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“Viene prima il medico o il prete?”: domanda sbagliata che genera confusione e danni seri

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Una penna spuntata - pubblicato il 10/03/20
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Attenzione perché una religiosità esasperata e malintesa rischia di sfociare, inconsapevolmente, in una condotta per nulla cristiana e dannosa per il prossimo. Inizierò raccontandovi un delizioso aneddoto che, purtroppo, non posso circostanziare: l’avevo letto, anni fa, riordinando un archivio cui non ho più accesso, tra le carte di un religioso di cui non ricordo il nome. Non pensavo ovviamente che ne avrei mai parlato, quindi non mi son segnata i riferimenti. Mi rendo conto che vi sto chiedendo un atto di fede, ma: date per buono che non me lo sia sognato stanotte.

Siamo all’incirca negli anni ’30; siamo ad Addis Abeba, terra di missione. Due automobili cariche di giovani frati e seminaristi stanno viaggiando in aperta campagna, in una località assai distante da ogni insediamento urbano. Ed ecco, la tragedia: il nostro frate perde il controllo della sua macchina e va a implaccarsi contro una parete rocciosa. Prontamente soccorso dai confratelli che viaggiavano sulla seconda automobile, il poveraccio è decisamente malmesso: perde vistosamente sangue, ha ferite dappertutto, fatica a restare vigile. Mentre lotta contro la sonnolenza, sente con orrore uno dei confratelli ordinare a un terzo: “Presto! Prendi la macchina e vai a cercare un prete, digli che c’è un moribondo!”. (Tra i presenti, nessuno era stato ordinato sacerdote).
Con le ultime forze che gli restano, il frate ferito rantola orripilato “Non andare a cercare un prete!! Vai a cercare un medico!!”. Suscitando così lo sdegno del solerte soccorritore, che ribatte: “Fratello!! Stai forse dichiarando che rifiuti sacramenti?!”.


NURSE
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Rantola il povero frate sputando sangue: “Non è che rifiuti i sacramenti, è che preferirei possibilmente non morire”.
Long story short: vivaddio, i soccorritori si danno una regolata e puntano diretti verso l’ospedale, ove recuperano un medico che, effettivamente, salverà la vita al religioso. A distanza di diversi decenni, egli avrebbe citato questo episodio nelle sue Memorie, quale esempio di come una religiosità esasperata e malintesa rischi di sfociare, inconsapevolmente, in larvate forme di fondamentalismo (o comunque, di eccesso).

A suo tempo, avevo riso molto leggendo questo aneddoto, e avevo scosso il capo pesando “altri tempi, altre mentalità! Meno male che adesso non cadiamo più in questi eccessi!”.

Poi il coronavirus è arrivato in Italia, le diocesi delle regioni interessate hanno sospeso le Messe “aperte al pubblico” e, con mio grande sconcerto, l’Internétte cattolico è uscito di testa. Dando voce a istanze che, francamente, davvero non avrei mai aspettato di ascoltare, in Italia, nel 2020, da laici al di sotto degli ottanta o novant’anni.
Tra chi sostiene che Dio renderebbe immune dal contagio chi lo sfida pur di andare a Messa (!!) e tra chi ritiene che l’ostia consacrata non possa in alcun modo trasmettere malattie “perché la carne di Cristo non può essere infetta”, si aggira per l’Internétte un vasto campionario di confusa umanità alla quale io guardo con stupefatta fascinazione, continuando a ripetere: what a time to be alive!
Soprattutto se sei una storica della Chiesa.

Ieri, l’amico Giovanni invocava una mia parola moderatrice “in quest’ora delicata, mentre l’Italia è percorsa da sciami di messafondaj determinati a immunizzare il Paese con unzioni di Crisma”. Di lì a poco, su Breviarium, Marco Rapetti Arrigoni faceva eco al mio articolo raccontando altri casi di vescovi illuminati di fronte a una epidemia di colera, il che è uno scambio molto bello ma che, con molta evidenza, non è servito a un tubo.
Ergo: essendo così perplessa da faticare alquanto a trovare ulteriori parole adatte per moderare questo bizzarro fenomeno antropologico, ho deciso che oggi lascerò parlare un professionista. E, in particolar modo, il dottor Henry de Mondeville, uno stimato chirurgo che, nel corso della sua professione, si è effettivamente trovato a dover gestire situazioni simili.

Il chirurgo e Dio

Henry de Mondeville è morto nel 1320, ma cerchiamo di sorvolare su questo dettaglio.



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Mondeville era un chirurgo. Ed era anche un credente.
Mi direte che lo erano tutti, nel Medioevo: sì, ma lui era un credente vero, ci teneva veramente tanto ad essere un buon cristiano. Il suo monumentale trattato sulla Chirurgia si apre con una dedica

a onore, lode e gloria del Signore Gesù Cristo e della beneamata Vergine sua madre, e dei Santi Martiri Cosma e Damiano

(patroni dei medici).
E insisto: il suo non è un pro forma. Mondeville stesso si sentiva oggetto di una speciale grazia che gli consentiva, “miracolosamente e contro il giudizio unanime dei medici”, di sopravvivere nonostante una brutta tubercolosi. Il professionista è molto chiaro:

senza l’aiuto di Dio, il chirurgo che si occupa del trattamento del corpo umano viene meno al suo scopo. […] Che dunque il chirurgo, durante le sue operazioni, abbia dinanzi agli occhi Dio, e Dio lo illuminerà nel momento del bisogno.

Eppure, Dio non è un… dispensatore automatico di miracoli. E, così come

ai chirurgi orgogliosi ed illetterati […] il nostro presente saggio non sarà di alcun aiuto

(perché – come è noto – “non vi è peggior sordo di chi non vuol sentire”, e un chirurgo orgoglioso e illetterato rifiuterà probabilmente di ascoltare i consigli di colleghi come Mondeville), allo stesso modo sarà bene ricordare che

Dio stesso non viene in aiuto a coloro che lo disprezzano.

Una opinione teologicamente opinabile, ma che va inserita nel contesto. Mondeville ce l’ha con quegli individui che, aderendo a una visione evidentemente assai comune all’epoca, ritengono Dio causa di tutti i mali.
Come se Dio s’alzasse la mattina e dicesse “toh, c’ho a portata di mano una polmonite, un sarcoma e un morbo di Parkinson: a chi li mando?”. Col risultato che

queste persone non si curano e non si affidano ai medici se non nel caso delle malattie che provengono da una causa esterna, come le ferite e le fratture.
[…]
E quando si chiede loro: “Vuoi essere guarito?” loro rispondono: “Non da una mano umana: ciò non è possibile né piacerebbe a Dio, perché se egli lo volesse io sarei guarito immediatamente”. E vergognosamente respingono chirurgi eccellenti e con esperienza nella cura di quelle malattie.


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Secondo Mondeville, il teologo che ragiona secondo questi criteri è, nel suo campo, un ciarlatano tanto quando lo è, nel campo medico, il chirurgo che, non riuscendo a guarire una ferita, sostiene che “se ne è impossessato il male di Sant’Eligio”, o che, di fronte a una diagnosi difficile, scrolla le spalle e dice “eeeeehh, è la collera divina”.

A ognuno il suo, dice Mondeville. Alla proposizione “solamente Dio può guarire le malattie”, lui ne oppone con fermezza un’altra:

l’Ecclesiaste dice al trentottesimo versetto “Onora il medico perché egli è necessario”, rivelando manifestamente che Dio non guarisce da solo le malattie, come invece credono alcuni.

Medico e prete, insieme

Mondeville non aveva la minima intenzione di mettersi in polemica con la Chiesa. Anzi, era dell’idea che i due terapeuti per eccellenza (cioè, il professionista medico e Iddio, per tramite dei suoi ministri) potessero collaborare con grande e reciproco beneficio.

Ecco. Però, c’era un frangente nel quale questa collaborazione rischiava pericolosamente di incrinarsi, e cioè quello delle cure da dispensarsi ai moribondi (e, peggio ancora, ai moribondi che diventavano tali a seguito di un fatto improvviso. Tipo il mio frate incidentato, per capirci).

A partire dal IV Concilio Lateranense, la Chiesa aveva cominciato a sottolineare con grande insistenza l’importanza della confessione dei fedeli e, soprattutto, dei malati gravi. Il Concilio di Ravenna (1311) arrivava addirittura a diffidare i medici dal visitare una seconda volta il paziente che, dopo il primo consulto, non si fosse confessato.

Posso immaginare che la raccomandazione avesse lo scopo di “metter la strizza addosso” a quei malati che potevano permettersi di perder tempo, a causa di malattie gravi ma dal decorso lento. E fin lì.
Il problema vero però si veniva a creare laddove, al capezzale dell’infermo colpito da male gravissimo e improvviso, arrivavano contemporaneamente un medico e un prete, tutti e due ugualmente smaniosi di prestare al malato le proprie cure.

Mondeville non se la sente di sfidare l’autorità dei preti, e quindi raccomanda ai suoi studenti di farsi da parte per il tempo strettamente necessario a

che si siano compiute tutte le altre cose che secondo le prescrizioni della fede cattolica bisogna fare

partendo dall’auspicabile presupposto che il prete sia una persona di buon senso. Si presume infatti che

se il prete vuole per prima cosa ascoltare la confessione, è perché secondo lui il pericolo è più grande per l’anima che per il corpo – e il primo soccorso va portato là dove il pericolo è maggiore.


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Allo stesso tempo, però, Mondeville si appella molto umilmente alla coscienza dei sacerdoti, invitandoli a non essere troppo frettolosi nell’anteporre la salute spirituale a quella fisica. Bisognerebbe tenere ben presente che

il confessore salva solo l’anima del penitente; i chirurgi […] salvano un dito, una mano, qualche volta un braccio, e in tal modo la vita dell’artigiano povero e malato. Se quello morisse, morirebbero anche sua moglie e i suoi bambini, che egli sfama col suo mestiere.

Non oso immaginare che cosa direbbe Mondeville a gente che scrive sui social cose tipo “il più efficace farmaco contro il coronavirus non può che essere l’Eucarestia, e se tu non ci credi non sei un vero cristiano” (lo scrivono davvero, eh. Tipo, a me).
Non oso immaginare, ma sospetto che Mondeville non direbbe niente e passerebbe direttamente alla violenza fisica, come si desume dal gustoso aneddoto che l’autore riporta subito dopo (parlando di se stesso in terza persona e definendosi “sciocco chirurgo”, come spesso faceva).

Ebbene, in un caso eclatante

a proposito di questa alternativa (ossia chi dovesse officiare per primo) vidi uno sciocco disputare con un ignorante fino al momento in cui, mentre aspettavano un parere terzo

(!!! Al capezzale di un moribondo, sottolineo!)

i due vennero alle mani. Alla fine fu il chirurgo ad averla vinta, perché era il più forte e il più ostinato.
Va detto che, su questo argomento, una cosa è agire secondo la scienza medica e un’altra è agire secondo la fede.

Avendo interessi terapeutici diversi, è ragionevole che in alcuni casi il medico e il sacerdote possano avere priorità diverse.

Ecco, sarebbe però carino se i religiosi la smettessero di

pretendere di ricevere da Dio glorioso la Scienza Infusa con la quale sanno guarire le malattie (che vengono inviate dai santi e che sono un Dono di Dio e dei santi),

con l’aggravante di far derivare

questa speciale grazia non dallo studio ma dalla pura provvidenza del Salvatore.

E pensa che ai tuoi tempi non c’erano ancora le epidemie social, amico mio.

QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO DA UNA PENNA SPUNTATA