L’indulgenza plenaria che il Santo Padre impartirà stasera è stata preceduta nei giorni scorsi dal “ritorno in Vaticano” del Crocifisso di San Marcello al Corso, come se il Pontefice l’avesse voluto “chiamare a colloquio”. Questi gesti semplici e popolari esprimono una spiritualità soda e profonda… che è quella dei nostri nonni e dei nostri padri nella fede.
Ebbe del guareschiano la notizia del Crocifisso di san Marcello al Corso tornato in Vaticano su richiesta del Santo Padre: nell’ultimo film della serie italo-francese con Fernandel e Gino Cervi don Camillo, che nel frattempo è diventato Monsignore (ma non troppo), torna a sentire la voce del Cristo solo quando da Roma fa ritorno a Brescello. E così di slancio afferma: «Dio è più vicino qui che a Roma!». Bonariamente, il Crocifisso lo riprende e lo ragguaglia: «Don Camillo, Dio è sempre alla stessa quota… qui ti sembra più vicino perché qui sei più vicino a te stesso».
https://youtu.be/YFiRvOlRZqY
Da bambino quella scena m’incantava perché mi pareva impensabile che di millemila crocifissi che doveva avere attorno, quel povero prete ne sentisse parlare uno solo. Allo stesso modo in tanti si saranno chiesti: perché il Papa è andato a Santa Maria Maggiore o fino al Corso? Non ha icone sacre in quantità, in Vaticano? Ma poi le immagini sono indispensabili a pregare? Evidentemente no, come spiegava lo stesso Cristo al parroco di Brescello: così il pellegrinaggio papale mi ha commosso non perché questo o quel manufatto abbiano particolari virtù terapeutiche, bensì perché la loro stessa conservazione è pegno della memoria ininterrotta di quello stesso popolo che già una e molte altre volte nel tempo aveva trovato ristoro e riparo nella fede – che quelle immagini esprimono.
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Allo stesso modo e con questo stesso spirito proprio nella stessa Brescello (l’abbiamo letto) don Evandro Gherardi, l’attuale parroco, ha esposto nel portico della chiesa lo storico “Crocifisso di don Camillo”.
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Similmente Papa Francesco ha voluto l’antico Crocifisso Romano in Vaticano per invocare la grazia dell’aiuto divino nella resistenza alla prima epidemia globale che il nostro mondo conosca: ne parlavo con un caro amico, parroco anch’egli in un centro non più grande di Brescello (anzi di due: Pettorano sul Gizio e Cavate in Sulmona) e uomo dai grandi talenti artistici (non per nulla la diocesi ha caricato sulle sue giovani spalle l’ufficio dei Beni Culturali e della Nuova Edilizia di Culto). Don Oliviero Liberatore ha così voluto riempire la quiete di queste giornate di silenzio e preghiera con una vignetta guareschiana, che volentieri dona ai lettori di Aleteia per indicare a sé stesso e a tutti noi il giusto modo di intendere e di accogliere simili gesti: lungi dallo scadere nel feticismo, essi ricordano a noi stessi e al mondo che la fede da noi professata non inizia e non finisce con noi, e che già i nostri padri e le nostre madri attraversarono gravissime ore aggrappandosi alla croce del Redentore.