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Il legame madre-figlio come non lo avete mai visto

MOTHER, KISS, NEWBORN
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Annalisa Teggi - pubblicato il 08/07/20
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Rebecca Saxe è una neuroscienziata americana che studia il cervello dei bambini. Ma si è imbattuta in una grande scoperta quando si è coinvolta come madre nelle ricerche che stava svolgendo. Professoressa di neuroscienza cognitiva al MIT e mamma: Rebecca Saxe è la prova (una delle tante, a dire il vero) che lavoro e famiglia non sono ambiti da contrapporre, perché – per quanto coinciliarli sia un’impresa quotidiana tosta – possono creare una sinergia ottima. Scienziata eccellente, la Saxe è riuscita a aggiungere un tassello fondamentale alle sue ricerche nel momento in cui ha vestito i panni di madre anche sul lavoro.


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Da dove veniamo?

Al MIT (Massachusetts Institute of Technology, un’eccellenza mondiale nell’ambito della scienza, dell’ingegneria e del management) la professoressa Saxe si occupa di studiare il cervello dei bambini, una risorsa in gran parte ancora da esplorare per offrire risposte mediche ai problemi del cervello adulto. Afferma:

Sono una scienziata non per le risposte che arriveranno ma per le domande che ho ora. (da TEDx Talk)

REBECCA SAXE

TEDx Talk | Youtube

Lo sguardo di uno scienziato ospita uno stupore radicale e insaziabile verso il reale e quando si esprime al meglio non ha la presunzione di accalappiare al guinzaglio il mistero del mondo, bensì di muoversi di domanda in domanda con il passo umile dello scalatore. È la metafora che usa Rebecca per descrivere il lavoro quotidiano di chi fa ricerca:

[…] arriverà forse il giorno in cui dall’alto della montagna vedremo aprirsi un panorama meraviglioso, ma la maggior parte delle mie giornate sono più simili a uno che si guarda i piedi e a ogni passo chiede a se stesso: “È questo il sentiero?”.

La spinge in questo cammino fatto di tentativi spesso vani una domanda che certamente parte da una base scientifica, ma inevitabilmente coinvolge anche lo spirito: da dove veniamo? Il cervello è una grande cassa del tesoro rispetto al tema dell’origine umana, studiare quello dei bambini è cominciare a conoscere noi stessi dall’inizio: dal punto di vista biologico ha una struttura molto fragile, ma è pieno di risorse potenti per arginare i problemi, una potenzialità che si perde via via che passano gli anni. Dunque, l’ipotesi alla base delle indagini della Saxe è che conoscere meglio le risorse del cervello infantile potrebbe aiutare a curare il cervello malato o danneggiato degli adulti, pensiamo all’Alzhaimer o al Parkinson per fare due esempi clamorosi.


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Concretamente come si svolge una ricerca del genere?

Nel mio laboratorio al MIT usiamo le immagini ottenute con la risonanza magnetica per osservare il flusso di sangue nel cervello dei bambini: leggiamo loro delle storie e osserviamo come l’attività cerebrale cambia reagendo alla trama. Facendo questo riusciamo a investigare come il pensiero dei bambini si pone di fronte al pensiero altrui. (da un’intervista su Smithsonian)

L’ipotesi è entusiasmante, ma la realizzazione non è così facile. La procedura della risonanza magnetica è uno strumento eccellente (permette di visualizzare l’interno del nostro corpo in modo non invasivo ed è del tutto innocua per l’organismo), ma non va molto d’accordo con l’esuberanza dei piccoli. Il paziente deve essere introdotto in un macchinario rumoroso e deve stare fermo per un tempo abbastanza lungo. Da scienziata, la Saxe era arrivata alla conclusione che fosse impossibile ottenere qualcosa di buono; il bambino non trattiene la pipì, si agita e però, affinché l’esame funzioni, il soggetto deve esssere proprio sveglio. Con questi dati alla mano, l’esito poteva essere quello dello scalatore che si accorge di aver preso un sentiero impraticabile.

È stato a questo punto che, smessi i panni da scienziata, Rebecca ha intravisto una soluzione possibile osservando il problema con gli occhi di mamma.

Istantanea di un amore universale

La Saxe lo definisce il suo «golden gol», l’esperienza della sua prima maternità è coincisa con l’empasse nella sua ricerca da neuroscienziata. Le è venuta l’intuizione che, avendo accanto la sua mamma, un bambino potesse rimanere calmo per un tempo abbastanza lungo, o almeno sufficiente al buon esito di una risonanza magnetica. Ha perciò deciso di provarci col suo bambino, è entrata con lui nell’apposita apparecchiatura. Schiacciata dentro quel “tubo rumoroso” con suo figlio a cantare canzoncine, farsi succhiare il pollice ed elargire coccole, Rebecca è diventata una scienziata sui generis: per molte volte l’esperimento è fallito e allora – ricorda lei stessa – «mi trovavo a pensare come cambiare la procedura, mentre cambiavo un pannolino».


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Forse, durante tutti quei tentativi, era l’occhio della scienziata a prevalere, affiancato dalla pazienza squisitamente materna; ma di fronte al primo risultato positivo l’esperienza scientifica si è indissolubilmente legata a quella affettiva. Nell’aprile 2015 la risonanza magnetica ha restituito un’istantanea unica nel suo genere, che mostra il legame di Rebecca e suo figlio.

Un’insolito ritratto madre-figlio, senza dubbio. La somiglianza della struttura interna del corpo, l’impatto emotivo di un bacio visto da una prospettiva così insolita ha generato un’esplosione di reazioni, soprattutto in Rebecca e nei suo colleghi. Le sue riflessioni ci accompagnano a sottolineare quanto sia forte il bisogno di tenere unite nella persona esperienze che solo l’astrazione ci porta a separare (scienza ed emozioni, corpo e anima):

Nessuno, che io conosca, ha mai prodotto un’immagine di madre e figlio grazie alla risonanza magnetica. L’abbiamo fatta perché volevamo vederla. A qualcuno questo scatto dà fastidio, perché mostra la nostra fragilità di esseri umani. Altri si sono lasciati trasportare dal pensiero che quelle due figure – prive di vestiti, dai capelli e volti invisibili – possano essere qualcosa di universale, una madre e un figlio di qualsiasi epoca e latitudine. Altri si soffermano a notare quanto il cervello del bimbo sia diverso da quello della madre. Madre e Figlio sono un simbolo potente di amore e innocenza, bellezza e fertilità. Di solito questi valori della maternità, e le donne che li incarnanano, sono venerati, ma vengono messi in contrapposizione ad altri valori: ricerca e intelletto, progresso e potere. Ma io sono una neuroscienziata e ho lavorato per creare quest’immagine; sono anche la madre protagonista dell’istantanea, schiacciata dentro quel tubo con il mio bambino. (Ibid)


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Nel corso del TEDx Talk di cui è stata protagonista, la Saxe ha ulteriormente approfondito l’impatto che quella “foto” ha avuto in lei:

Io ci vedo tutte queste cose: un’immagine di amore universale e una fragilità che spaventa, ma ci vedo anche una delle più stupefacenti trasformazioni nell’ambito della biologia. È anche uno dei problemi più ardui della scienza: Da dove veniamo? Appena un anno prima di questo scatto il cervello di quel bambino non era altro che un grumo di cellule, non poi così diverso da quello di un topo o di una mosca. E poi accade che con una combinazione di fattori biologici e ambientali quelle cellule diventano il cervello di un bambino e poi di un essere umano adulto, con competenze speciali: parlare una lingua, capacità di empatia, valutazione di scelte morali. (cit.)

La conoscenza fa davvero il suo mestiere quando arriva a questo stupore, grazie a cui  la pura osservazione trabocca in una riflessione complessiva sul mistero grande che è scritto dentro ogni uomo. Cellule che danno vita a un essere capace di scelte morali, tessuti e ossa coinvolti in una grande battaglia tra bene e male. Siamo un’involucro fragile che ospita un disegno eterno.