Anche nel celebre discorso di auguri natalizi alla Curia di cinque anni fa, Papa Francesco tornò a citare l’adagio “Ipse harmonia est”, che sintetizza un pensiero di san Basilio Magno sullo Spirito Santo. Una citazione importante che conferisce grande respiro all’ammonimento del Pontefice su “eccessiva pianificazione e funzionalismo”, che possono risultare paraventi del peggiore ateismo pratico.
Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito.
Gv 3,8
A questo passo si riferì Papa Francesco ormai cinque anni fa, quando additò alla Curia Romana la sua “quarta malattia”:
La malattia dell’eccessiva pianificazione e del funzionalismo: quando l’apostolo pianifica tutto minuziosamente e crede che facendo una perfetta pianificazione le cose effettivamente progrediscano, diventando così un contabile o un commercialista. Preparare tutto bene è necessario, ma senza mai cadere nella tentazione di voler rinchiudere e pilotare la libertà dello Spirito Santo, che rimane sempre più grande, più generosa di ogni umana pianificazione (cfr Gv 3,8). Si cade in questa malattia perché «è sempre più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate. In realtà, la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo nella misura in cui non ha la pretesa di regolarlo e di addomesticarlo – addomesticare lo Spirito Santo! – … Egli è freschezza, fantasia, novità»[10].
Talvolta capita che questa nota sulla “novità dello Spirito” diventi il ritornello di canzoncine stonate che vorrebbero far passare ogni innovazione, in quanto tale, per autentica e doverosa riforma. In realtà, proprio la citazione che Francesco fece – relativa a un’omelia pronunciata ad Istanbul il 29 novembre di quello stesso anno, dunque neppure un mese prima – rivela che il Papa stava pensando su un livello ecclesiologico:
È vero, lo Spirito Santo suscita i differenti carismi nella Chiesa; apparentemente, questo sembra creare disordine, ma in realtà, sotto la sua guida, costituisce un’immensa ricchezza, perché lo Spirito Santo è lo Spirito di unità, che non significa uniformità. Solo lo Spirito Santo può suscitare la diversità, la molteplicità e, nello stesso tempo, operare l’unità. Quando siamo noi a voler fare la diversità e ci chiudiamo nei nostri particolarismi ed esclusivismi, portiamo la divisione; e quando siamo noi a voler fare l’unità secondo i nostri disegni umani, finiamo per portare l’uniformità e l’omologazione. Se invece ci lasciamo guidare dallo Spirito, la ricchezza, la varietà, la diversità non diventano mai conflitto, perché Egli ci spinge a vivere la varietà nella comunione della Chiesa.
La moltitudine delle membra e dei carismi trova il suo principio armonizzatore nello Spirito di Cristo, che il Padre ha mandato e che continua a mandare, per compiere l’unità tra i credenti. Lo Spirito Santo fa l’unità della Chiesa: unità nella fede, unità nella carità, unità nella coesione interiore. La Chiesa e le Chiese sono chiamate a lasciarsi guidare dallo Spirito Santo, ponendosi in un atteggiamento di apertura, di docilità e di obbedienza. È Lui che armonizza la Chiesa. Mi viene in mente quella bella parola di San Basilio il Grande: “Ipse harmonia est”, Lui stesso è l’armonia.
Si tratta di una prospettiva di speranza, ma al tempo stesso faticosa, in quanto è sempre presente in noi la tentazione di fare resistenza allo Spirito Santo, perché scombussola, perché smuove, fa camminare, spinge la Chiesa ad andare avanti. Ed è sempre più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate. In realtà, la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo nella misura in cui non ha la pretesa di regolarlo e di addomesticarlo. E la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo anche quando lascia da parte la tentazione di guardare sé stessa. E noi cristiani diventiamo autentici discepoli missionari, capaci di interpellare le coscienze, se abbandoniamo uno stile difensivo per lasciarci condurre dallo Spirito. Egli è freschezza, fantasia, novità.
Nel XXI secolo Istanbul si rivelava per il Papa un contesto di non facile prova: una società molto secolarizzata e un governo dalle ambizioni islamistiche inquietanti, e in tutto ciò la Chiesa funestata dal dramma della sua lacerazione. Ma che cos’è – ecco il tema proposto dal Papa – l’unità della/per la Chiesa? Essa è anzitutto mistico dono dello Spirito, consistente già nella sua semplice presenza. Questo ci inquieta almeno quanto ci emozioni, e proprio per la ragione che Gesù illustrava a Nicodemo e che il Papa annotava tra parentesi: dello Spirito sentiamo “la voce” e “il rumore”, ma non sappiamo da dove venga né dove vada. «Dovémo fa’ a fidàsse», insomma, come si dice a Roma, e per qualche motivo – almeno da Adamo in qua – gli uomini sono sempre poco propensi a fidarsi di Chi li ama (mentre volentieri abboccano all’amo dell’Adulatore).
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Papa Francesco insiste dunque nel ripetere che non possiamo pretendere di stabilire noi un’armonia delle distinte voci nella verità corale della Chiesa: «Lo Spirito Santo è l’armonia», non si stanca di ripetere il Pontefice attribuendo questo apoftegma a san Basilio Magno. In realtà l’espressione non si ritrova letteralmente nell’opera a noi giunta del grande padre cappadoce, ma ne esprime una sintesi efficacissima:
Se dunque lodano Dio tutti i suoi angeli, se lo lodano tutte le sue potenze, questo avviene per il concorso dello Spirito. Se accanto a lui stanno migliaia di migliaia di angeli e infinite miriadi di ministri è nella potenza dello Spirito che essi compiono irreprensibilmente il loro ufficio. Tutta quell’armonia sovraceleste e indicibile nel servizio di Dio e nel mutuo accordo delle potenze sovracosmiche non potrebbe conservarsi senza che le presiedesse lo Spirito.
Basilio Magno, Lo Spirito Santo XVI,38
In questo senso la quarta malattia spirituale della Curia (ma un po’ di tutta la Chiesa, come abbiamo visto) è un’eteroprassi che deriva da un defectus fidei, ossia da una banale mancanza di fede: cerchiamo di far funzionare la Chiesa come se Dio non esistesse, e ovviamente quest’ultima frase non la diciamo neanche per scherzo, e anzi probabilmente mentre la leggiamo ci viene un moto di sdegno contro chi (il sottoscritto) ha osato mettere nero su bianco tanta empietà.
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Eppure in quest’inconfessabile empietà (che aleggia nel nostro inconscio di aspiranti credenti) si manifesta un caso di un’altra norma generale – ne parlavo poco fa al telefono con un amico –, ossia quella che ci mostra come “il pensiero unico” non stia sempre e solo negli “altri”, ma anche in noi (e non necessariamente in misura minore): vivere come se Dio non esistesse è uno dei capisaldi dell’etica moderna, e sarebbe ingenuo per noi presumere di potercene reputare esenti.
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Tale ingenuità non l’ebbe, se non altro, il cardinal Ratzinger, che anzi al tema dedicò quella che si sarebbe a posteriori rivelata essere l’ultima conferenza prima dell’elezione al soglio pontificio. Il 1o aprile 2005, infatti, il Cardinale Prefetto dell’ex Sant’Uffizio pronunciò a Subiaco queste parole:
Nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di intendere e definire le norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide “etsi Deus non daretur”, anche nel caso che Dio non esistesse. Nella contrapposizione delle confessioni e nella crisi incombente dell’immagine di Dio, si tentò di tenere i valori essenziali della morale fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro un’evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze delle varie filosofie e confessioni. Così si vollero assicurare le basi della convivenza e, più in generale, le basi dell’umanità.
A quell’epoca sembrò possibile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili. Ma non è più così. La ricerca di una tale rassicurante certezza, che potesse rimanere incontestata al di là di tutte le differenze, è fallita.
Neppure lo sforzo, davvero grandioso, di Kant è stato in grado di creare la necessaria certezza condivisa. Kant aveva negato che Dio possa essere conoscibile nell’ambito della pura ragione, ma nello stesso tempo aveva rappresentato Dio, la libertà e l’immortalità come postulati della ragione pratica, senza la quale, coerentemente, per lui non era possibile alcun agire morale.
La situazione odierna del mondo non ci fa forse pensare di nuovo che egli possa aver ragione? Vorrei dirlo con altre parole: il tentativo, portato all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo. Dovremmo allora capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita “veluti si Deus daretur”, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno.
Insomma, Pascal cercava di tirare agli amici pagani una maschera antigas che ne difendesse la vita interiore dai gas asfissianti dell’ateismo moderno, e tre lustri fa il cardinal Ratzinger ritenne che tale maschera antigas potesse tornare utile anche ai pagani del nostro tempo (Robert Spaemann, in particolare, parve raccogliere lo strumento gettatogli dall’eminentissimo amico). Un lustro fa, invece, il successore dell’ormai Papa Emerito Benedetto XVI osò estenderne il consiglio ai cristiani tutti: fidarsi dello Spirito, lasciando che l’armonia della Chiesa non sia stabilita da noi, significa vivere (perfino da cattolici!) come se Dio ci fosse.