Una campagna per Gucci Beauty che ha suscitato entusiasmo e approvazione. Alessandro Michele, direttore creativo che ha fatto impennare i profitti del brand, continua a stupire e a vincere nel mondo del fashion. Ma non è così che si tratta davvero la disabilità.Arriviamo un po’ lunghi, sulla notizia. Ma è meglio così. Forse così l’onda anomala eppure tanto, troppo prevedibile di entusiasmo e commozione digitata sui social sarà passata oltre. Il fatto sarebbe quello dell’ingaggio di una giovane e deliziosa modella inglese con la sindrome di Down da parte della maison Gucci. Il prodotto che promuove è un mascara, l’Obscur.
Ha 18 anni si chiama Ellie Goldstein ed è ufficialmente il nuovo volto della campagna beauty del brand fiorentino.
Il lancio è avvenuto sulla rampa social di Instagram la più fashion friendly in assoluto.
Ma non finisce qui: il volto di Ellie sarà anche pubblicato sulle pagine di Vogue Italia, protagonista degli scatti del giovane fotografo e artista David Pd Hyde. (…) In occasione del Photo Vogue Festival tenutosi nel novembre 2019, Gucci Beauty e Vogue Italia avevano lanciato un progetto di scouting su Instagram. Di conseguenza, il fotografo David PD Hyde ha trovato Ellie (oltre a varie altre) per uno speciale editoriale sul mascara L ‘ Obscur. (Ansa)
La modella è stata scelta dal fotografo, quindi, e il fotografo è stato una scoperta di un’operazione di scouting (ora si dice così, per parlare di ricerca di talenti) avvenuta proprio su Instagram.
Lei e gli scatti che l’hanno immortalata sono stati la risposta personale e artistica del fotografo alle parole dell’istrionico (e pure un po’ inquietante) direttore artistico del brand fiorentino, Alessandro Michele:
′Ho progettato il mascara L’ Obscur per una persona autentica che usa il trucco per raccontare la propria storia di libertà, a modo suo.
Ecco, una frase tanto prevedibile e innocua da risultare feroce nella sua dichiarazione di indifferenza.
Per questo il viso dolce e bello nella pur evidente diversità e tipicità che sempre la sindrome cromosomica da cui anche Ellie è affetta comporta mi pare dovrebbe essere triste, perché Ellie è usata. Non meno di altre modelle, ma con l’aggravante della sua biodiversità presa ed esposta così, senza il rispetto che lei, con tutta la sua persona, merita. Di sicuro non è lasciata allo sbaraglio e in un servizio intervista compare con la mamma che appare fierissima di lei, presente al suo fianco e pronta a sostenerla e proteggerla. Questo, a dire la verità, mi rassicura un po’.
Non riesce a darmi che questa impressione: di una maschera, di una macchietta, presa e gettata sul palco per attirare sguardi, stupore, commozione assolutamente priva di impegno e, ciò che più conta, visibilità e investimenti.
Noto in questa scelta una tragica e voluta contraddizione come quella manifestata dalla sfilata sempre a firma doppia G fatta in difesa della donna e della legge 194. Gli uteri vuoti ricamati sopra abiti cascanti; vuoti come i corpi delle modelle della solita scorticata magrezza, cascanti come o i loro sguardi. Ovvero quanto di più anti femminile ci possa essere. Non che la femminilità possa essere celebrata dalle rotondità esasperate nè la fecondità solo da grembi abitati. E’ pur sempre una questione di grado, di ritmi, di possibilità per lo meno non negate sul nascere.
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Immagino che tutto il comparto comunicazione sarà stato addestrato a non parlare mai di disabilità, menomazione, malattia. Ma a taggare questa campagna e tutto ciò che vi attiene solo con diversità, bellezza non convenzionale.
E questo, tradotto nel concitato gergo dei profitti, dovrebbe significare rispetto e accoglienza mentre si tratta semplicemente di ipocrisia e istruzioni per l’uso. E ciò che si usa è una persona, Ellie.
E’ un trend sempre più diffuso, soprattutto nel mondo della moda; e in ogni sua declinazione mantiene quel tragico senso di “redazionale” commissionato. La modella con la vitiligine per Desigual, per esempio, è bellissima ma di sicuro preferirebbe avere una pelle integra, anche se spesso queste prove aiutano la persona a scovare la propria vera unicità, a dare fondo a riserve di forza che nemmeno sapeva di avere.
No, la via dell’inclusione (dentro che recinto vogliono metterci?) non è dire che la malattia è solo diversità. Peraltro, come esseri umani, siamo davvero tutti menomati, sul fronte spirituale. Il normo tipo è un altro, non siamo noi. Sono solo Cristo e Maria. Ma questo è un altro discorso. Eppure si tratta proprio di bellezza e integrità umana; che non si ottiene modificando le parole e forzando la lingua a dire ciò che non è vero.
Jerome Lejeune e la sua ostinazione di voler curare
Quanto era diverso l’approccio alla disabilità e alle malattie dell’intelligenza di un gigante di umanità e scienza come Jérome Lejeune. L’uomo che di fatto inaugurò la genetica, che diede argomenti per liberarsi del dogma darwiniano evoluzionista e offrì con i propri studi le basi per confermare la nostra origine da un’unica coppia (proprio come Adamo ed Eva); colui che fu lo scopritore della prima malattia di aberrazione cromosomica, la trisomia 21 (che poteva diventare la sindrome di Lejeune, ma lui stesso vi si oppose); lo scienziato dapprima rispettato, osannato persino e poi reietto, escluso e penalizzato con la sistematica mancanza di fondi perché osava difendere la vita, sempre. Costui, che era un padre e un marito presente, buono, grato per la vita dei propri figli, era un vero cristiano del XX secolo, come disse S. Giovanni Paolo II. Parlando di lui, alla sua morte, disse che il suo era un vero carisma per il quale ringraziava il Creatore. Il suo apostolato in difesa della vita era quanto di più razionale e umano potesse esserci e tanto più eroico e arduo si potesse compiere agli esordi di un progressismo e di un imbarbarimento etico che vediamo sempre più diffondersi in tutti i paesi occidentali.
Per lui ogni vita era degna, unica e intera fin da subito. E ne raccolse per primo le prove: già allo stadio di zigote l’individuo che sarà porta scritte tutte le sue caratteristiche. L’aborto, in nome di una qualità di vita ritenuta deteriore, era per lui radicalmente e razionalmente inaccettabile. Così come sentiva nel proprio spirito un dolore profondo per l’offesa alla pienezza di umanità che una malattia come la trisomia 21 e altre da aberrazione cromosomica comportano: l’uomo ferito nella sua intelligenza è impedito ad esprimersi in piena e totale libertà, ma la sua vita resta degna, carica di amore, capace di sprigionarne e persino titolare di una vera felicità. Ciò che voleva, come uomo di scienza e come cristiano, era trovare per loro una cura.
Non aveva paura di chiamare malattia la malattia né mancanza una mancanza perché la sua certezza, soprattutto razionale, era che la persona e la sua dignità superano smisuratamente la possibilità espressiva che si trovano in dote all’inizio del viaggio dell’esistenza.
Essere sani, integri, normodotati è un dono enorme, è motivo di letizia e gratitudine; subire menomazioni, riduzioni del proprio intelletto, impedimenti alla propria integrità psico-fisica è sempre un’offesa. Ogni persona lo sa, lo sente e istintivamente lo rifiuta. O vi si approccia con pietà o peggio con quello spirito da esibizione circense che permane anche in queste recentissime scelte promozionali, vedi Gucci.
Ma Lejeune era cristiano e sapeva che ogni uomo è voluto da Dio e che la sofferenza mantiene tutta la sua durezza e conserva il suo odioso decorso voluto dalla natura ma nella croce del Redentore ha mutato significato e valore.
Per questo i cristiani non amano mai il dolore in sé stesso; né lo augurano, né lo cercano. Né se ne possono mai compiacere, sebbene possano arrivare ad amarlo e a rendere grazie a Dio per questo. E’ il mistero della croce che è di fatto un sacrificio totalmente nuovo, per il quale occorrerà tutto l’arco della storia a dispiegarne il senso, destinato a compiersi solo dall’altro lato del tempo.
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Lejeune, ai genitori che si presentavano al suo studio spesso proprio alla disperata ricerca di un conforto che altrove si erano visti duramente negare, offriva la verità medica e quella umana, integrate. La conoscenza della natura così come era stata ferita nel loro bambino e la memoria della inattaccabile dignità di ogni individuo; Poiché ognuno, senza alcuna eccezione, la porta con sé su mandato di Dio in persona.
Ne vedeva la diversità, soffriva con i genitori per le loro angosce, ammirava il loro amore, il servizio eroico a quei figli tanto colpiti; difendeva e amava quei bambini, quei ragazzi, fino a farli sentire fieri di essere se stessi. Per loro e per la propria coscienza che imperiosamente gli mostrava la verità ha pagato con la propria carriera e reputazione; tutte cose, in fondo, di poco conto se paragonate e alla coscienza e alla verità. E nella consapevolezza che questa vita, per tutti, avrà un secondo tempo. Il che gli ha impedito di soccombere, di fronte all’incompiuta della sua ricerca (è morto senza aver trovato la cura per i suoi amati bambini). E gli ha reso del tutto inaccettabile l’idea di poter disporre della vita altrui, soprattutto di quella dei “piccoli di uomo” poiché il peso affibbiato loro dalla malattia sarebbe stato tolto e per sempre nella vita senza fine e nel frattempo si sarebbe dovuta cercare la cura e portare loro sollievo in ogni modo.
“Il vero medico non ha scelta”, diceva rispetto all’aborto: questa sua frase è tanto vera quanto liberante ed è così anche per i genitori; una mamma e un papà, che sono tali fin dall’incontro di due gameti, non hanno scelta, non la vogliono nemmeno avere.
Ho divagato, ma meglio perdersi a considerare le virtù eroiche di un uomo di questa tempra e di tanta intelligenza e bontà che attardarsi a considerare se ingaggiare una modella con sindrome di Down in una campagna pubblicitaria di altissimo lignaggio possa significare per lei e per tanti suoi omologhi un vero progresso.
Intanto sono contenta di potermi godere lo sguardo così dolce e quasi enigmatico di questa ragazza britannica. Spero che possa essere indizio che possiede l’antidoto: questo mondo non la può ferire.