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“Io resto a casa” è la nostra sfida impegnativa. E chi non ce l’ ha una casa?

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Annalisa Teggi - pubblicato il 16/03/20

C'è chi li addita come colpevoli di una diffusione più veloce del contagio, c'è chi si augura che il coronavirus li uccida. E poi c'è chi li aiuta ancora di più, i senzatetto: abbiamo intervistatato Maria Rosa Sabella che a Varese ha scelto di tenere aperto il centro diurno Il Viandante.

Varese non è colpita dal Covid 19 in modo tragico come Bergamo, Cremona, Brescia; ma è nella tanto flagellata Lombardia. Varese non è una metropoli come Milano e Roma, in cui ogni frammento di disagio sociale esplode a dismisura. È però una provincia che può raccontare le fatiche, i drammi e le piccole gioie che tutta la penisola italiana vive con diversi gradi di intensità. Sono tanti i volti nascosti che questa pandemia rischia di schiacciare in silenzio e ce ne sono alcuni che non sono affatto fotogenici. Le persone senza fissa dimora sono tra le presenze scomode da guardare e che facilmente si attirano invettive da parte dei più; c’è diffidenza nei loro confronti, anche paura e persino rabbia. Sono quelli che fanno notizia perché vengono fermati dai controlli e a volte multati a fronte della domanda: “Perché non sei a casa?”. Ma come vivono il dramma di questo contagio? È una domanda a cui non voltare le spalle. Si parla di circa 50 mila clochard sull’intero territorio nazionale di cui 8 mila nella sola Roma. Nel corso di una delle recenti conferenze stampa il capo della Protezione civile Borrelli ha dichiarato: “Ho già chiesto all’amministrazione, alla Regione e ai comuni di organizzare delle strutture di assistenza per i senza tetto sul territorio”.


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La cura dei più fragili contempla anche i reietti, quelli che sono esclusi da ogni vincolo di relazione. Per raccontare anche questo volto ferito dal contagio siamo partiti da Varese. Qui esiste un centro diurno chiamato Il Viandante e la responsabile Maria Rosa Sabella ci ha raccontato cosa è successo in queste ultime tre settimane in cui i numeri dell’epidemia sono decollati in modo esponenziale. Si tratta di una realtà piccola eppure significativa: normalmente arrivano in questo centro diurno dalle 60 alle 70 persone, quelle che soggiornano sono 35-40. Il 35% di questi senza fissa dimora sono italiani, solo 10 sono donne (a loro sono dedicati molti altri progetti, motivo per cui è ridotta la presenza femminile per strada). Qualcuno dorme nel dormitorio comunale, gli altri dormono per strada o dove capita. Si tratta di persone che sono state completamente abbandonate dalle loro famiglie o hanno scelto di rompere ogni legame familiare, persone sole o con dipendenze. Ci facciamo portavoci del messaggio che la signora Maria Rosa ha condiviso con noi: non possiamo essere caritatevoli solo quando le cose vanno bene, adesso non possiamo far finta di non vedere quello che da sempre facciamo fatica a guardare.

Cara Maria Rosa, vorremmo raccontare insieme a te per i nostri lettori di Aleteia For Her la realtà invisibile dei senza fissa dimora. Tu sei responsabile di un centro che li aiuta, mi descrivi innanzitutto chi siete?

La nostra associazione si chiama Camminiamo insieme ed è formata da una decina di volontari. Abbiamo in gestione un centro diurno che è sovvenzionato dalla Fondazione Arca di Milano, per quel che riguarda il rifornimento di cibo ci appoggiamo a Non solo Pane (che è parte del Banco Alimentare) e tutto il resto ci viene dalle donazioni dei cittadini. Il nostro non è solo un luogo di passaggio: c’è un medico che ogni settimana controlla la salute degli ospiti; c’è un avvocato che si prende carico di sistemare, dove è possile, le vicende personali; sono attive collaborazioni coi servizi sociali e psichiatrici.

Il centro diurno resta aperto normalmente dalle 11.30 alle 17.30: gli orari sono stati scelti perché c’è una mensa dei poveri, prima era gestita dai frati francescani ora è gestita direttamente dalla Caritas, e loro vanno prima a mangiare lì. “Loro” sono i senza fissa dimora, le persone in difficoltà economica, persone sole o con dipendenze. Il pranzo lo consumano attorno alle 11 e dopo vengono da noi, dove trovano dei dolcetti e scelgono una bevanda calda. Restano tutto il pomeriggio nei nostri locali: a disposizione hanno quello che ci viene donato (frutta, cose da sgranocchiare) e bevande (acqua, té). Facciamo un servizio di accoglienza e ascolto, ci facciamo carico di fare con loro un percorso di cura: ad esempio, persone che non erano abituate a curare l’igiene, ora si lavano regolarmente. Passano la giornata giocando a carte, dama e scacchi; ci sono a disposizione televisione, libri e giornali. In questo spazio di condivisione noi lasciamo loro tutto il tempo di aprirsi, cerchiamo di capire se qualcuno è intenzionato a rientrare in società e qualcuno di loro lo farebbe anche, il problema è che non c’è una rete dedicata a questo scopo. Non avere una casa implica il non poter avere un medico e non poter avere un lavoro. La legge stabilisce che dopo una settimana di permanenza in giro per la città l’autorità comunale debba emettere un certificato di residenza anche fittizia. Di fatto non accade, perché quel certificato implica il riconoscimento del “tu esisti” e se tu esisti allora ti devo aiutare … invece si finisce per far finta di non vedere queste persone.


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Arrivando alla crititicità di questi giorni in seguito all’epidemia – ora pandemia – del Covid 19, com’è la situazione a Varese?

Qui è tutto chiuso, anche la mensa sei senzatetto ha chiuso: dà loro un sacchetto fuori dai locali, che non comprende più il pasto caldo, e devono mangiare per strada. Di conseguenza noi abbiamo modificato i nostri orari, ampliandoli: garantiamo un accesso per tutta la giornata, così possiamo accogliere chi ha bisogno di andare in bagno o di stare fermo dieci minuti a prendere fiato. Il tutto senza creare assembramento, cioé facendo in modo che all’interno non ci siano più di tre o quattro persone. Facciamo i turni e li facciamo entrare a gruppetti, loro sono bravissimi: hanno capito perfettamente la situazione e si autogestiscono, non creano problemi. Però è da tre settimane che non si lavano, perché il servizio delle docce è chiuso. C’è carenza anche sul fronte abbigliamento, tutte le poche cose che noi abbiamo a disposizione le stiamo distribuendo. Quest’ultima settimana comincia a essere molto pesante per loro. Primo perché si sentono sporchi e non sono abituati a sentirsi sporchi; per quel che riguarda Varese, i senzatetto sono persone che per strada non riconosceresti. La situazione qui è diversa da quella delle grandi metropoli. Qualcuno tra loro adesso sta cedendo, anche perché si aggiunge il fattore dei controlli: con la chiusura totale degli esercizi, regolarmente vengono fermati e viene posta loro la domanda: “Come mai non sei a casa?”. Questo li sta uccidendo. Allora noi abbiamo stampato una certificazione che possono mostrare alle forze dell’ordine, in modo che non siano tenuti all’umiliazione di dover spiegare in prima persona tutte le volte la loro condizione. Non è facile dire ad alta voce: “Non ho una casa, dormo sulle panchine”.

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Hai intercettato molte parole di paura?

Sì, ho raccolto solo parole di paura. C’è preoccupazione perché anche loro hanno sentito le norme a cui attenersi, ma non riescono a mantenerle per quello che riguarda l’igiene e il lavarsi spesso. I luoghi dove si lavavano sono stati chiusi. C’è paura perché hanno timore di ammalarsi e che nessuno si accorga che stanno male. Li abbiamo rassicurati sul fatto che li abbiamo in mente uno per uno, se mancano all’appello per un po’ ce ne accorgiamo. Ci stiamo accordando con la Croce Rossa per organizzare delle visite. Prima c’erano dei bar e dei luoghi pubblici che li conoscevano e avevano un occhio di riguardo per loro, ora è tutto chiuso e devono stare fuori al freddo. Il cibo sta cominciando a scarseggiare, perché il Banco Alimentare non ritira più le rimanenze dai supermercati. Da tre settimane a questa parte vanno avanti a panini.

Come gestire la situazione d’ora in poi. Avete fatto ipotesi?

Il problema è la rete dei servizi. Il dormitorio comunale apre alle 18 e chiude alle 8 del mattino, in quello di Varese ci dormono 20 persone. Di queste 20 persone ne vengono da noi solo 5, perché gli altri sono individui che bevono, abituati a frequentare i bar, e dai noi è vietato introdurre alcolici. Quel dormitorio non è uno stanzone coi letti, è proprio formato da stanze con due o tre letti; spesso non ci sono più di due persone per stanza, a volte anche una sola. Un’ipotesi potrebbe essere quella di adattare questo servizio, mettendo un operatore che supervisioni gli ospiti, distribuendoli nelle stanze in modo stabile: potrebbero rimanere lì dentro e uscire solo per prendere i pasti.


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Un’altra idea è quella di adibire a luogo di accoglienza gli oratori che ora sono chiusi, però il punto che è c’è bisogno di chi si renda disponibile a gestire questo servizio. Varese non ha numeri grossi come Milano o Roma, sarebbe uno sforzo alla nostra portata. Per quel che riguarda il nostro centro, io ho deciso che non si chiude. A meno che non capiti che qualcuno di noi si ammali (e quindi di necessità si deve bloccare tutto), l’idea è di andare avanti con moderazione per continuare a dare un punto di riferimento ai senza fissa dimora. Adesso ne hanno ancora più bisogno. Non possiamo deluderli. La fiducia che ci siamo guadagnati in questi cinque anni, la perderemmo in un secondo. Rispettiamo tutte le norme: ci salutiamo a distanza con dei grandi sorrisi; ci laviamo bene le mani, qui c’è sapone a volontà per tutti; disinfettiamo i tavoli e i locali. Ma non chiudiamo e il nostro sorriso a loro vogliamo farlo vedere. Ognuno di noi desidera essere riconosciuto e accolto; lo merita anche chi da sempre è invisibile.

A questo proposito, quando la situazione dei senzatetto è emersa anche a livello di comunicazioni ufficiali della Protezione civile ci sono state reazioni assurde: commenti in cui i senza fissa dimora vengono additati come potenziali veicolatori del contagio, commenti ancora peggiori di chi si augura che questo virus li uccida. Come reagisci a tutto questo?

Voglio partire da un punto paradossale. C’è voluto un decreto per costringerci a renderci conto che incontrare i nostri amici è un bene prezioso. C’è voluto un decreto per ricordarci che stare in casa con la propria famiglia, senza per forza mettersi a bighellonare nei supermercati, è piacevole. Allora: occorre un decreto anche per farci riscoprire la nostra umanità? Possibile che non ci sia venuto da pensare che siamo noi i primi portatori del virus anche alle persone che vivono in strada? Chiediamoci: se a un senzatetto viene qualche linea di febbre, che sia per il coronavirus o per altre cause, come e dove può prendersi cura di sé? A noi è chiesto di isolarci in casa se ci ammaliamo, loro devono muoversi da una panchina al cantuccio di un palazzo.

E’ bello essere caritatevoli quando tutto va bene, e adesso non è più bello? Adesso la solidarietà non ci fa più sentire bene? E’ vero che a ciascuno di noi è chiesto un grandissimo impegno con tutti i propri cari da seguire. Quello che dico è che non si può chiudere gli occhi per l’ennesima volta su questa realtà, su queste presenze che facciamo finta di non vedere.

Segnali positivi dai tuoi concittadini ne hai visti?

Sì, sono stata molto sorpresa. Molte persone sconosciute si sono rese disponibili a fornire tutto il cibo necessario. Qualcuno ha telefonato al centro per sapere come stanno i nostri ospiti. Questo mi segnala che, anche se le risposte operative non sono ancora arrivate, c’è gente che non trascura il pensiero dei senzatetto. Quando si parla a livello teorico di accoglienza dei migranti, dei senza fissa dimora e dei profughi salta sempre fuori il problema del degrado: dove ci sono queste persone, arriva il degrado. Io rispondo sempre: il degrado ce lo abbiamo noi nel cuore, perché ci riduciamo a far finta che questa povertà non esista e non abbiamo voglia di proporre qualcosa che risolva i problemi. Non mi è ancora capitato di vedere un paese in cui i poveri siano al primo posto.


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Tu, però, li hai messi al primo posto nella tua vita. Ti dedichi a questi invisibili e credo tu possa dirci che guadagno personale ne custodisci.

Ho cominciato occupandomi di bambini e posso dire che vedere il sorriso, dopo tanti anni, sul volto di un bimbo abusato o abbandonato ti cambia dentro. Poi ho avuto l’opportunità di seguire questi adulti senza fissa dimora. All’inizio mi hanno messo a dura prova perché, a differenza dei bambini, non potevo guidarli con un comando; ad esempio non potevo dire: “Adesso ti siedi e mangi”. Però per tanti versi questi adulti sono come dei bambini da accudire: anche a loro devo far capire che il valore della loro presenza è importante, nello stesso modo in cui lo insegnavo a un bambino abbandonato. Stiamo parlando di persone che per gran parte sono state abbandonate dalle famiglie, oppure hanno scelto volontariamente di allontanarsi dalle famiglie e poi sono state abbandonate da tutti quelli a cui hanno chiesto aiuto. Ed è pure peggio. Il nostro compito è quello di far arrivare a loro il messaggio che c’è un’altra possibilità ed è un compito difficile perché non dobbiamo essere la loro ennesima delusione. Tutto questo ha messo a dura prova la mia razionalità, ho dovuto accettare il fatto che non posso fare miracoli. Ero partita con tantissimi progetti, irrealizzabili. Da questa sferzata di umiltà ho guadagnato una certa caparbietà, difficile da spiegare: è quella che ora mi fa tenere aperto il nostro centro, anche se alcuni mi rimproverano. Non posso rischiare, chiudendo la porta, di perdere la fiducia guadagnata in anni di lavoro. Magari dovremo chiudere per altri motivi necessari, ma non vogliamo chiudere ora per paura. Io non camminerò mai nelle scarpe loro, ma posso affiancarli a passo uguale.

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