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Il nostro grazie a Laura, Sonia e a tutte le signore addette alle pulizie negli ospedali Covid

OSPEDALE TREVISO, SANIFICAZIONE
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Annalisa Teggi - pubblicato il 20/03/20
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Abbiamo intervistato due donne impegnate nella sanificazione degli ospedali: sono anche loro in prima linea con il resto del personale sanitario. “Entrare nelle stanze degli ammalati è dura; facciamo ancora meglio il nostro mestiere e portiamo loro un sorriso”

Ci chiamano sempre «donne delle pulizie», ma io ci tengo a dire alle ragazze che lavorano con me che noi siamo «le signore delle pulizie».

Ascolto questa frase al telefono, me la dice Laura Lanzaretti che lavora per una ditta che ha in appalto il servizio di sanificazione nell’ospedale Santorso di Vicenza. Non conosco Laura personalmente, abbiamo però deciso spontaneamente di darci del tu. Mi racconta cosa significhi lavorare dentro un ospedale alle prese con l’assalto del Covid 19. Perché oltre al personale medico e infermieristico, in un ospedale ci sono molti altri lavoratori in prima linea: addetti alla pulizia, personale della ristorazione, addetti allo smaltimento dei rifiuti. Non ci avevo pensato, eppure è vero e me lo ha fatto notare Maurizia Rizzo, Segretaria Generale Fisascat Cisl del Veneto. Mi ero rivolta a lei per chiederle un’impressione sulla situazione generale dei lavoratori in una delle regioni più colpite dall’epidemia e lei mi ha proposto questo sguardo che non avevo messo in conto: raccontare il dramma del contagio attraverso gli occhi di una squadra umile e invisibile, quella delle «signore delle pulizie», appunto.


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Così ho conosciuto Laura e anche Sonia Barattin, addetta alla sanificazione all’interno dell’ospedale Ca Foncello di Treviso. Sono due voci che mi hanno parlato all’unisono di paura, senso di responsabilità e compassione. Inutile negare che la loro professione sia scarsamente considerata dagli organi ufficiali e dalla gente comune. Laura lo sintetizza in modo schietto:

In queste settimane mi faccio forza pensando che devo far bene il mio lavoro, perché fondamentalmente è un bel lavoro. È un lavoro che dà soddisfazione, socialmente è importante. Invece il messaggio che passa sempre è che sia il lavoro degli «sfigati». Forse non è il lavoro dei sogni, ma è umile e di grande dignità; se fatto bene merita grande rispetto. Siamo abituate a essere gli ultimi, con nessun tipo di arroganza; non oseremmo mai paragonarci a un medico o a un infermiere. Ho un marito infermiere, sono consapevole di quanto importante sia il loro lavoro. L’ospedale è come un teatro: il cantante sulla scena è bravissimo, ma dietro c’è chi lo trucca e lo veste e poi c’è chi tira le tende. Non c’è dubbio sul valore immenso del lavoro dei medici e degli infermieri, ma ci siamo anche noi nella squadra.

Dice di non essere abituata alle interviste, eppure esprime molto bene il senso di un’amarezza per nulla rassegnata. Non è facile ma si va al lavoro, confessano entrambe. Hanno tanta paura, vedono coi loro occhi anche i malati più gravi che questo virus colpisce, loro sono lì accanto a quei pazienti esclusi dal contatto coi parenti. E finito il turno di lavoro tornano dalle loro famiglie, con le stesse apprensioni che abbiamo noi: i figli da aiutare nella didattica a distanza, la scelta consapevole di restare in casa, le faccende domestiche cresciute in maniera esponenziale. Gli elementi di questa storia si aggrovigliano, provo a sbrogliare la matassa in un racconto a più voci.

Per ogni millimetro strappato al virus

La giornata di Laura e Sonia, e di tutte le loro colleghe e colleghi, comincia presto: la sveglia suona alle 4.30 per essere in ospedale, operative, un’ora dopo. Salutano la famiglia un po’ prima dell’alba sapendo di andare in prima linea, nel luogo della cura che è tutt’uno con l’essere drammaticamente esposti al contagio. Vanno al lavoro e lo fanno, va detto, con uno stipendio irrisorio di 5 euro netti all’ora. Addette alla sanificazione è il loro ruolo ufficiale, ma noi le chiamiamo donne delle pulizie anche se rendere salubre un ospedale non è affatto come passare l’aspirapolvere a casa.

Chi opera nella sanità nell’ambito della sanificazione ha delle procedure molto specifiche e curate da sempre, non solo ora a causa del Coronavirus. Noi siamo abituati a pensare che quando entriamo in una stanza il malato che abbiamo di fronte è sempre ipoteticamente infetto, di conseguenza dobbiamo muoverci per salvaguardare al meglio i pazienti e proteggere noi. Normalmente abbiamo a disposizione dei semplici DPI (dispositivi di protezione individuale – Ndr), nel caso dei reparti Covid dove lavoriamo in questo periodo la procedura di protezione è completamente diversa.


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È Sonia a parlare e provo a immedesimarmi quando mi racconta nel dettaglio la procedura di vestizione che deve fare ogni giorno per poter entrare nelle stanze dei contagiati e nella terapia intensiva. C’è una zona di passaggio, un luogo di preparazione e allerta: occorre aiutarsi a vicenda per indossare il necessario.

Ci sono dei protocolli da seguire: entriamo in una stanza dove dobbiamo vestirci, abbiamo dei camici sopra la nostra divisa, dobbiamo indossare degli occhiali e la cuffia in testa, dei copri calzari, tre paia di guanti e la mascherina. Ciascuna deve essere vestita da una collega, perché non possiamo toccare nulla. Non ci si abitua. Ho aiutato una collega a vestirsi perché il camice va infilato dal davanti ma poi legato dietro e mi è venuto il magone.

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Entrare in un reparto Covid significa essere pronti a una condotta consapevole e difficile: per 4 ore non si beve e non si cede ad altre esigenze fisiologiche, perché i dispositivi di protezione non possono essere tolti. Dal canto suo l’emotività fa i conti con due fronti che si aprono in contemporanea: entrare tra i malati significa temere per sé e patire con loro. La realtà della malattia si svela e assume i volti di persone reali, persino di conoscenti; a loro ci si avvicina, e nessun camice o mascherina protegge davvero dal senso di fragilità che si legge su quei corpi e anche su di sé. Eppure il primo dei pensieri è tecnico, Sonia mi conferma la preoccupazione di fare bene il proprio mestiere:

Un paziente deve essere curato in una stanza pulita, non possiamo correre il rischio di curare un paziente non positivo al Covid in una stanza infetta. Siamo noi che rendiamo sana la stanza.

Le fa eco Laura:

I turni sono raddoppiati, stare 8 ore a pulire è pesantissimo. Ora è ancora più faticoso perché sentiamo tutta la premura di avere attenzione a ogni millimetro di superficie, magari proprio lì … in quel millimetro… c’è qualche particella di virus. Non possiamo trascurare nulla.

Mentre mi fa notare questo, non tace tutte le criticità tecniche che stanno affrontando nel frangente attuale. La scarsità di mascherine riguarda anche loro, gravemente, così come l’incognita dei tamponi da cui, a quanto si sa ora, sono escluse perché  ritenute non personale a rischio (questo aspetto è paradossale: certo, non hanno un contatto diretto col paziente, eppure puliscono i comodini, le testiere dei letti, le sponde). Tra i loro colleghi ci sono già degli infetti, ricoverati o in isolamento domestico. Tutta la gestione politica e sanitaria della pandemia è sovraffollata di questioni urgenti e aperte, l’emergenza è un assalto devastante su così tanti fronti. Che si possa intervenire anche in corsa sulla tutela dei lavoratori più esposti, ce lo auguriamo.


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Ma c’è una protezione che nessun decreto può dare, e a cui bisogna aver il coraggio di stare esposti e senza armi di difesa. Quando la stanza della vestizione è alle spalle e si passa oltre la linea rossa, cosa accade?

Adesso negli ospedali la cosa più assordante è il silenzio. Sembra il deserto dei Tartari. Tutti i reparti e gli ambulatori che non hanno priorità sono stati chiusi in attesa di questo picco che deve arrivare. Entrare nelle stanze degli ammalati e vederli collegati al respiratore è dura: molti ti fissano senza poter parlare e noi entriamo e cerchiamo di dare meno fastidio possibile, ma di far loro un sorriso.

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Curioso, non ci conosciamo eppure Laura ha tirato fuori il mio amato Buzzati. Averceli gli occhi di Dino qui, oggi. Avercelo il senso di attesa di Drogo nel Deserto dei Tartari (da rileggere subito, mi annoto). Come suonano taglienti e scritte quasi sulla nostra pelle queste parole: «Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontani; che se uno soffre il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita.»

Un sorriso a chi combatte da solo

Ci arrivano notizie tragiche, scampoli di informazioni che facciamo fatica ad ascoltare. Da Bergamo, Brescia, Cremona ci raggiunge l’eco di uno strazio prolungato che altrove sembra quasi incredibile. C’è quel pensiero che riaffiora: cosa accade alle persone in isolamento, costrette a patire la malattia senza avere vicino parenti e amici? Mi azzardo a chiederlo a Sonia senza troppi giri di parole, accorgendomi che loro – le signore delle pulizie – sono presenti a scalfire quella solitudine, che rimane certo dolorosa:

Vediamo molto la sofferenza sia negli ammalati sia negli operatori sanitari. Escludendo la terapia intensiva, quando entriamo in stanza cerchiamo di essere serene e parliamo coi pazienti; vediamo la loro sofferenza, piangono. È doloroso sapere che noi, che siamo nessuno per loro, possiamo vederli e i loro cari no. Cerchiamo di scambiare parole di conforto con loro, anche battute per tirarli su di morale.


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Accompagnata dal suo racconto, faccio un passo vicino all’incognita estrema, la morte. E c’è da testimoniare una cautela, una premura – per i vivi e per i morti – che l’emergenza non solo non impedisce ma amplifica; l’umano di cui è fatto un ospedale riempie di compassione anche i rigidi protocolli:

I decessi sono aumentati e quando accade un decesso, tutto si ferma in reparto perché si deve trasportare il corpo di una persona infetta: si deve portare rispetto al defunto, si cerca di non avere intralci nel corridoio e non si deve mettere in allarme gli altri pazienti. A una mia collega è capitato di vivere un momento drammatico: a seguito di 13 decessi la zona dove lei era in servizio si è fermata completamente, le infermiere sovraccariche di lavoro le hanno chiesto di andare a consolare un’anziana che stava piangendo. È entrata a consolarla, le mancavano i parenti e avrebbe voluto vederli. Noi siamo consapevoli che questo può capitare anche a noi.

Fossimo in una trama astratta, diremmo che ci vuole un’adeguata preparazione psicologica a sostenere il peso di una situazione simile e a confortare gli ammalati. Invece si è buttati nudi nella battaglia; mi sono limitata al silenzio e a condividere con Sonia la certezza che essere accanto a loro è tantissimo. Le parole che vengono spontanee sono giuste. Quel poco che è capace di dire e fare chi non era pronto a un compito simile sconfigge l’incubo di una disumana solitudine.

Il poco che resta: una battuta, un caffè, una doccia

Che poi, cosa significa pulire? Togliere, soprattutto. Viene subito in mente l’immagine del vetro che torna perfettamente trasparente. Questo contagio ci sta togliendo molte appendici sciocche che fino a qualche settimana fa ci sembravano essenziali. Ho voluto chiedere anche a Laura e Sonia, da ultimo, se nello stare a distanza ravvicinata con l’emergenza in corso hanno fatto pulizia dentro di sé e se è nato qualcosa di positivo nei rapporti con le persone accanto a loro. Laura ha un ruolo di responsabilità, sente il dovere di non cedere all’istinto del panico:

In questi giorni si vede tantissima paura, anche da parte delle ragazze più giovani che lavorano con me. Sono un capoturno e ho anche l’onere di rassicurare chi sta con me. Tra noi nessuna si è tirata indietro, tutte sono disposte a fare turni in più. Ci si rallegra con qualche battuta, portiamo una torta a fine turno, beviamo un caffè insieme. Noi stiamo dimostrando adesso che quando c’è bisogno, ci siamo. Lo facciamo perché non siamo sfigati, ma siamo responsabili.

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Quando oso domandare a Sonia se c’è qualcosa che porterà fuori dalla quarantena, lei mi porge un’ipotesi al plurale:

Il nostro sarebbe un lavoro che ti porta a lavorare da sola, ognuna ha il suo reparto da pulire. Ultimamente ci siamo più unite.

Tornando però al presente: quella giornata iniziata un po’ prima dell’alba come finisce? Immagino che tornare a casa dopo una lunga giornata in ospedale sia come sentirsi dei sopravvissuti. L’ultima istantanea che Laura mi lascia è sua figlia sulla porta che la aspetta ogni sera. Ma anche gli abbracci, ora, sono da conquistare e le parole più affettuose che escono sono:

«Aspetta, non abbracciarmi. Fammi fare la doccia»