Torinese ma per metà istriana. Musicista, scrittrice, teologa: “Dobbiamo preservare la capacità di incantarci davanti a ciò che ci trascende e permetterci di conoscere anche col cuore, con l’intuito e con la fantasia”.Quattro anni fa intervistai Chiara Bertoglio dopo aver letto un suo libro. Ricordo parole piene di amore e gratitudine nei confronti di Dio, della sua famiglia, delle persone che aveva avuto la gioia di incontrare nel suo cammino. Scoprii che le lenti attraverso le quali guardava il mondo erano la musica – cominciò a studiarla all’età di 3 anni grazie a sua mamma -, la fede e la scrittura. Ma è grazie agli articoli che pubblica sul suo blog, pieni di umanità, vita vera e speranza – che condividiamo con grande piacere anche noi qui su For Her – che ho potuto sentirla vicina e “conoscerla” ancora un po’. Una donna coraggiosa e genuina, nient’affatto insensibile alle miserie umane. Amante della natura, del bello, delle radici. Oggi per il dizionario vivo di Gemme ci regala una parola magica e illuminante: Incanto.
Di Chiara Bertoglio
Chi sono oggi
Sono una donna che si avvicina pericolosamente agli anta, torinese, ma per metà istriana, con una vita che prima del COVID cercava di destreggiarsi fra tre o quattro mestieri: concertista di pianoforte, docente, ricercatrice di musicologia e teologa. In questo momento molte attività si sono interrotte (soprattutto quelle legate alla musica dal vivo), e ne approfitto per dedicarmi allo studio. Non ho una mia famiglia, e vivo con i miei carissimi e meravigliosi genitori, che continuano a donarmi ogni giorno tesori di affetto, di sapienza e di buonumore. Ho un carissimo fratello, sposato, con cui condivido moltissimo (fra cui la musica: è un ottimo violinista).
Nella mia vita la fede ha un ruolo centrale; in questo periodo mi manca tantissimo la Messa, e non avrei mai creduto di passare così tanto tempo senza la Comunione in vita mia. Tento, per quanto è possibile e con tutti i miei limiti, di passare qualche messaggio di speranza a coloro che incontro, e di trasmettere la bellezza infinita, la forza incredibile e la serenità che vengono dalla relazione con Cristo; tanto le parole quanto la musica a volte mi aiutano a esprimere la grandezza del dono della fede, anche se vorrei sempre di più che la mia vita diventasse un annuncio semplice e vero di Gesù.
Della vita amo tante cose: la mia famiglia, la natura, la lettura; i momenti di festa, se c’è davvero gioia e affetto, e magari qualcosa di buono da mangiare; il cantare, il suonare e il danzare insieme; ma soprattutto quei momenti in cui si crea vera comunione, con altre persone e con Dio, e in cui pregusti la bellezza dell’incontro che non ha fine.
Le esperienze che mi hanno segnata
Come in tutte le vite, ci sono state luci e ombre anche nella mia esperienza; talora, i momenti più duri sono anche stati quelli che mi hanno insegnato di più. Chi sono oggi lo devo all’educazione ricevuta, con i grandi valori umani che l’hanno guidata e la schietta ispirazione cristiana che ha illuminato i miei genitori, ma soprattutto all’immenso e incessante affetto di cui mi hanno ricolmata. Accanto a loro, sono enormemente grata a tanti insegnanti e maestri, della cultura, della musica e della fede, che mi hanno dato moltissimo: anziani sacerdoti con lo sguardo illuminato dal Cielo, persone semplici, pensatori profondi, amici con cui confrontarsi sulle cose grandi della vita. Ho imparato da tantissime persone, da cristiani di altre confessioni, da appartenenti ad altre religioni e da atei; dai libri, che ho sempre amato tanto, ma anche da incontri casuali sul treno, o dal conoscere la realtà della povertà e della sofferenza che tante volte dimentichiamo; spero di aver imparato anche dai miei errori, alcuni dei quali molto pesanti, e che, se non altro, mi hanno mostrato la mia fragilità e i miei limiti. Fondamentale, direi, la realizzazione che Dio è misericordia senza fine, e che non c’è buio, tristezza o angoscia dal quale Egli non possa trarci.
La parola che ho ricevuto: Incanto
La parola che ho ricevuto e che mi piacerebbe donare a mia volta è incanto. È formata da “In” e “canto”, e ci dice quella situazione in cui un canto è talmente intenso, avvolgente e coinvolgente, che non riusciamo a staccarcene; è l’incantamento, l’incantesimo, la magia, ma anche qualcosa di profondamente sacro. Sono Tolkien, Chesterton e Lewis ad avermi insegnato che il fascino che sentiamo (da piccoli, ma vorremmo poterci permettere di sentirlo da grandi) quando percepiamo la “magia” dell’universo non è né esoterismo né infantilismo; entrambe sono devianze e distorsioni di qualcosa di molto bello e molto vero. Per loro, quel fascino è uno degli istinti dell’essere umano, che prova il bisogno di stupirsi, meravigliarsi e cercare quella bellezza che commuove profondamente. Ed è un istinto buono, di quelli che ci portano alla ricerca di qualcosa di importante per la nostra vita, come fanno i girasoli con il sole: è infatti il primo germe di un sentimento religioso che non è irrazionale, ma che ha una componente di semplice meraviglia.
Vorrei consegnare questa parola perché il mondo d’oggi è dis-incantato, preda di un disincanto che è disillusione amara. Non è il serio aprire gli occhi di chi vuol guardare in faccia la realtà, ma la tristezza di chi si obbliga a credere che tutto ciò che non si vede non sia reale. È, in ultima analisi, la volontà di ridurre tutto alla dimensione dei nostri sensi e della nostra razionalità, di ciò che possiamo controllare nella nostra realtà di creature; il desiderio che tutto sia spiegabile e comprensibile dalla nostra mente limitata nel tempo e nelle capacità.
Questo non vuol dire che i nostri limiti ci impediscano di conoscere o di cercare la verità, nella scienza come in altri ambiti; anzi! Vuol dire che dobbiamo preservare la capacità di incantarci davanti a ciò che ci trascende, e permetterci di conoscere anche col cuore, con la sensibilità, con l’intuito, e con la fantasia. Sono tutte porte che, lasciate aperte, permettono al Mistero di entrare; Dio si serve della nostra sete di meraviglia e di bellezza per bussare alla nostra porta. Incantarsi è una forma di preghiera, perciò, ed anche una forma di rivelazione. È lo sguardo spalancato che assorbe ciò che gli si rivela; non quello del tecnico che acutamente studia al microscopio il dettaglio di un oggetto. È il reale (la natura, il creato, l’altro, l’Altro) che si svela e si rivela a noi, perché lo possiamo accogliere con gratitudine e incanto, non noi che dettiamo le regole della conoscenza.
Da musicista, vorrei quindi che l’in-canto diventasse un po’ una guida per la nostra vita: il canto è un modo “non economico” di comunicare, perché una frase cantata richiede più tempo e più fatica di una che viene solo pronunciata, ma senza canto non sapremmo dire l’amore e la bellezza allo stesso modo. Su un altro piano, incantarsi è quel “perdere la propria vita per ritrovarla” di cui ci parla Gesù: perdere tempo per trovare bellezza, perdere il controllo per scoprire l’incontro, perdere la parola per trovare il mistero.