«Ci occorrono degli esempi in cui si documenti che mettere al centro la persona è un grande vantaggio economico». L’imprenditore Eugenio Dal Pane, fondatore della editrice Itaca, ci racconta perché la speranza che il Papa ha testimoniato in questo tempo è l’unica vera ipotesi di ripartenza del nostro paese. La definizione di instant book ci informa che si tratta di un libro pubblicato in breve tempo su un evento di grande rilevanza. Ci possono essere molte motivazioni dietro una scelta editoriale simile, anche molto pragmatiche. Oppure può essere una scelta ideale, nel vero e profondo senso del termine. Quando Roma brucia – diceva Chesterton – l’uomo davvero saggio va a studiare il sistema idrico della città, non si limita a buttare un secchio d’acqua sull’incendio. Tradotto: quando le cose vanno davvero male, la cosa migliore da fare non è reagire d’istinto ma aggrapparsi a un ideale che tiene.
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Ho per le mani un instant book che ha questa sana presunzione e dunque è qualcosa di diverso dai classici instant book. Si tratta de Il contagio della speranza pubblicato dalla casa editrice Itaca e curato da Eugenio Dal Pane che è il fondatore della stessa. Come uomo, imprenditore e cristiano si è accorto che ci è capitata una cosa straordinaria in mezzo al dramma della pandemia: la gente ha guardato con cuore afflitto il Papa e la Chiesa e ha trovato nella voce del Pontefice le radici di una speranza che non è solo il «penso positivo». Il libro raccoglie tutto ciò che il Papa ha detto durante il lockdown, fino al Regina coeli del 10 maggio e, oltre a documentare questo eclatante momento storico, è un testo che contiene il vero succo dell’unica ripartenza umana possibile: la speranza, nel volto incarnato di cui il cristiano è testimone.
Ho scambiato due chiacchiere con Eugenio proprio per discutere di due temi scottanti nell’attualità: lo sguardo di un imprenditore che fa i conti con questo momento economicamente complesso e i fondamenti della speranza cristiana come alleata di una vera ripartenza.
Caro Eugenio, penso che molti dei nostri lettori di Aleteia For Her abbiano già incrociato qualche tuo libro, magari però non sanno che storia c’è dietro Itaca, la casa editrice che hai fondato. Come ce la presenti?
Itaca compie 30 anni, all’origine c’è la mia storia personale su cui hanno influito due cose. La prima è la percezione, che ho ereditato dalla mia famiglia, poi approfondito in parrocchia e dentro il movimento di CL, del cristianesimo come di ciò che rende vera e interessante la vita. Questo si è legato a una passione per i libri, che percepivo come strumento affinché ciò che è vero per me possa arrivare a tutti. I libri possono arrivare dove io non potrei mai. I primi dieci anni della storia di questa casa editrice sono stati pionieristici, poi nei successivi venti l’attività ha guadagnato una sua dimensione, orientandosi soprattutto in una dimensione educativa: desideriamo che attraverso la cultura le persone possano ritrovare se stesse, la propria casa, da cui il nome Itaca.
Lo chiedo all’imprenditore, e poi anche te come persona: la quarantena ti ha spaventato?
Mi ha spaventato moltissimo, perché ha creato un’incertezza totale. Ho avuto una grande preoccupazione per l’azienda e per chi ci lavora. Ho sentito che era la stessa preoccupazione di tutti, cioè ho vissuto il mio disagio non chiudendomi in me stesso. Ricordo un’amica che mi ha detto: «Guarda che la gente è in ginocchio!». Allora ho cominciato a sentire l’urgenza per me stesso e per gli altri della speranza. Come si fa ad avere speranza quando tutto sembra crollare? Da quel momento in poi la paura è stata accompagnata da una domanda sul fondamento della speranza.
Speranza è una parola bellissima, che conquista tutti e così vasta che potrebbe perfino pronunciarla un alieno. Perché il cristiano può osare parlarne con una voce autorevole più forte?
C’è stato un momento in cui il Papa è entrato nella questione del «andrà tutto bene» sottolineando che, quando la realtà picchia duro, anche la speranza più indomita frana. Anche io ho vissuto alcune circostanze in cui mi sono dovuto chiedere: la speranza me la do da solo? Cioè: mi autoconvinco che bisogna pensare positivo. Se noi pensiamo a tutti quelli che sono morti e ai loro familiari, che non hanno potuto star loro vicino nel momento più difficile, l’idea del «andrà tutto bene» non tiene. Ti vuoi convincere che tutto andrà bene, poi quando tocca a te crolli.
L’evento di Piazza San Pietro del 27 marzo e i due mesi successivi sono stati una svolta nella storia della Chiesa e delle persone. La pandemia ci ha mostrato che siamo deboli e fragili, questo ce lo siamo sentiti dire e ridire, ma ha anche indicato che noi non siamo in balia della tempesta. Ci ha dato la possibilità di capire questo perché abbiamo visto qualcuno che non era in balia della tempesta e questo qualcuno era appoggiato a Cristo. Oggi è più chiaro chi sostiene la speranza vera. Nel momento dello sbandamento la gente chi ha guardato? Il popolo non si è atteso la risposta dalla politica, lo dico con rispetto, ma dal Papa.
Papa Francesco ha fatto il pontefice nel senso vero e proprio, ha fatto da ponte tra noi e Dio. Si è fatto intercessore della nostra angoscia portandola al cospetto di Dio e al tempo stesso ci ha detto di non avere paura. Si capiva che lui soffriva con il popolo e la gente lo ha percepito, tutti non solo i cristiani. Eppure ci ha dato la roccia a cui appoggiare la speranza con cui contagiare il mondo. Siamo certi che Dio è all’opera dentro le sfide di ogni giorno.
Chesterton afferma che la speranza del cristiano non guarda avanti ma indietro, all’origine. Condividi?
La speranza del cristiano è memoria. A ottobre ho compiuto 65 anni, ora dico che il Covid mi ha fatto brutalmente sapere che sono un anziano. Ho festeggiato il compleanno guardandomi indietro e notando che, in mezzo a tanti inciampi, Dio aveva combinato qualcosa con me. Dio è all’opera: questo riconoscimento che sentivo nel momento della festa è stato poi contraddetto con l’arrivo del coronavirus? No. La pandemia non altera questo dato; a maggior ragione vale la pena fidarsi che Dio è all’opera nel presente. A me è solo chiesto di avere uno sguardo così aperto da voler scoprire dove mi vuol portare.
Veniamo al libro che hai curato, lo si definisce tecnicamente un instant book, ma in realtà è qualcosa di più…
È un libro che andava fatto subito, perché la maggior parte della gente tende a dimenticare in fretta. L’idea del libro è nata ascoltando il discorso che il Papa ha fatto a Pasqua, in particolare il passaggio in cui dice che la speranza si trasmette da cuore a cuore; da lì poi affonda la proposta del contagio della speranza. A qualche giorno di distanza da queste parole io mi sono ritrovato addosso un entusiasmo insolito, ho maturato così l’idea di un testo in cui fossero raccolte tutte le testimonianze che il Papa ci ha offerto con la sua voce in questo periodo e quello che mi ha convinto definitivamente è stato il Regina Coeli in cui ha commentato la vicenda dei discepoli di Emmaus: paragona i due cammini, quello della mattina in cui i discepoli sono freschi e vanno in discesa ma sono stanchi e sfiduciati e quello della sera in salita che loro stessi fanno di corsa con il cuore che arde. Questo accade quando Cristo si fa compagnia al cammino, ed è l’urgenza per noi oggi: noi siamo accompagnati da uno che ci fa ardere il cuore. Il Covid ha elevato all’ennesima potenza quello che è, da sempre, il problema della vita: cosa e chi ci mette in moto? Per cui questo è un libro del presente, ma che vuole fare storia. Vuole fissare un momento storico in cui tutta l’Italia si è chiesta: chi fonda la speranza? Anche se non è stata espressa consapevolmente, nel sottofondo di ciascuno c’era. La Chiesa non dovrebbe tornare indietro da quello che è accaduto, cioè dall’evidenza che la gente si è rivolta alla Chiesa per porre una domanda di senso. E la Chiesa esiste perché l’uomo che si interroga sul senso della propria vita trovi un luogo dove questa domanda è accolta, condivisa, abbracciata. Voglio aggiungere che il destinatario privilegiato di questo libro è il mondo del lavoro. Ho sempre pensato che il nemico dell’economia fosse il nichilismo: se non credi in niente puoi fare impresa solo per arraffare per te stesso, mentre la fede ti fa lavorare come collaborazione all’opera di Dio e fa sorgere il desiderio di fare qualcosa per il bene di tutti. I libri che faccio devono essere buoni libri, ma non nell’ottica del mero guadagno ma perché non posso avvelenare il cuore degli altri. Anzi devo nutrirlo.
A proposito di economia, ci sentiamo pressati da ogni parte sul tema della «ripartenza» del paese come fosse solo una faccenda di soldi e profitti. Cosa ne pensi come editore? Anche i libri aiutano l’economia?
L’economia è fatta dalle persone e le persone sono messe in moto dal desiderio. Se uno non desidera più nulla, non fa più nulla. La parola «editare» è molto complessa perché c’entra con l’idea del nutrimento e c’entra con l’idea del dare alla luce. Tant’è che il beato Alberione diceva che la prima casa editrice è la Madonna perché «edidit Verbum». Pubblicare è dare alla luce, ma cosa? Qual è la parola che io do alla luce? Questa è la responsabilità che ho come editore. La parola che io metto in luce è quella che possa aiutare la persona a rimettersi in moto nella vita personale. E questo vale per ogni genere di lavoro. Tant’è che noi nei bilanci scriviamo «produzione di beni», e «beni» vuol dire che in fondo intuiamo che ciò che facciamo ha a che fare con il benessere dell’altro. Durante questa emergenza, guardando gli operatori sanitari, ci siamo resi conto che lavorare è dare la vita per l’altro. Se non ripartiamo da qui, riproduciamo il disastro di prima. Qualche mattina fa sono andato in banca e l’addetta si è stupita che io volessi pagare i fornitori, cioè che chiedessi un mutuo per pagare i fornitori. Mi suggeriva che molti stanno aprendo mutui e non pagano i fornitori; mi pare assurdo: io so che se non pago il fornitore, lo metto in difficoltà. Ho ricevuto una prestazione e la pago, è giusto. Ci occorrono degli esempi in cui si documenti che mettere al centro la persona è un grande vantaggio economico. Il profitto non è lo scopo, è un mezzo. Lo scopo è la felicità dell’altro. Anche a livello economico la fede è un vantaggio competitivo, perché a parità di talenti li fa fruttare meglio.
Come ultimo spunto, guardiamo al tuo lavoro da domani in poi. Nella giornata delle comunicazioni sociali il Papa ha detto «abbiamo bisogno di pazienza e discernimento per riscoprire storie che ci aiutino a non perdere il filo tra le tante lacerazioni dell’oggi; storie che riportino alla luce la verità di quel che siamo, anche nell’eroicità ignorata del quotidiano». Che storie hai voglia di raccontare da domani?
Siamo proprio in linea con questa affermazione del Papa; noi valorizziamo quei libri che testimoniano che il bene vince sul male e direi che vogliamo continuare così. Vorrei tanto ripubblicare la storia dei monaci benedettini, per ricordare come hanno concepito il monastero e il rapporto con se stessi e con l’altro. Abbiamo bisogno di storie in cui si veda che la persona può essere tenuta insieme all’azione che compie; il grande dilemma che noi abbiamo tutti i giorni è: sono vero o faccio le cose? La vera rivoluzione è suggerire che tu fai le cose come espressione della verità che hai incontrato. I libri sono un nutrimento essenziale per la nostra persona, tutta intera.