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Ci salverà l’amuchina o l’Ostia consacrata?

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Aleteia - pubblicato il 27/02/20
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Che senso ha curare il corpo senza salvare l’anima? Affidarsi alle competenze della scienza non esclude il bisogno spirituale di mettere in mano a Dio la nostra salvezza. Di Stefano Bataloni

Ci salverà l’Amuchina o l’ostia consacrata? Prima il medico o prima il prete?

Domande che si affacciano in questi giorni di lotta del mondo contro una brutta influenza [La letalità del Covid-19  è superiore di 20 volte a quella della normale influenza, ma inferiore di 5 volte a quella della Sars. I casi di influenza (normale) in questo inverno e in Italia sono arrivati a 5,6 milioni, con una stima di circa 6-7000 morti collegate, verificatesi per lo più in pazienti già ammalati -NdR].
E domande che si ripresentano abbastanza puntualmente di fronte alla sofferenza per malattia.
Non penso di avere gli strumenti e le competenze per dare risposte soddisfacenti, però quelle sono domande con le quali mi sono confrontato più volte nel corso di una fase importante della mia vita, quella che iniziò nell’estate del 2008, come sa chi mi conosce da un po’.



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Il mio secondo figlio, Francesco era nato da poche decine di minuti, ma con quasi 3 mesi di anticipo, il suo peso era di un solo chilogrammo. La sua vita era appesa ad un tubo infilato nella sua trachea e ad una macchina che lo faceva respirare, essendo i suoi polmoni ancora troppo immaturi per farlo da soli. È bastato uno sguardo con Anna e la decisione di battezzarlo seduta stante è arrivata in un attimo. Francesco ricevette il primo sacramento il giorno stesso in cui nacque, in un reparto di terapia intensiva neonatale, per opera di una (santa) infermiera.
Seguirono 4 mesi di cure mediche, di gioie e di fatiche, non risparmiammo nulla, ci affidammo a delle brave dottoresse. Francesco ora ha 11 anni, gioca a basket ed è in preparazione per la cresima.

Sempre in quella estate, il fratello maggiore di Francesco, Filippo, si ammala di leucemia.
In quei giorni, mai l’avremmo immaginato, iniziò una battaglia che sarebbe durata sei anni.
Affrontammo con convinzione la chemioterapia e poi un primo trapianto di midollo osseo. Non ci arrendemmo di fronte ad una seconda recidiva e nemmeno alla terza, che comportarono il ricorso a nuova chemioterapia, a due altri trapianti di midollo e ad una terapia sperimentale.
Fummo sempre a fianco a fianco con i medici, fiduciosi nel loro operato e nelle terapie che somministravano, ma eravamo anche sempre con la corona del rosario in mano e centinaia di persone che pregavano per noi, perché sapevamo che la vita di Filippo non era solo nelle mani dei suoi medici.
Avremmo potuto fermarci tante volte lungo il percorso di quei sei anni; lo facemmo solo dopo la quarta recidiva. Filippo, negli ultimi suoi giorni, ricevette la prima comunione e l’unzione degli infermi per il tramite di un (santo) prete, e tornò al Cielo al cospetto del Santissimo Sacramento.



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Traggo queste conclusioni dalla mia storia.
Innanzitutto ringraziamo Dio che oggi possiamo porci quelle domande di cui sopra: c’è stato un tempo, anche molto lungo, in cui l’Amuchina non esisteva e i medici, quando erano a portata di mano, avevano ben poche armi per combattere le malattie. In quel tempo era quasi inevitabile precipitarsi a chiamare il prete per far somministrare i sacramenti al malato.

La scienza medica ha fatto progressi enormi nell’ultimo secolo, non si contano le malattie che hanno afflitto l’umanità e che ora sono state debellate, esistono oggi terapie raffinatissime ed estremamente efficaci, i progressi sono all’ordine del giorno. Eppure la complessità dell’organismo umano, in buona parte svelata, è elevatissima; le diversità tra un individuo e l’altro sono talvolta radicali, l’agire degli stessi medici non è certamente quello di un automa. La medicina, quindi, non è la matematica.

Esiste un margine, che forse mai si esaurirà, in cui la scienza non capisce e non può nulla, ed è proprio lì che l’intervento divino si può contemplare, e si deve invocare, quanto meno da chi professa che Dio è creatore del cielo e della terra.

D’altra parte, sempre a mio modesto parere, la questione in fondo è: mi fido più del medico o del prete?
Esiste certamente il rischio di credere che la scienza, a causa della sua imperfezione, non possa nulla e che solo Dio e i sacramenti possono guarirci dalle malattie; ma questo io non lo credo: la scienza è un dono di Dio e non può che concorrere alla salvezza dell’uomo.
D’altra parte trovo molto più concreto il rischio che alla luce degli odierni prodigiosi progressi tecnici e scientifici ci si affidi soprattutto (quando non unicamente) al medico, considerando il prete quasi inutile o al massimo la proverbiale “ultima spiaggia”, per poi cadere nel panico quando il medico non avesse più risorse.

Ecco perché sebbene le cure sul piano “sanitario” non possano essere confuse con quelle sul piano “spirituale”, entrambe devono comunque necessariamente andare di pari passo, senza che si rinunci alle une o alle altre: che senso avrebbe curare il corpo senza salvare l’anima?
Epperò, alla luce della mia esperienza, intimamente io credo che la cura dell’anima, tanto più in un malato, sia più importante.
Mio figlio non è guarito dalla sua malattia, pur, come detto, avendone provate tante. Ma io non sono mai stato lì ad inseguire una terapia piuttosto che un’altra come fosse la medicina ad ogni suo male, come se fosse la chiave della sua felicità.



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Piuttosto ho cercato, per quanto potevo e nei limiti della sua età, di trasmettergli la fiducia nel fatto che la sua meta finale non era in questa vita, che tutto quanto stesse vivendo era in preparazione di quella.
Che lui sia giunto a quella meta è per me una certezza; la consapevolezza di poterlo raggiungere, quando Dio vorrà, non mi pone dubbi sul fatto che io ho soprattutto bisogno del prete e dell’ostia da lui consacrata.

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