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Paola e Giorgio: siamo innestati in Dio, anche l‘insostenibile è stato un dono di amore

PAOLA, GIORGIO, TORINO
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Aleteia - pubblicato il 03/01/20
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Intervista a una coppia di Torino: sposati in missione in Brasile e poi tornati in Italia, hanno conosciuto il dolore di perdere un figlio e la gioia di crescerne cinque. Poi la malattia di lei è stata un’altra prova della compagnia di Dio: “Ci ha voluti per stare bene con Lui e per la felicità. E questo arriva”.Di Massimo Ippolito

Paola e Giorgio Bozzola sono una coppia che abita in provincia di Torino, precisamente a Betlemme. Hanno avuto 7 figli. Dodici anni fa Paola si è ammalata di Parkinson e due anni fa hanno perso il loro primogenito. All’inizio del 2019 Paola ha accettato di sottoporsi a un intervento che le prometteva di riappropriarsi del suo corpo.

Ciao Giorgio, che cos’è la speranza?

A questo riguardo ti voglio raccontare una storiella non mia. Fede, speranza e carità sono tre sorelle che si tengono per mano. La fede e la carità sono le sorelle maggiori e ciascuna dà una mano alla sorellina che cammina al centro. Pare che siano le sorelle maggiori ad aiutare la piccolina, si scopre invece il contrario: sebbene piccolina rispetto le altre, è la speranza che conduce e regala forza alle altre due. Questa è la speranza (Charles Péguy).

Paola, ci racconti come è iniziata la vostra storia d’amore?

Ci siamo incontrati mentre preparavamo un viaggio missionario, organizzato dalla diocesi di Ivrea, in Brasile. Ci siamo conosciuti meglio una volta arrivati in terra di missione, dove ci siamo messi insieme. Questo nel 1989 e ci siamo sposati nel settembre del 1990 con l’obiettivo di partire poi per il Burundi per un progetto di cooperazione. E invece di fare la lista nozze abbiamo devoluto il ricavato (28 milioni di lire del tempo) per questo progetto in Burundi. Nel frattempo è scoppiata la guerra fra Hutu e Tusti, e abbiamo dovuto cambiare continente, così siamo ritornati in Brasile e precisamente a Barreiras, a 900 km da Salvador di Baja. Siamo arrivati in Brasile con il primo figlio, Giuseppe, di un anno, e lì è nato Tiago. Non è stato facile partorire in terra di missione.



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Per quanto ancora siete rimasti in missione?

Per altri due anni. Poi siamo tornati in Italia, Giorgio è ritornato a fare il farmacista e io avevo studiato per fare l’educatrice e la maestra. In Italia è poi arrivato il terzo figlio: Elia! E dopo la quarta figlia, Noemi, ho ricominciato a lavorare come insegnante di scuola materna dove mi portavo due figli al seguito. Sono stati anni di grande salute e di grande impegno: facevamo gruppo con alcuni genitori per l’educazione dei figli, facevamo un lavoro di coppie con degli amici nostri. Tutti lavori in cui non eravamo protagonisti ma un po’ i facilitatori. Organizzavamo incontri per coppie un po’ a casa nostra, un po’ in parrocchia e intanto cresceva l’idea di una comunità, qualcosa che ci permettesse di vivere come cristiani in questo mondo che si stava e si sta scristianizzando e anche perché fosse più semplice per i nostri figli crescere in un contesto ‘lanciante’ dove certi valori non li vivi solo come marito e moglie, ma lo vivono anche le altre famiglie che hai accanto. Così questo diventa, per i figli, più credibile e anche più sostenibile.

Sento molti genitori solleticati da questa idea, ma voi lo avete fatto veramente.

Eh sì, abbiamo iniziato a pensare dove costruire questa comunità ed è così che siamo approdati a Betlemme (in provincia di Torino). È iniziata una storia un po’ sofferta, un po’ come tutte le storie con Dio, dove trovi degli ostacoli non piccoli. E ricordo che di fronte a una immagine della Sacra Famiglia chiedevamo al Signore se ci voleva lì oppure no. Abbiamo allora acquistato a caro prezzo il terreno e abbiamo costruito la struttura per ospitare la comunità che nasceva. I figli erano già 6, erano arrivate anche Sofia e Maria. Un figlio, il settimo, è stato perso al terzo mese, il suo nome è Angelo. Quindi adesso abbiamo 5 figli con noi e due in Cielo: Giuseppe e Angelo.

Puoi raccontarci di Giuseppe?

Nel 2015 gli è stato diagnosticato un melanoma, un neo nel collo che poi è degenerato. Giuseppe ha vissuto altri due anni e mezzo. Ha subito subito due interventi, ma nel giro dei successivi sei mesi sono spuntate metastasi ovunque. Giuseppe aveva 26 anni quando è morto il 9 Dicembre 2017, era agnostico e da quando è mancato, il Cielo è diventato molto più vicino, veramente. Quando è mancato ci ha fatto un sorriso spettacolare, ci ha fatto un sorriso illuminato e illuminante. E’ stata la testimonianza di un Cielo in cui lui non credeva ma che è diventato evidente. Per me il Paradiso era una grande speranza ma da quando abbiamo visto gli occhi di Giuseppe che ci han salutato è diventato una certezza, ma davvero! Proprio lui che si dichiarava non credente ci ha dato una testimonianza luminosa, di come è morto, di come ha accettato la malattia, di come ci ha insegnato a ironizzare sulla morte. Noi stavamo per andare a fare il classico giro al cimitero, qualche tempo prima che morisse, era Novembre, lui ci disse: “Mah, non so se venire anche io, tanto tra un po’ mi ci portate..”. Che mazzata che fu, ma aveva un senso di verità sempre molto presente.


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Come hai vissuto l’agnosticismo di Giuseppe?

Dopo un’emorragia importante e dopo la riabilitazione, Giuseppe aveva chiesto di venire a casa. Tiago, il secondogenito, che vive in Svezia – lì fa il medico ricercatore – è tornato in Italia per assistere il fratello fino alla fine. E anche Tiago è un altro figlio che si dichiara ateo. E va bene così. Noi diciamo al Signore “questi sono figli tuoi, noi li accompagniamo per un pezzo, gli diamo quello che sappiamo dare e poi che facciano il loro percorso, va bene così.” Del resto il figlio che ci è mancato ci ha fatto vedere un pezzo di Paradiso, proprio lui che non ci credeva. Perché dobbiamo preoccuparci? Questa consapevolezza che siamo limitati, che siamo qui per un certo periodo e che la sofferenza comunque è temporanea, ci accompagna sempre. In questo periodo di sofferenza la famiglia si è stretta molto intorno a questo fratello per vivere intensamente il tempo che ci era stato messo a disposizione. Per noi questo percorso doloroso è stato un percorso di grande speranza e di grande salvezza. A me avevano diagnosticato il Parkinson nel 2009, ma era già presente dal 2007.

PAOLA, GIORGIO, BOZZOLA

Paola e Giogio Bozzola

Giorgio, come è sopravvissuta la vostra coppia a queste vicende?

Siamo usciti ancora più uniti da questa vicenda e anche la malattia di Paola ci ha unito ancora di più. Abbiamo visto che molte coppie si sono separate a causa della malattia proprio perché le difficoltà sono tante, quando c’è una persona malata in casa questo comporta grandi limitazioni per entrambi. Ma sia la malattia di Giuseppe sia la malattia di Paola hanno stretto ulteriormente i legami familiari. Giuseppe, dopo l’emorragia, ha lasciato l’ospedale con una emiparesi totale, abbiamo fatto grande fatica a metterlo sulla sedia a rotelle e poi lo abbiamo portato nella sua camera a casa, era un ragazzo di 104 Kg quindi non è stato facile. Abbiamo combattuto fino alla fine: prima le dita dei piedi e poi la gamba che ricominciava a muoversi sono stati miracoli dell’amore. Sta di fatto che la gamba aveva riacquistato le sue funzioni e io ho ancora un dolorino qui (indica il gomito) a forza di muovere la sua gamba. Giuseppe aveva iniziato a recuperare anche le dita della mano, prima di morire era riuscito anche a fare una passeggiata fuori casa fin dai vicini che distano a 100 metri da noi. Forse la cosa più bella è stata vivere la malattia di nostro figlio alla luce di un tempo che sapevamo fosse a termine, ma non ci siamo mai arresi, la famiglia ha provato a vivere con lui tutti i momenti possibili, con grande intensità e senza tristezza, ma con grande verità.

E come c’entra Dio con un figlio che si ammala? Cosa chiedevate a Dio?

Noi abbiamo fatto un pellegrinaggio a Oropa, a piedi da Betlemme (70 km), in due giorni. Paola aveva già il Parkinson e ha partecipato anche lei. Ma tutto questo non tanto per chiedere la guarigione di Giuseppe, quanto che non soffrisse. E da quel punto di vista effettivamente il dolore fisico non è stato rilevante in questa malattia. Mentre noi facevamo il pellegrinaggio lui era ancora autonomo e né lui né Tiago (il secondo figlio) vennero, proprio perché agnostici. Vennero in tanti della nostra comunità di Betlemme e ripetemmo il pellegrinaggio negli anni successivi, ad oggi lo abbiamo fatto per 3 volte. La prima fu 1° Maggio 2017, perché era la festa di san Giuseppe.


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E il vostro rapporto di coppia, nel periodo della malattia di Paola, è cambiato?

Diciamo che la malattia influisce molto sulla vita. L’ha costretta a non essere più come era prima, Paola è una persona piena di vita, non si risparmia. Certamente, con una malattia che ti impedisce il movimento, non riusciva quasi più a mangiare… aveva tantissime limitazioni. Quando poi ha deciso di fare l’operazione si è definita risorta! La malattia va sempre avanti ma i sintomi sono stati controllati in maniera eccellente. Praticamente uno non si accorge che è malata. E’ stata operata nel Febbraio 2019 e i risultati si son visti subito (Giorgio sorride di gioia).

Adesso ti vedo sorridere, ma questa speranza è stata messa a dura prova in questi anni.

Io ho imparato a non pensare troppo al futuro, ce n’era già abbastanza nel presente. Anche l’idea di costruire la Comunità è stata un po’ faticosa ma mi sono fatto trascinare da Paola. Adesso siamo contenti di come sta andando la Comunità e il bello è che non possiamo dire che ce la facciamo perché siamo forti ma riusciamo a dire con consapevolezza che ce la facciamo perché siamo deboli, perché vedi che anche nelle altre famiglie della comunità ci son difficoltà dal punto di vista della salute. Però siamo così contenti perché siamo arrivati all’inizio dell’anno (all’inizio di ogni anni si iscrivono le famiglie alle catechesi della loro comunità) con così tante iscrizioni da non sapere come gestirle (l’anno scorso erano 110 persone da accogliere nei locali della Comunità).

La nostra forza non siamo noi ma chi ci accompagna, abbiamo iniziato in 5, tre anni fa. Il secondo anno avevamo Giuseppe malato, il terzo anno Paola era peggiorata, però il progetto era così bello che alcune famiglie son passate da ‘utenti’ a ‘formatori’ e quest’anno c’erano sei coppie di catechisti e in più abbiamo messo in campo anche i nostri figli, ad aiutare.

In cosa consiste l’intervento a cui si è sottoposta Paola?

La Stimolazione Cerebrale Profonda (o DBS – Deep Brain Stimulation) consiste nell’impianto chirurgico di elettrocateteri nelle aree del cervello deputate al controllo dei movimenti, e, inoltre, di un dispositivo medico, simile a un pacemaker cardiaco, vicino alla clavicola. Il pacemaker invia degli impulsi elettrici agli elettrodi situati nelle aree cerebrali profonde, bloccando i segnali che provocano i sintomi motori disabilitanti. Il dispositivo, inoltre, può essere comandato senza fili tramite un programmatore esterno che consente di adeguare i parametri della stimolazione qualora fosse necessario.


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Paola, agli inizi dell’ultimo anno (2018/2019) in cui tu eri ‘ai minimi termini’ ti saresti immaginata di migliorare così tanto?

Non ci ho pensato, la mia salute era peggiorata così tanto che era impossibile fare previsioni. Il mio obiettivo era fare quest’intervento a Febbraio 2019 e non immaginavamo esiti così positivi come quelli che oggi vedi. Quando stai male fai un affidamento totale al Signore e ai medici, per cui il problema del futuro non esisteva proprio.

Tuo marito, prima, ha detto le stesse cose: “Era già impegnativo vivere il presente”…

Ero in totale disautonomia, non riuscivo nemmeno più a bere, ho patito la fame, la sete. Però anche quello svuotamento totale, anche della propria dignità, ha avuto un senso. La mia famiglia è stata brava perché non mi ha mai fatto sentire un peso. Qualche volta io mi sono sentita un peso però mi dispiaceva che, dopo quello che avevamo vissuto con Giuseppe, che era stato così illuminante, ci fosse un’altra cosa così dura da vivere, anche per i figli. Mi sembrava in qualche momento anche un po’ ingiusto che dopo quella grande sofferenza ci fosse anche la mia sofferenza. Ed è questo che mi ha fatto decidere di fare questo intervento.

Mi parlate ancora di queste catechesi che tenete presso la vostra casa?

L’anno scorso abbiamo dovuto chiudere le iscrizioni perché il parroco continuava a mandarci gente, ma noi non sapevamo più dove metterla. Abbiamo un salone comune abbastanza grosso ma non ci stavamo e allora abbiamo deciso di fare gli incontri nel cortile anche in inverno, speravamo che non piovesse e non nevicasse. Non avevamo altra scelta. L’incontro si svolge così: si dice l’argomento della serata, abbiamo poi la ‘sigla’ (sorridono entrambi) e infine ci si divide in gruppi per le catechesi : il primo di adulti, il secondo di ragazzi e bambini e poi il terzo gruppo di bambini più piccoli (attivato solo nell’ultimo anno).

Non avendo niente da fare, avete potuto organizzare anche con calma, tutte queste cose…

Certo, certo. Non avevamo proprio niente da fare (sorridono). Però guarda, io ho visto proprio che a volte serve proprio farsi da parte. Questo facilita il fiorire di altri. Noi, in questi incontri, siamo stati molto aiutati dalle altre coppie che venivano, il giorno stesso o quelli precedenti alla catechesi, per sistemare il tutto.

PAOLA, GIORGIO, BOZZOLA

Paola e Giorgio Bozzola

Paola, Dio lo sentivi mentre stavi male?

Sì, tantissimo. Ho sempre sentito una grande vicinanza di questo Dio che si china sulla tua sofferenza. Spesso durante queste catechesi io stavo molto male e tornavo in camera, una volta ho visto – terminata la catechesi – tutti i gruppi riunirsi nel salone e li osservavo dalla finestra della mia camera e dicevo: “Signore, grazie! Questa è proprio Betlemme, cioè la famiglia di Nazareth che, malgrado le fatiche, è qui che vive”. E questo mi ha dato una forza nella malattia, incredibile. Incredibile.

In cosa la malattia ti ha bloccata? Cosa volevi fare e non potevi fare?

Tutto. Ormai non potevo più fare niente. La notte di Natale (a due mesi dall’intervento) ho provato ad andare alla messa ma al canto d’ingresso ho iniziato a tremare in un modo tale che ho chiamato Tiago perché venisse a riprendermi. E anche alla messa dovetti rinunciare. Quando sei nella malattia ti rendi conto di come Dio ti è vicino. Nella gioia certe cose non le capisci, a volte le intuisci, nel dolore invece le tocchi.

Pensando a te ho pensato a Simone di Cirene che ha ricevuto la Croce, pesantissima, che poi gli è stata tolta.

Sì, assolutamente. Ho di nuovo la mia vita. Dopo l’operazione hanno settato il sistema e il neurochirurgo ha detto: “Bene, abbiamo finito. Si metta le scarpe e cammini.” E io mi sono alzata e ho camminato, mi sono sentita veramente risorta. Mi sembrava troppo bello per essere vero. Mi ricordo che Giorgio mi ha telefonato, io mi sentivo proprio una persona nuova: mi avevano tolto il tremore, tolto il dolore, riuscivo a camminare e a bere. Mi sono sentita proprio liberata da questa morte della malattia. Non immaginavo andasse così bene, sentivo la presenza di Dio e mi fidavo. Ma devo ringraziare anche il chirurgo che mi ha operato e che sento di ringraziare profondamente, un nome che è tutto un programma: Lanotte Michele Maria Rosario. E dopo Lanotte è arrivato il giorno.


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Sono felicissimo di vederti messa così bene, ma in quanto a grinta eri al 100% sul Calvario e sei al 100% ora. Pare tu sappia andare solo a tavoletta…

Mi sono resa conto, in questa fase della vita, che il fare è sicuramente una dimensione importante, ma è l’essere innestati in Dio che cambia la storia di ognuno di noi. Poi, per il fare, il Signore manda gli operai per la messe, il fare è semplice ma affidarsi al Signore per noi non è diventato semplice, ma familiare sì.

Tu che sei una mamma che ha perso un figlio, che diresti a una mamma che ha perso un figlio?

Che la storia non è finita e che l’amore continua. Cioè noi lo abbiamo sperimentato che non è un perdere. Io penso che nostro figlio stia bene, io non mi preoccupo più per lui. E’ finita in un modo, doloroso, sì, ma soprattutto luminoso. Come diceva Giorgio, non abbiamo chiesto al Signore di guarirlo. Abbiamo chiesto al Signore la forza di affrontare questa cosa e che questa malattia di Giuseppe fosse un’occasione di conversione per noi e per quelli che ci vivono intorno, e così è stato. Infine abbiamo chiesto che Giuseppe non avesse dolore. E queste grazie le abbiamo avute tutte, tutte. Il Signore lo ha liberato dal dolore, tranne gli ultimissimi giorni, perché quello che aveva (metastasi ovunque) avrebbe potuto portare a dolori insostenibili.

Cosa diresti ad una mamma nelle condizioni in cui eri tu fino a qualche mese fa, con una salute molto compromessa e con dei figli non ancora grandi?

Io posso dire che Dio è buono e che Dio ama, basta. E quindi siete in una botte di ferro, anzi una botte di amore. La certezza che Lui sa e accompagna è sufficiente, tutto il resto sembrano cose insormontabili e insostenibili e invece diventano possibili. Ecco, posso ripetere che la sofferenza è temporanea. Che non siamo nati per soffrire. Dio ci ha voluti per stare bene con Lui e per la felicità. E questo arriva. Serve il coraggio per crederci, ogni giorno. Poi ci sono sofferenze molto più pesanti delle mie, che si protraggono per decine di anni e sono pesantissime. Ma anche qui, la sofferenza è a termine. Siamo fatti per la risurrezione, per la pienezza e finché queste cose non arrivano vuol dire che la storia, la mia storia, non è ancora finita.