette di fare i conti. Fuori casa c’è ancora una trincea invisibile e pericolosa. A Sinjar molti genitori non lasciano uscire i bambini, sui muri sono disegnati ragazzi con gli arti amputati per ricordare che anche una partita a pallone per strada comporta un rischio enorme. Nascondere le bombe nei giochi, negli oggetti domestici, negli spazi cittadini ricreativi è da vili malvagi. L’opposto all’esplosione che disintegra in una frazione di secondo è la pazienza operosa di certe sarte, quell’occhio attento ai millimetri di tessuto. Allora anche il passo lento di Hana, e quella sbarra che fa crescere la libertà di pochi centimetri, è un modo di ricucire le ferite sanguinose inflitte alla sua gente; e forse sminare è il sinonimo più ardito di ricostruire .