Al grande campione di nuoto fu diagnosticato un disturbo da deficit dell’attenzione e agli insegnanti che evidenziavano i grandi limiti del ragazzo la mamma Debbie replicava: «E, allora, come possiamo aiutarlo?»Lo scorso 30 giugno ha compiuto 35 anni ed è il campione olimpico più vincente di sempre: 28 medaglie, di cui 23 d’oro. Ha conquistato anche il record di aver ottenuto il maggior numero di medaglie in una singola Olimpiade, e sono gli 8 ori vinti Pechino nel 2008. Parliamo dell’imperatore del nuoto, soprannominato il proiettile di Baltimora, Michael Phelps: che sia farfalla, misto o stile libero, con lui in acqua non ce n’era per nessuno.
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Per scrivere una storia di successo basterebbe un decimo di quello che Phelps ha conquistato una bracciata dopo l’altro. Ma non è questo lo scorcio di vita da cui vogliamo osservare le sue imprese. Alle spalle del campione c’è una storia familiare ferita e complessa, e lui stesso come bambino non è stato eccellente e perfetto. Accanto a lui c’è stata una madre forte e perseverante che, a fronte di tanti educatori che consideravano il figlio un caso perso, ribatteva: «E, allora, come possiamo aiutarlo?».
Ha messo se stessa in discussione e accompagnato il suo ragazzo a non essere schiacciato dai limiti: Phelps infatti è affetto dal disturbo da deficit dell’attenzione e da piccolo difficilmente riusciva a mantenere anche minimamente la concentrazione. Ci sono genitori che compiono imprese titaniche nell’accompagnare i propri figli a essere ciò che sono, lottando contro la superficialità, o il disinteresse, di chi etichetta troppo sbrigativamente le persone con difficoltà o disabilità.
A scanso di equivoci: non raccontiamo questa storia per alimentare la favola zuccherosa sul fatto che tutti possono diventare campioni applauditi e famosi; essere vincenti ha una sfumatura diversa per ogni individuo e i trofei non c’entrano. È una chiamata che non si realizza sui troni e sugli altari celebrati dal mondo, ma esiste per ciascuno anche in un ritaglio di terra sperduto: Dio ha ti ha pensato e voluto per il luogo e tempo in cui sei, ecco … possiamo dire che la vittoria è a priori e la sfida è riconoscerla. Il senso di questo racconto è che vale la pena, anche faticosamente, scommettere più sul mistero che ciascuno è piuttosto che sulle etichette di chi incatena l’umano ai suoi limiti.
Debbie Phelps, dal deficit al talento
A cominciare dall’asilo, gli insegnanti si lamentavano: Michael non fa il riposino nel tempo del riposo, Michael non sta seduto nel cerchio, Michael non tiene le mani a posto, Michael ridacchia e sgomita i compagni per stare al centro dell’attenzione. (da New York Times)
Il colloquio con i docenti è un momento impegnativo: a fronte di griglie di comportamento prestabilite, ogni bambino sfugge alle tabelle. Ci sono insegnanti che comprendono che l’essere vivente non è un diagramma e che svolgono l’impegno educativo proprio come cammino per scoprire e accompagnare la persona che hanno di fronte nella sua unicità. Ma c’è anche il volto più duro e deprimente con cui la scuola può presentarsi, quello ingessato agli schemi. Su questo muro fatto di tante griglie e pochi sguardi umani, Deborah Phelps, mamma del campione Michael, ci ha sbattuto testa e cuore molte volte.
Entrato nella scuola pubblica, mostrò ciò che i docenti definivano un comportamento immaturo. “Mi ripetevano che Michael non stava seduto, non stava tranquillo e non si concentrava” ricorda la signora Phelps, lei stessa insegnante per 22 anni. […] “Magari si annoia!” replicò alla maestra la signora Phelps e ne ricevette la risposta: “Oh, non è dotato”. Essendo stata lei stessa una docente, la madre sfidò l’insegnante: “E allora cosa facciamo per aiutarlo?” (Ibid)
Questa risposta pronta e propositiva, sfidante ma non aggressiva, rivela una personalità forte; Debbie Phelps lo è senz’altro, è stata una madre sola (tutte le biografie di Michael cominciano ricordando la separazione dei genitori quando aveva sette anni) di tre figli. Le due sorelle maggiori del campione olimpico si chiamano Whitney e Hilary e anche loro hanno avuto una bella carriera nel nuoto. Debbie è stata insegnante e poi è diventata preside, una donna devota all’educazione sia per la sua famiglia sia per lavoro.
Quando a Michael venne diagnostico il disturbo indicato dalla sigla ADHD (disturbo da deficit di attenzione/iperattività) Debbie si è rimboccata le maniche, diventando l’avvocato di suo figlio. Conoscendo dall’interno il complicato mondo della scuola, ha cercato di interagire con gli insegnanti in modo deciso, ma sempre collaborativo: si è data da fare per trovare delle strategie che aiutassero il figlio a superare i nodi critici del suo comportamento. Visto che infastidiva i compagni, chiese che fosse messo in un banco da solo; visto che non si applicava in matematica, chiese all’insegnante di creare dei problemi ad hoc ambientati nel nuoto, disciplina che amava.
Ma anche sul nuoto c’è da dire che non è stato il suo elemento fin da subito, tutt’altro:
All’età di sette anni, odiava bagnarsi il viso – ricorda Debbie – Allora lo abbiamo girato a testa in su e abbiamo cominciato a insegnargli il dorso. (da Additude)
Una volta avvicinato nel modo migliore alla piscina, il talento di Michael è fiorito, dimostrando che il disturbo ADHD non è affatto incompatibile con una grande capacità di concentrazione e determinazione. Solo a ulteriore documentazione della creatività di una madre, è risaputo che tra Debbie e suo figlio c’è un segnale in codice: una sorta di C fatta con la mano che la mamma rivolge al figlio quando ci sono segni che il suo comportamento sta per degenerare, in codice significa «ricomponiti». Più volte gli ha rivolto questo segno dagli spalti delle competizioni più importanti. (… e quanto è vero che spesso avere qualcuno da guardare è l’aiuto indispensabile per sfuggire ai nostri cortocircuiti!)
Il Debbie Day
Michael Phelps non hai mai taciuto la sua immensa riconoscenza verso la madre, che è diventata una speaker di successo per motivare i genitori che accudiscono figli con problemi. Il libro in cui racconta la sua storia si intitola Una madre per tutte le stagioni, a conferma di quelle doti di accoglienza e flessibilità che sono state la chiave per non intrappolare il suo bambino in un deficit.
Ma, tra le tante stagioni-competenze che una mamma vive, c’è anche quella della pausa. Il nostro rischio come genitori è di coprire l’orizzonte con la nostra premura, di essere così preoccupati da voler diventare i supereroi del caso. Un piccolo spunto per disinnescare questa tentazione nient’affatto buona è ciò che la signora Phelps definisce il Debbie Day: un giorno in cui la madre si occupa solo di sé. Possiamo definire questa scelta in molti modi, di sicuro è mettere un limite alla dedizione. Donarsi ai figli non è annullarsi per loro, altrimenti il rischio di sentirsi per forza necessari innesca il cortocircuito dell’onnipotenza: non è vero che siamo indispensabili. Siamo presenti per i nostri figli, sudiamo sette(mila) camicie e c’è pure chi sputa sangue. Eppure il destino delle persone che ci sono affidate non dipende da noi: qualunque strategia piccola o grande ci inventiamo per ricordarci questa verità non negoziabile è buona.