Ho tredici anni e la maggior parte della mia vita l’ho condivisa con Filippo.
Ci siamo conosciuti nel momento più difficile della vita di entrambi: eravamo
in ospedale e lottavamo contro la leucemia. Ci siamo ammalati a due anni e le cure a cui eravamo sottoposti ci impedivano di andare a scuola e di frequentare altri bambini. La nostra unica compagnia era rappresentata dai medici.
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All’inizio, giocare insieme e diventare amici sembrava frutto della necessità di superare la solitudine, finché poi ho capito che, anche se non fossimo stati in quella situazione, saremmo comunque diventati amici.
Avevamo tante cose in comune, soprattutto la passione per gli animali, ma eravamo capaci di litigare per fare un puzzle: io lo iniziavo dal bordo, mentre lui da dove capitava. Però lui è l’unica persona al mondo che capiva fino in fondo le sofferenze fisiche, dovute sia alla malattia che alle cure, che provavo. Ha condiviso con me la frustrazione di non potersi ribellare ad un prelievo di sangue ed è accorso in mia difesa quando una delle infermiere mi ha rimproverato per un mio capriccio.
Siamo cresciuti insieme e abbiamo superato il periodo di isolamento con la volontà comunque di stare insieme anche fuori dall’ospedale. Lo zoo era la nostra meta preferita, ma anche i compleanni festeggiati a casa sua al mare sono state occasioni di immensa felicità.
Nel frattempo le cure su di me avevano l’effetto desiderato, mentre su di lui non funzionavano. Io proseguivo la mia vita come tutti i ragazzini della mia età, mentre Filippo era di nuovo in isolamento in ospedale. Fisicamente eravamo separati, ma io ero comunque vicino a lui a combattere.
C’eravamo prefissati degli obiettivi: farci costruire una casa sull’albero, diventare veterinari, fare un viaggio in Africa.