Un “campione cattolico” lo definivano i giornali, ma Bartali, quanto quella fede che si intravedeva chiara nello sport e nella vita, fosse reale e radicata nel suo cuore, lo ha dimostrato nel privato, nelle vicende lontane dai riflettori e da quella stampa anni ’50 troppo enfatica e spesso di parte.Non ho idea di come la Conferenza Episcopale abbia accolto la notizia di Bartali come oggetto d’esame alla maturità. Probabilmente, con sommo disinteresse: giustamente, che gliene importa?
Eppure, ci fu un tempo non lontano in cui fraticelli e monache e sacerdoti di tutta Italia avrebbero innalzato al cielo un’ovazione popolare, venendo a sapere che lo Stato aveva deciso di proporre Bartali come esempio di vita ai maturandi. Sì, perché il Ginaccio fu, per anni, un vero e proprio idolo per la cattolicità italiana (e con “cattolicità” non intendo i laici appassionati di ciclismo: no no, intendo proprio monache e preti e vescovi). E tutto ciò, prima ancora che fosse nota la sua attività a difesa degli ebrei negli anni del Fascismo, su cui le tracce d’esame hanno deciso di soffermarsi.
Il fatto gli è, amici e lettori in linea, che Gino Bartali era un buon cattolico. Punto e a capo.
Era, nel suo privato, un cattolico convinto – non uno di quelli che sventolano la fede per guadagnarsi qualche titolone, ma poi chissà se credono davvero. No: Bartali era un cattolico vero e fervente, come non mancavano di testimoniare ai cronisti i suoi amici e persino qualche religioso. Sicché, quando il ciclista comincia a diventar famoso (grossomodo, dopo la sua vittoria del Giro d’Italia nel ‘36), la stampa cattolica comincia a parlare di lui come del Magnifico Atleta Cristiano per eccellenza.
A Bartali come ciclista cattolico è dedicato un intero capitolo nel bel Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la Guerra fredda di Stefano Pivato, che ho già citato su questi schermi. L’esaltazione di Bartali come atleta pio e devoto è un crescendo lento e inarrestabile che, a partire dal 1936, è destinato a farsi sempre più radicato. Già nel 1937, il tifo cattolico per Bartali è così consolidato che, dalle pagine del Corriere, Orio Vergani può descriverlo in questi termini:
La voce si è sparsa rapida, ha raggiunto le chiese e i conventi. Non s’è mai visto un Giro d’Italia con tanti vecchi preti sulla soglia della chiesa, magari con un bandierone in mano. Un Giro d’Italia con tanti fraticelli che aspettano pazientemente sotto gli alberi. Un Giro d’Italia con tanti seminaristi allineati sui viali fuori porta e con tante monache che portano fuori dal cancello della loro scuoletta le bambine che battono le mani anche loro.
Ma questo entusiasmo popolare è ancora nulla, se paragonato a quello che esploderà, di lì a poco, di fronte alla strepitosa vittoria di Bartali al Tour de France del 1938, oltretutto maturata in un clima politico alquanto teso tra Italia e Francia. In quel caso, la stampa non esita a definire Bartali un “crociato” dalla fede “semplice e ardente”, riuscito nell’impresa di far stravincere “in terre libertarie ed atee” i salutari valori della fede cristiana.
Quali potessero mai essere questi valori della fede espressi attraverso una vittoria in bicicletta, io lo ignoro, ma la stampa di quegli anni sapeva indicarli con disinvoltura. Bartali – si scriveva – è un grande campione proprio perché è un grande cattolico: la sua regolarità di vita, le sue abitudini rese moderate dalla sana temperanza cristiana, il suo spirito di abnegazione che lo porta a vedere il suo lavoro come una sorta di vocazione – ecco: tutto questo contribuisce a fare di lui un grande atleta. Un Bartali che se non fosse anche cattolico non riuscirebbe mai ad arrivare alle vette di perfezione che la pratica religiosa, invece, è stata in grado di donargli.
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Non stupisce, di conseguenza, l’aperta insofferenza mostrata dal fascismo nei confronti di tutta questa esaltazione a natura confessionale. Mussolini voleva che Bartali fosse percepito – in Italia, ma soprattutto all’estero – come il grande campione fascista, non come il grande campione stinco di santo.
La continua sottolineatura della religiosità del ciclista, oltretutto, aveva l’imbarazzante capacità di mettere in discussione il modello di “perfetto atleta fascista” propagandato dal Regime. Gli sportivi di Mussolini dovevano essere espressione di “quell’uomo nuovo” fascista dalla virilità possente e ostentata (spesso accompagnata, nei sottintesi, da un largo contorno di allusioni a una vita sessuale attiva e variegata). Bartali, invece, era osannato dalla stampa cattolica come giovane uomo “casto per convinzione morale e igienica”; giovane uomo che – come sottolineava con polemica non velata la Rivista dei Giovani – non ha alcun bisogno di “distinguersi per essere un porcellino scatenato”. Peggio di così, si poteva giusto scrivere che la morale cattolica è meglio della morale fascista…
E dunque non stupisce che, a un certo punto, il Regime decida di farla finita con questo confronto sotterraneo. Il 9 agosto 1938, a qualche giorno di distanza dalla vittoria al Tour de France, una velina del MinCulPop ordinava a tutti gli organi di informazione di finirla una buona volta con questa propaganda da oratorio: “i giornali si occupino di Bartali esclusivamente come sportivo, senza inutili resoconti sulle sue giornate di libero cittadino”. E che siamo: organi di stampa di regime, o bollettini parrocchiali della domenica?
E anzi: sui giornali più vicini al fascismo, si comincia a irridere, se non direttamente Bartali, quantomeno la sua tifoseria. Se il ciclista diventa (affettuosamente?) “il fraticello”, i suoi sostenitori cominciano ad essere dipinti come una massa di rozzi creduloni che, durante le gare, gli offrono delle immagini. San Gennaro in prima fila, poi in ordine sparso S. Teresa, S. Calisto o che so io. Naturalmente queste immagini hanno delle virtù miracolose, sono state fatte benedire apposta, e tutte le sere tutti questi reverendi dedicano una mezzora di preghiere perché Bartali vinca il Giro. O così, almeno, assicurava Schermo sportivo.
Solo moltissimi anni più tardi, sarebbe stata resa nota l’attività di resistenza al regime che Bartali aveva effettivamente portato avanti, aiutando centinaia d’ebrei a mettersi in salvo. Per il momento, bastavano una fede sincera e una condotta privata un po’ troppo “bigotta” per attirarsi le antipatie del Fascio. Nel luglio ’37 la Rivista dei Giovani denunciava come ridicolo e stolto il
tentativo di rendere antipatico un atleta soltanto perché ha sviluppatissimo, oltre che il sistema muscolare, il senso morale,
e in effetti, al di là dei toni provocatori, non si era molto lontani dal vero…
E poi vi fu la guerra. Le attività sportive si interruppero. Bartali impiegò quegli anni con quelle attività eroiche che ormai conosciamo tutti. E poi la guerra finì e riprese l’attività agonistica, in una Italia in cui nulla era uguale a prima… tranne una cosa: il fatto che Bartali fosse uno straordinario campione.
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Ormai trentatreenne – una età non più giovane, per un atleta – Bartali compie imprese prodigiose: nel 1946, vince il Giro d’Italia; nel 1947 si aggiudica la Milano-Sanremo; nel 1948, trionfa al Tour de France. Ma non è finita: nel 1949, anno che vede la consacrazione sportiva di Fausto Coppi, Bartali è secondo dietro di lui sia al Giro che al Tour; mica male. Nel 1950, ri-vince la Milano-Sanremo; nel 1952, a trentotto anni, si aggiudica la maglia di campione d’Italia.
E indovinate a cosa viene attribuita la straordinaria prestanza di questo atleta che stravince tutto e ovunque, all’alba dei quarant’anni?
Sì, bravissimi: di nuovo, alle sue rette abitudini di buon cristiano, a
questa norma di vita religiosa che ha messo sul ritmo di un orologio la sua vita morale e fisica”, giacché “una vita cristiana e cristianamente vissuta è un mezzo idoneo per ottenere i successi anche terreni (cfr. Il Popolo, 27/07/48).
Per di più, Bartali è un campione che è rimasto umile. Come sottolinea Stadium (04/49),
le tentazioni, i trionfi, i denari della grande città non l’hanno né allettato né mutato: egli è rimasto l’artigiano, il contadino, il lavoratore toscano, attaccato alla sua gente, alla sua terra, alla sua casa
– e alla sua famiglia.
Un elemento, quest’ultimo, molto importante ai fini dell’esaltazione cattolica del ciclista, soprattutto se calcoliamo che il suo grande rivale, Fausto Coppi, era andato a infilarsi in una situazione sentimentale a dir poco scandalosa: accecato dall’amore per la Dama Bianca, il campionissimo aveva abbandonato moglie e figlia (che fu sola soletta senza il suo papà persino in occasione della sua Prima Comunione, come la stampa cattolica rimarcò più d’una volta).
Pubblico peccatore (e, oltretutto, trasgressore delle leggi, in un’Italia in cui l’adulterio era reato) Coppi – sebbene campione trionfante – cominciò ad essere additato da molti organi stampa come l’atleta cattivo: fortissimo, sì, ma protagonista di deplorevoli vicende. Oh, quanta differenza, quanta triste lontananza con l’esempio positivo fornito da Gino Bartali, vero interprete di una luminosa e fede cristiana che rischiara ogni ambito della vita!
L’adulterio di Coppi contribuisce a cementare, nell’immaginario popolare, la leggendaria rivalità tra lui e Bartali, che presto assume, nell’Italia del dopoguerra, connotati che vanno ben oltre la competizione sportiva. A Bartali, ormai divenuto simbolo dell’Italia democristiana, si contrappone l’immagine di un Coppi che tutti si immaginano filo-comunista….mostrando, peraltro, una immaginazione abbastanza sfrenata: nei primi anni della sua carriera, Coppi aveva più volte dedicato alla Vergine le sue vittorie e donato a scopo le sue biciclette a questo o quest’altro istituto religioso. Prima dell’abbandono del letto coniugale, la stampa cattolica ne aveva addirittura esaltato le sue virtù di padre, stupendosi non poco di come alcune testate sinistrorse si ostinassero a ritenerlo un comunista in pectore. E, in effetti, tanto bolscevico Coppi non doveva esserlo, se, nel 1948, aveva posato assieme a Bartali in un manifesto elettorale a favore della DC.
A consolidare l’immagine del Coppi comunista, in contrapposizione alla moderazione politica del suo rivale, contribuisce sicuramente la straordinaria vittoria “cattolica e democristiana” di Gino Bartali al Tour de France del 1948. E per spiegare in che modo una gara sportiva possa avere ripercussioni partitiche, andrà specificato che la più grande impresa ciclistica del Ginaccio si svolge esattamente nelle stesse ore dell’attentato a Togliatti. Mentre il leader del PCI viene assalito a colpi di pistola all’uscita da Montecitorio, Bartali si sta giocando il tutto e per tutto nella tappa Cannes-Biançon, staccando di venti minuti il secondo classificato e portandosi a soli ventuno secondi dalla conquista della maglia gialla. Il giorno dopo ripete l’impresa, stra-vincendo in solitaria ad Aix-Les-Bains. Le radiocronache della straordinaria impresa si inframmezzano ai bollettini medici sulle condizioni di Togliatti e ai ben più allarmanti resoconti su sui disordini di matrice comunista che l’attentato ha ingenerato. La CGIL proclama uno sciopero generale; ovunque, gli operai scendono in piazza; nelle grandi città del Nord, numerose fabbriche vengono occupate. A Torino, l’amministratore delegato della FIAT viene sequestrato dai suoi operai armati; sul Monte Amiata, i minatori manomettono le linee telefoniche bloccando i contatti tra Nord e Sud. In numerose città volano colpi di pistola tra manifestanti e polizia, e, negli scontri di piazza, sedici persone perdono la vita. L’Italia sembra seriamente sul baratro di una rivoluzione di stampo comunista…ma è un falso allarme. Due giorni dopo, viene revocato lo sciopero generale e gli operai ritornano al lavoro.
I titoli dei giornali non mancano di enfatizzare il ruolo di Bartali come salvatore della Patria: la sua straordinaria vittoria sportiva avrebbe allentato la tensione rivoluzionaria, placando gli animi e appianando le diversità in nome di una esultanza collettiva.
Poco conta, il fatto che questa fantasiosa interpretazione non trovi alcun reale riscontro nei fatti. I militanti del PCI hanno sempre attribuito la loro “ritirata” a un senso di responsabilità che li ha indotti a frenare la rabbia popolare per non gettare il Paese nell’instabilità. I rapporti dei prefetti inviati al Ministero non fanno minimamente cenno agli umori delle folle influenzati positivamente dall’impresa bartaliana: semmai, il merito d’aver evitato la catastrofe viene dato al giusto mix di fermezza e moderazione usato dalle forze di polizia.
Chi invece non sembra nutrire il minimo dubbio sul ruolo di Bartali come salvatore della Patria è – di nuovo – la stampa cattolica: Il Popolo si spinge addirittura a scrivere che la corsa sulle piste francesi è stata indubitabilmente protetta dalla Madonna.
È la definitiva consacrazione del ciclista come Magnifico Atleta Cristiano (…e democristiano). Nel 1951, un volumetto per bambini edito da Vallecchi e dedicato a I grandi campioni del ciclismo si spinge addirittura a definire Bartali Il corridore santo, descrivendo così le prodezze dell’atleta:
Un giovane, non sappiamo se più cattivo o più pazzoide, aveva tentato di uccidere un importante uomo politico e per poco il nostro paese, dopo tutto il dolore e le rovine della guerra, non conobbe anche gli orrori della rivoluzione. Le città, le nostre belle città, avevano assunto un volto strano. Gruppi di persone si aggiravano per le strade con visi e atteggiamenti poco rassicuranti. I negozi erano chiusi, i tram non funzionavano, i giornali non venivano venduti. Ogni tanto le sirene delle auto della polizia spandevano un suono lugubre di sventura. Pareva di essere tornati ai tempi dell’emergenza. Nessuno rideva, tutti erano cupi in volto. La paura, l’odio, i sentimenti più terribili si leggevano sui visi dei rari passanti. Nelle case le donne tremavano al pensiero di dover i figli, i fratelli, i mariti con le armi in mano.
Ma una sera la radio annunciò che Gino Bartali aveva riconquistato la maglia gialla al Tour. La notizia passò più rapida di un fulmine, legò i gruppi dei cittadini in allarme con un nastro tricolore, ricordando a tutti che eravamo italiani. La gente sorrise: dalle città, dalle campagne si levò come un grande sospiro di liberazione. Di nuovo, nella gioia di una bella vittoria sportiva italiana, ci risentimmo uguali e ci riguardammo con amore.
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Un uomo mandato dalla Provvidenza per davvero, quella specie di eroico santo in terra che con la sua dedizione al lavoro aveva salvato l’Italia dalla rivoluzione bolscevica!
E pensate che ancora non ci conoscevano le sue eroiche che lo avrebbero portato a diventare Giusto tra le Nazioni. Solo negli anni Ottanta divenne di pubblico dominio la notizia dell’impegno di Bartali a favore degli ebrei – e se da un lato mi vien da dire “mannaggia!” (sarebbe stato gustosissimo leggere quest’ulteriore scoop nelle enfatiche cronache anni ’50), dall’altro sono portata a pensare “meglio così”.
Se davvero di santo in terra si trattò (ai posteri l’ardua sentenza, se parrà il caso), è noto che i santi non amano la pubblicità eccessiva!
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