Gennaio 1945. Edith Zierer, tredicenne, esce dal campo nazista presso Częstochowa, nella Polonia ancora occupata. Estenuata, paralizzata dal freddo glaciale e affamata, restò sdraiata a terra in una stazione senza potersi muovere… Temette il peggio. Un giovane uomo però la vide e decise di aiutarla. Era un seminarista e si chiamava Karol Wojtyła.
Edith Zierer lo sa: senza Karol Wojtyła sarebbe probabilmente morta di stenti, tra fame e freddo. Era il gennaio del 1945. La Polonia era ancora occupata dai nazisti, accampati nei pressi di Częstochowa, a sud del Paese; Edith Zierer, 13 anni, sale a bordo di un treno che trasporta carbone. Le mancavano le forze e decise allora di scendere a un centinaio di kilometri dalla stazione di Jędrzejów per tentare di nutrirsi e di recuperare forze prima di proseguire il viaggio. Una volta all’interno della stazione, estenuata, crolla e cade a terra.
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Paralizzata dal freddo, Edith non riesce più a muoversi. Nessuno la guarda, anche se il suo pigiama a strisce da Lager nazista salta all’occhio. Questo fino al momento in cui un giovanotto venticinquenne passa accanto a lei e la nota. Si avvicina, le chiede che cosa ci faccia ridotta così e in quel posto. Edith gli risponde che sta tentando di andare a Cracovia, ma che non ha più forze: scoppia in singhiozzi quando il giovane le chiede come si chiama – è la prima volta da tanto tempo che ci si indirizza a lei senza chiamarla col numero di matricola… Vedendo lo stato della giovane, Karol Wojtyła sparisce un attimo per tornare subito dopo con del tè caldo, del pane e del formaggio. In tempo di guerra e di occupazione tedesca, il giovane è entrato da qualche tempo in un seminario clandestino. Si prepara al sacerdozio seguendo i corsi all’arcivescovado di Cracovia. Di giorno lavora come operaio alla Solvay, i cui stabilimenti sono in periferia.
Le dà il suo cappotto e la porta per alcuni kilometri
«Cerca di alzarti», insiste più volte il giovanotto, ma la cosa resta al di là delle forze della ragazza. Ogni volta cade. Senza esitare, allora, Karol Wojtyła le dà il suo cappotto e la prende in braccio per qualche kilometro, fino a un’altra stazione donde parte un treno per Cracovia. È un cargo animali e lui ci sale con lei. Ci sono altri giudei a bordo. Uno di loro mette in guardia Edith Zierer: quel prete vorrà forse approfittare della situazione per farla monacare. Non appena il treno si ferma alla stazione di Cracovia, la ragazzina scende sulla banchina e nel trambusto generale, presa dalla paura, si nasconde dietro a dei serbatoi di latte. Il giovane la perde di vista e tenta a più riprese di trovarla, chiamandola in polacco: «Edyta! Edyta!». Edith, però, sarebbe rimasta nascosta.
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Traumatizzata infatti da tutto quel che aveva vissuto, la giovane era diventata diffidente. La storia della sua infanzia si riassumeva in lunghi anni di vagabondaggio tra l’est e il sud della Polonia. Allo scoppiare della guerra, il padre dovette nascondersi. I suoi genitori le procurarono dei documenti d’identità falsi. Da preadolescente cercò quindi di condurre una vita normale. Un giorno la giovane uscì di casa e non tornò più: era stata arrestata dalla Gestapo. Con la sorella Judith si ritrovò nel ghetto di Cracovia.
Qualche tempo più tardi intravidero da lontano il padre. Presto però tutta quanta la famiglia sarebbe stata deportata nel campo di concentramento di Plaszow, vicino Cracovia. Con l’eccezione di Edith, che va in un’altra direzione: siccome parlava molto bene il tedesco, era stata selezionata per essere trasportata in una fabbrica di munizioni. Nel 1943, fu finalmente trasferita in un campo di lavoro nazista presso Częstochowa, dove prigionieri giudei erano impiegati nella produzione di munizioni.
Nel gennaio 1945 il campo fu liberato dai Russi. Estenuata, Edith uscì dal campo senza pensare che a una cosa: andare a Cracovia e ritrovare i suoi cari, a casa. Ancora non lo sa, ma non avrebbe ritrovato nessuno: i suoi genitori sono morti a Dachau e sua sorella Judith ad Auschwitz. Proprio cercando di prendere il treno per Cracovia avrebbe incrociato il giovane Karol Wojtyła, che l’avrebbe aiutata e salvata da morte certa per freddo, fame e sfinimento.
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Per tutta la vita, Edith Zierer avrebbe custodito in memoria il nome del giovane seminarista che le aveva salvato la vita. Quando il 16 ottobre 1978 ella seppe che Karol Wojtyła era stato eletto Papa, ne fu sconvolta. A quell’epoca la donna viveva in Israele, avendo lasciato la Polonia già dal 1951. Moglie e madre di famiglia, lavorava da odontotecnica. Vedendo Giovanni Paolo II in televisione, decise di scrivergli una lettera per ringraziarlo di averle salvato la vita. Il Papa si ricordava benissimo di quella giovane che aveva trovato tramortita dal freddo quel giorno del gennaio 1945. La invitò allora in Vaticano. L’incontro avrebbe avuto luogo anni più tardi, nel 1998. «Figlia mia – le disse durante l’incontro, a margine di un’udienza generale – parla più forte: adesso sono un vecchio». E la benedisse insistendo: «Torna a trovarmi, figlia mia».
Chi salva una vita salva tutto il mondo
Edith Zierer non sarebbe potuta più tornare a Roma, ma nel 2000 fu il Santo Padre a recarsi in pellegrinaggio in Terra Santa. Visitò il memoriale dello Yard Vashem, dove restò in raccoglimento e depose una corona di fiori. Edith era stata invitata all’evento, e quando lui le si avvicinò lei gli disse questa frase: «Chi salva una vita salva tutto il mondo». È il motto inciso sulla medaglia conferita ai Giusti fra le Nazioni, cioè agli uomini che hanno salvato dei giudei durante la shoàh. Edith Zierer e Giovanni Paolo II avrebbero continuato a scriversi delle lettere, ma non si sarebbero più rivisti: il Papa polacco sarebbe morto cinque anni più tardi, la sua ragazzina nel 2014.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]