Dopo aver diagnosticato la malattia del “funzionalismo”, Papa Francesco si rivolse alla patologia che dell’altra è forse il rovescio – sulla medaglia dell’ateismo – quel cattivo coordinamento che si mostra indifferente riguardo alla missione della Chiesa (e al proprio destino).
C’è una cosa che amo del mio lavoro e che amerei la Chiesa facesse di più e meglio: i consuntivi. Quando c’è una riunione di redazione si comincia sempre dall’analisi dei numeri: cosa è stato letto di più, quali link sono stati più condivisi, quali contributi hanno innescato i migliori dibattiti… e cosa invece è andato male, cosa si poteva (e doveva) far meglio. Questo non perché la verità sia democratica – ci mancherebbe –, ma perché è stupidamente superbo pensare di poter prescindere da una rigorosa e onesta verifica. Il lavoro, ogni lavoro, esige questa verifica.
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Ora, purtroppo questo manca o è ampiamente perfettibile in quasi ogni ambiente ecclesiale di mia conoscenza: nelle parrocchie, nelle diocesi e più in alto ancora… quando va bene si fanno le programmazioni (e già non è poco), ma scarseggiano i consuntivi. Non mi sono ancora spiegato perché accada questo, almeno nel nostro contesto ecclesiale: forse è perché le “attività d’impresa” sono “a fondo garantito”, per così dire, e non sembra esserci rischio che – nell’immediato – la stessa sussistenza della Chiesa dipenda strettamente dall’intelligenza con cui si gestisce. Ho sempre pensato a queste cose, quando ho riletto e meditato la “quinta malattia” spirituale diagnosticata alla Chiesa da Papa Francesco nel suo discorso di auguri natalizi alla Curia romana del 2014 (attendiamo per domani quello dell’anno corrente):
La malattia del cattivo coordinamento: quando le membra perdono la comunione tra di loro e il corpo smarrisce la sua armoniosa funzionalità e la sua temperanza, diventando un’orchestra che produce chiasso, perché le sue membra non collaborano e non vivono lo spirito di comunione e di squadra. Quando il piede dice al braccio: “non ho bisogno di te”, o la mano alla testa: “comando io”, causando così disagio e scandalo.
Mi è sempre piaciuto che il Papa abbia posto questa malattia subito dopo quella “dell’eccessiva pianificazione e del funzionalismo”: non direi che l’una sia “l’eccesso opposto” dell’altra, perché rarissimamente in fatto di cose cristiane stat in medio virtus; mi pare piuttosto che l’una sia il rovescio dell’altra su di un’unica moneta – falsa – ossia l’assenza di fede. Forse, a parità di incredulità, la malattia del cattivo coordinamento è perfino più peccaminosa dell’altra, perché mentre quella cerca di rendere la Chiesa un’azienda dall’organigramma umanamente perfetto questa si gode indolentemente lo status quo e lascia che le necessarie cure procrastinate ricadano altrove o in altro momento.
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Nella miniserie televisiva del 2002 Ioannes XXIII, di Giorgio Capitani, gli autori Francesco Scardamaglia e Massimo Cerofolini posero sulle labbra di Giovanni XXIII – mi pare alla fine del primo episodio – un dialogo con certi suoi collaboratori (se non ricordo male proprio col giovane don Capovilla, il segretario particolare), di cui riporto a memoria lo svolgimento essenziale:
– Stavo pensando: a che punto siamo con l’annuncio del Vangelo nel mondo?
– Santità, mi scusi, non capisco…
– Dico il comando missionario che ci ha dato il Signore: a che punto siamo?
– [elusivo] …siamo al punto cui ci ha condotti lo Spirito Santo…
– Non è sufficiente! Bisogna fare di più!
– [faccia sbigottita] Di più?
Chiaramente non si può fare “di più” di quanto lo Spirito ci consenta di fare – anzi sarebbe blasfemo anche solo pensarlo –, ma quando mai esaminando la nostra coscienza alla luce delle grazie ricevute troviamo di aver cooperato con esse al massimo delle nostre possibilità? Ecco un altro consuntivo – il primo – che difetta tanto nelle nostre vite (e la scarsa pratica della Riconciliazione non è se non un sintomo e un effetto di questa carenza fontale, ché non ci si può esaminare solo in vista della Confessione): da quel buon vecchio gesuita che è, Papa Francesco insiste moltissimo sull’esame di Coscienza – a ben vedere, uno dei Leitmotive del suo magistero omiletico.
La mattina del 4 settembre 2018, presiedendo la messa in Santa Marta, il Papa
ha suggerito «una preghiera bella che noi possiamo fare tutti i giorni, prima di andare a letto, guardare un po’ la giornata» e domandarsi: «Ma quale spirito ho io oggi seguito? Lo spirito di Dio o lo spirito del mondo?». E il Papa ha fatto notare che «questo si chiama fare l’esame di coscienza: sentire nel cuore cosa è successo in questa guerra interiore, e come io mi sono difeso dallo spirito del mondo che mi porta alla vanità, alle cose basse, ai vizi, alla superbia, a tutto questo». Dunque, «come mi sono difeso dalle tentazioni concrete?». Si devono «individuare le tentazioni». E «questo si fa come preghiera, prima di andare a letto, oggi: quali sentimenti ho avuto. Individuare qual è lo spirito che mi ha spinto a quel sentimento, mi ha ispirato quel sentimento: è lo spirito del mondo o lo spirito di Dio?».
Facendo l’esame di coscienza con questa preghiera serale, ha affermato il Pontefice «tante volte, se siamo onesti, troveremo che “oggi sono stato invidioso, ho avuto cupidigia, ho fatto questo”». E «questo è lo spirito del mondo». Ma, ha insistito Francesco, è opportuno «individuarli» questi sentimenti, «perché questo è vero: tutti noi abbiamo dentro questa lotta, ma se noi non capiamo come funzionano questi due spiriti, come agiscono, non riusciamo ad andare avanti con lo spirito di Dio che ci porta a conoscere il pensiero di Cristo, il senso di Cristo».
Il consuntivo giornaliero del bilancio spirituale, che deve cominciare dai dati. Il 22 dicembre 2015 il Santo Padre aveva addirittura fatto distribuire in Piazza San Pietro, dopo l’Angelus, un libretto per introdurre le persone a questa pratica (“Custodisci il cuore”, si chiamava). Queste le domande che proponeva:
ESAME DI COSCIENZA
Consiste nell’interrogarsi sul male commesso e il bene omesso: verso Dio, il prossimo e se stessi.Nei confronti di Dio
Mi rivolgo a Dio solo nel bisogno?
Partecipo alla Messa la domenica e le feste di precetto?
Comincio e chiudo la giornata con la preghiera?
Ho nominato invano Dio, la Vergine, i Santi?
Mi sono vergognato di dimostrarmi cristiano?
Cosa faccio per crescere spiritualmente? Come? Quando?
Mi ribello davanti ai disegni di Dio?
Pretendo che egli compia la mia volontà?Nei confronti del prossimo
So perdonare, compatire, aiutare il prossimo?
Ho calunniato, rubato, disprezzato i piccoli e gli indifesi?
Sono invidioso, collerico, parziale?
Ho cura dei poveri e dei malati?
Mi vergogno della carne di mio fratello, della mia sorella?
Sono onesto e giusto con tutti o alimento la “cultura dello scarto”?
Ho istigato altri a fare il male?
Osservo la morale coniugale e familiare insegnata dal Vangelo?
Come vivo le responsabilità educative verso i figli?
Onoro e rispetto i miei genitori?
Ho rifiutato la vita appena concepita?
Ho spento il dono della vita?
Ho aiutato a farlo?
Rispetto l’ambiente?Nei confronti di sé
Sono un po’ mondano e un po’ credente?
Esagero nel mangiare, bere, fumare, divertirmi?
Mi preoccupo troppo della salute fisica, dei miei beni?
Come uso il mio tempo?
Sono pigro?
Voglio essere servito?
Amo e coltivo la purezza di cuore, di pensieri e di azioni?
Medito vendette, nutro rancori?
Sono mite, umile, costruttore di pace?
Chiaramente ogni consuntivo parte dai dati ma non può fermarsi ad essi, anzi i dati sono praticamente inservibili se non se ne individua il trend, l’orientamento, la tensione: posso aver commesso un peccato, nella giornata, ma me ne sono accorto prima di commetterlo o no? E ho lottato per resistere alla tentazione oppure ho ceduto di schianto? Le risposte a queste domande non dicono anzitutto quale girone d’inferno ci sia destinato, ma (molto più utilmente) quale sia lo stato di salute del nostro spirito, che comprende e sostiene (trascendendola!) la coscienza morale.
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A questo punto – e proprio perché ripudiamo uno stile di vita fatto “come se Dio non ci fosse” – acquista senso estendere il consuntivo alle relazioni ecclesiali (domestiche, parrocchiali, diocesane, universali): se non è più l’indolenza a farci ignorare il necessario coordinamento tra le membra ecclesiali, che cos’è?
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Papa Francesco parla di “chiasso” che si produce «quando le membra perdono la comunione tra di loro e il corpo smarrisce la sua armoniosa funzionalità e la sua temperanza»: evidentemente ha ancora in mente il concetto di “armonia pneumatologica” del punto prima, ma questa volta la dimensione ecclesiale sembra farsi ancora più esplicita e concreta, riecheggiando le plastiche immagini usate da Ignazio di Antiochia (grande teoreta della Chiesa, oltre che appassionato discepolo di Gesù Cristo). Questi due tratti peculiari del grande Padre Apostolico vennero descritti da Benedetto XVI in una memorabile catechesi il 14 marzo 2007:
«È bene per voi», scrive per esempio ai cristiani di Efeso, «procedere insieme d’accordo col pensiero del Vescovo, cosa che già fate. Infatti il vostro collegio dei presbiteri, giustamente famoso, degno di Dio, è così armonicamente unito al Vescovo come le corde alla cetra. Per questo nella vostra concordia e nel vostro amore sinfonico Gesù Cristo è cantato. E così voi, ad uno ad uno, diventate coro, affinché nella sinfonia della concordia, dopo aver preso il tono di Dio nell’unità, cantiate a una sola voce» (4,1-2). E dopo aver raccomandato agli Smirnesi di non «intraprendere nulla di ciò che riguarda la Chiesa senza il Vescovo» (8,1), confida a Policarpo: «Io offro la mia vita per quelli che sono sottomessi al Vescovo, ai presbiteri e ai diaconi. Possa io con loro avere parte con Dio. Lavorate insieme gli uni per gli altri, lottate insieme, correte insieme, soffrite insieme, dormite e vegliate insieme come amministratori di Dio, suoi assessori e servi. Cercate di piacere a Colui per il quale militate e dal quale ricevete la mercede. Nessuno di voi sia trovato disertore. Il vostro Battesimo rimanga come uno scudo, la fede come un elmo, la carità come una lancia, la pazienza come un’armatura» (6,1-2).
Complessivamente si può cogliere nelle Lettere di Ignazio una sorta di dialettica costante e feconda tra due aspetti caratteristici della vita cristiana: da una parte la struttura gerarchica della comunità ecclesiale, e dall’altra l’unità fondamentale che lega fra loro tutti i fedeli in Cristo. Di conseguenza, i ruoli non si possono contrapporre. Al contrario, l’insistenza sulla comunione dei credenti tra loro e con i propri pastori è continuamente riformulata attraverso eloquenti immagini e analogie: la cetra, le corde, l’intonazione, il concerto, la sinfonia.
Infine, una cosa che poco frequentemente si considera è che le suddette corde vengono sì messe sulla cetra (o sulla chitarra), ma perché suonino (e armoniosamente) debbono essere accordate: “accordare”, malgrado il contesto, non deriva da “corda”, ma da “cor”, cioè da cuore – il simbolo della volontà. Come le corde vengono disposte a servire alla volontà del musicista, che conosce i rapporti matematici donde promanano i suoni, così i membri della Chiesa vengono disposti a servire alla Volontà del Redentore, che da ogni creatura vuole e può trarre il meglio – per la salvezza propria e altrui, che concorrono alla gloria di Dio. Tutto molto bello e poetico, ma c’è un dettaglio assai prosaico che non va dimenticato (anzi, che va ricordato!): nessuna corda può essere accordata se non a mezzo di una tensione, e chiunque abbia mai accordato una chitarra o un violino sa come le corde letteralmente gemano mentre si azionano le chiavi sul manico. Ecco il punto, ed ecco la ragione che spiega perché corriamo sempre il rischio di chiuderci nel laissez-faire e nell’indifferenza all’azione ecclesiale sinfonica: lasciarsi accordare significa disporsi a qualche sofferenza. Senza passione, però, non si fa musica: al limite rumore.
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