Francesco, i suoi frati e le sue suore tentarono qualcosa di impensato che ci lascia ancora oggi senza fiato. Ma che non si è pienamente realizzato
La profezia incompiuta di San Francesco. La svelano Alessandra Smerilli e Luigino Bruni in “Benedetta economia” (Città Nuova) per ridimensionare la tesi di chi – e non sono pochi – vogliono trovare nel poverello di Assisi e nel suo movimento i precursori dell’economia di mercato. Infatti, come nel caso del monachesimo, anche il rapporto tra francescani ed economia è molto più complesso di come viene raccontato – ma anche molto più interessante.
I Monti di Pietà non sono le radici delle banche del nostro capitalismo, ma erano istituzioni sine merito (senza lucro) nate per sfidare radicalmente le banche che già esistevano e prosperano in Italia e in Europa, ma non erano dalla parte dei poveri.
Una povertà diversa da quella dei monasteri
Francesco, osservano Smerilli e Bruni, iniziò la sua rivoluzione, anche economica, scegliendo come sua forma di vita soltanto il vangelo; soltanto: sta in questo avverbio limitativo la novità del francescanesimo.
Noi non abbiamo più le categorie per comprendere cosa fosse la povertà di Francesco e poi di Chiara. Diversamente da quella dei monasteri, era una povertà individuale e una povertà comunitaria: non solo le persone, neanche i conventi dovevano possedere alcun bene. Come amava dire Ugo di Digne, il solo diritto che hanno i francescani è il diritto a nulla possedere, a vivere sine proprio.
“Quelli della via”
Mentre il medioevo cristiano seguiva l’etica economica moderata ereditata dal tardo impero romano, Francesco i suoi frati e le sue suore tentarono qualcosa di impensato che ci lascia ancora oggi senza fiato: tornarono lungo le strade, raccolsero l’eredità del primo nome dei cristiani, “quelli della via”, da ricchi divennero mendicanti poveri in mezzo ai poveri.
“Beati i poveri” divenne la loro felicità desiderata e bramata.
L’impossibilità del solo uso di beni
Il grande tentativo francescano di distinguere proprietà dei beni dal loro uso non ebbe successo. Nel 1322 papa Giovanni XXII rettificò la tesi del suo predecessore Niccolò III, e stabilì l’impossibilità del solo uso dei beni, e attribuì all’ordine la proprietà dei beni che usavano. L’utopia concreta dei francescani non entrò né nel diritto della Chiesa romana né nell’eredità economico-giuridica dell’Occidente. Ma non è morta, perché continua a sfidare le nostre economie e i nostri sistemi giuridici.
L’era dei beni comuni
I primi francescani (Pietro Olivi), riprendendo la profezia di Gioacchino da Fiore, credevano che l’ultimo tempo, il settimo, sarebbe stato quello dell’altissima povertà di Francesco, che per loro era il profeta del tempo ultimo.
Con il terzo millennio siamo entrati nell’era dei beni comuni: se continuiamo a sentirci proprietari e padroni della terra, dell’atmosfera, degli oceani, riusciremo solo a distruggerli. Dobbiamo, presto, imparare a utilizzare i beni senza esserne padroni, dobbiamo velocemente apprendere l’arte dell’uso senza proprietà.
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