Grazie alle suore sono uscite dalla tratta. Talitha Khum presenta a Roma i risultati dei suoi “miracoli”
A Roma, dal 21 al 27 settembre, 86 delegate provenienti da 48 Paesi parteciperanno all’assemblea generale di Talitha Kum – la rete internazionale della vita consacrata contro il traffico di persone della UISG – l’Unione Internazionale della Superiore Generali – per presentare il lavoro che le suore stanno facendo nei diversi Paesi in prima linea contro la schiavitù.
Un fenomeno che oggi coinvolge almeno 40 milioni di persone, per il 70% donne e bambini (Unodc, 2019).
La “spinta” del Papa
Il 26 settembre le 86 delegate incontreranno in udienza privata Papa Francesco, che da sempre sostiene e incoraggia le religiose di Talitha Kum affinché possano continuare ad accompagnare isopravvissuti alla tratta di persone e a prevenire il fenomeno, sensibilizzando istituzioni e cittadini.
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Le storie
«Con le sue parole ed esempio di vita – dichiara Sr. Gabriella Bottani – coordinatrice internazionale di Talitha Kum – Papa Francesco ci incoraggia ad accogliere con coraggio, facendoci prossimo, tante nostre sorelle e fratelli sfruttati e feriti dalla violenza della tratta di persone. Le storie di successo che abbiamo raccolto sono poche rispetto alla grandezza del problema. Sono storie vita, di coraggio, di denuncia, di speranza, che ci chiedono con forza di continuare insieme, il lungo cammino verso la libertà, promuovendo la dignità di ogni persona».
Di seguito 7 delle storie più significative di donne ex vittime di tratta, che si sono rilanciate grazie a Talitha Khum.
#1 Maryam, dal carcere al lavoro di educatrice
“Avevo all’incirca 20 anni quando in carcere incontrai per la prima volta una delle sorelle di Talitha Kum: ero stata arrestata perché la madame mi aveva denunciato per sfruttamento alla prostituzione. Avevo deciso di lasciare il mio Paese, la Nigeria, dopo la morte di mio padre. Volevo aiutare mia madre e i miei fratelli. Arrivata in Italia con la promessa di un lavoro, mi ritrovai sulla strada, sotto le direttive di una madame che mi sottoponeva a violenze fisiche e psicologiche. Pensavo che una volta saldato il debito mi sarei liberata da questo incubo. Ma loro chiedevano sempre più soldi. Sola e senza documenti finii in carcere, pur essendo innocente.
Fu una suora che veniva a visitarmi a darmi un’altra opportunità. Mi diede fiducia e convinse la sua comunità in Sicilia ad accogliermi in casa loro, consentendomi di ottenere gli arresti domiciliari. In questi anni, grazie all’aiuto delle sorelle, sono riuscita a trasformare la mia vita e ad aiutare altre giovani, cadute come me nelle mani dei trafficanti. Oggi sono felice: sono mamma e la mia è una bella famiglia, così come lo è la comunità che mi ha accolto e dove tuttora lavoro come educatrice”.
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#2 Jessie. Il sogno di tornare a casa e ricominciare
“Lavoravo in un’industria chimica in Uganda. Dopo essermi ammalata a causa di un’allergia ai materiali che utilizzavamo, dovetti lasciare il lavoro. Comprai un piccolo chiosco per vendere cibo ai passanti. Tutto andava bene, fino a quando venni truffata da un’agenzia che mi offrì di lavorare in Medio Oriente. Credevo di aver avuto una grande opportunità e invece mi ritrovai in un contesto di schiavitù domestica. Lavoravo senza sosta e non ricevevo né cibo né compenso. Non pensavo ad altro che a scappare da quella terribile situazione.
Durante un primo tentativo di fuga venni violentata da un taxista a cui avevo chiesto aiuto. Ma la disperazione mi portò nuovamente a fuggire e per fortuna l’altro taxista mi accompagnò in ambasciata. Fu l’inizio di una nuova vita: arrivai in una casa di religiose che si presero cura di me, dandomi cibo, vestiti, dignità. Un giorno chiesi alle sorelle la possibilità di poter rientrare a casa: spesso pensavo alla felicità che mi dava quel piccolo chiosco di cui solo pochi anni prima ero proprietaria. Le suore mi aiutarono a ottenere i documenti e a prendere contatti con il mio Paese d’origine. Oggi vivo in Uganda e le religiose continuano ad aiutarmi nel mio percorso di reinserimento lavorativo e sociale”.
#3 Sophia e la lotta contro un matrimonio forzato
“Mi chiamo Sophia, ho 33 anni e sono originaria della Bielorussia. La mia famiglia era povera ma felice. Tutto è cambiato quando sui social media ho conosciuto un uomo che viveva in California. Dopo un periodo di conversazioni in chat è venuto a trovarmi e poi mi ha proposto di sposarlo e trasferirmi da lui. Ma all’euforia dei primi mesi seguirono le violenze: dovevo obbedirgli completamente, anche nella nostra vita sessuale. Mi resi conto lentamente che il nostro non era un vero matrimonio ma un modo per ottenere denaro, avere una domestica a tempo pieno e un corpo su cui sfogare aggressività e rabbia.
Una mattina ho chiamato una cooperativa e tramite loro sono riuscita a scappare. Mi hanno detto che ero vittima di “schiavitù per corrispondenza” e mi hanno affidato a una casa-rifugio gestita da suore, dove mi sono finalmente sentita al sicuro. Ho potuto frequentare la scuola, mi sono iscritta all’università e lì ho conosciuto il mio nuovo marito. Ora ho una famiglia felice. Sono rimasta in contatto con le suore che mi hanno aiutato a guarire. Ci scriviamo spesso e condivido con loro momenti importanti. Sono diventata cittadina americana lo scorso anno”.
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4# Mihaela. Dopo la violenza studia legge per aiutare altre donne
“Avevo 19 anni quando, dopo aver finito il liceo in Romania, decisi di andare a lavorare in Germania per tre mesi da una “famiglia seria”. Così l’aveva definita la mia amica Amalia. Con il guadagno mi sarei pagata l’università. Ero già stata accettata dalla facoltà di scienze politiche. Una volta arrivata in quella casa mi accorsi quasi immediatamente che qualcosa non andava: non c’erano giocattoli, eppure Amalia aveva detto che la famiglia aveva tre figli. Non appena lei andò via, tre uomini entrarono in casa, mi picchiarono, abusarono di me e poi mi portarono in un bordello dove fui costretta a prostituirmi ogni giorno, dalle 7 di sera alle 5 del mattino.
A volte ricevevo anche 15 clienti al giorno. Ora quegli stessi trafficanti sono in prigione e dovranno restarci per almeno 7 anni. Per questo devo ringraziare una Ong e le sorelle di Talitha Kum che si sono prese cura di me. Sono passati sette anni e la mia ferita non è completamente guarita però oggi ho una nuova vita. Sono iscritta al secondo anno della facoltà di giurisprudenza per aiutare tutte le ragazze a fuggire da questo incubo e fare in modo che i trafficanti finiscano dietro le sbarre”.
#5 Paola, da guerrigliera bambina a imprenditrice
“Sono Paola, colombiana, e provengo da una famiglia di contadini, coltivatori di caffè e canna da zucchero. Sono stata rapita dalle Farc – le forze armate rivoluzionarie della Colombia – quando ero solo una ragazzina e fin dal giorno dopo fui costretta a indossare un’uniforme: era di un militare che era stato ucciso dai guerriglieri. In questi anni ho subito lavori forzati e sfruttamento sessuale. Avevo diversi obblighi: sorvegliare il campo, tagliare la legna, prendere l’acqua dal fiume, cucinare. Ma anche caricare gli esplosivi e sollevare trincee a difesa degli attacchi nemici. È stato solo grazie a Talitha Kum se sono riuscita a scappare e a trovare supporto fisico e psicologico.
Il ritorno alla società è un processo molto lento. È impossibile cancellare le violenze che ho dovuto subire durante la prigionia. Ma il mio cammino è aperto alla speranza da quando ho incontrato il mio attuale compagno, anche lui ex guerrigliero, oggi padre dei miei bambini. Il governo ci ha aiutato con un piccolo sussidio, che abbiamo investito in un’attività familiare: realizziamo pignatte in materiale riciclato per le feste dei bambini. Anche se il mio sogno è quello di tornare a studiare, ed è un sogno che la guerra non mi ha potuto rubare”.
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#6 Carmen, nel convento trova la fede e un rifugio sicuro dalla violenza
“Sono nata in una famiglia messicana molto povera. Volevo lavorare per aiutare i miei genitori. Così, sebbene fossi ancora adolescente, accettai con gioia la proposta che mi fece mia cognata di accudire i figli di una sua conoscente in un’altra città. Al mio arrivo, mi obbligarono a prostituirmi, minacciando di fare del male alla mia famiglia. Non ero sola, con me c’erano altre ragazze. Tutte fummo picchiate e stuprate. Ai miei genitori dissero che ero morta. Ero arrivata al limite della sopportazione, quando ebbi l’occasione di fuggire. Quel giorno c’era molto caos in metropolitana e mi nascosi tra la folla.
Chiesi aiuto a una donna che, dopo aver sentito la mia storia, decise di portarmi dalle sorelle di Talitha Kum. Ora mi trovo in un posto sicuro, sono in contatto costante con la mia famiglia e ho ripreso gli studi, concludendo brillantemente il ciclo della scuola secondaria. Ho 17 anni e per me non è stato facile affrontare la violenza della tratta. Oggi sono grata per la nuova opportunità che ho. Quando le suore mi hanno aperto la porta della loro casa è stato come se il Signore in quel momento mi avesse detto: “Vieni. È ora, figlia mia”.
#7 Lucinda. Il coraggio della denuncia
“Mi chiamo Lucinda, ho 25 anni e sono originaria dell’Amazzonia brasiliana. Avevo una vita tranquilla, un compagno e una figlia di due anni. I problemi sono cominciati quando mi sono separata e sono tornata a vivere con mia madre. Studiavo legge ed ero al quarto anno dell’università di Manaus ma non riuscivo a pagarmi gli studi. Così decisi di prostituirmi: non volevo perdere l’opportunità di un futuro migliore. Un giorno un ragazzo mi invitò ad andare a Georgetown, nella Guyana britannica. Mi aveva promesso un guadagno facile ma quel weekend di relax si trasformò in un incubo. Costringeva me e altre ragazze a prostituirci e ci pagava pochissimo. Volevamo scappare ma era impossibile.
Per fortuna un cliente decise di aiutarci e ci portò in ambasciata, dove denunciammo gli abusi. Una volta rientrata in Brasile, ho incontrato le sorelle della rete locale di Talitha Kum, Rede Um Grito pela Vida, che mi hanno fornito supporto psicologico ed economico. In quel periodo notai strani atteggiamenti nella mia bambina e facendo degli esami scoprii che anche lei era stata abusata. Le sorelle mi accompagnarono dalla polizia per denunciare le violenze. Grazie a loro io e mia figlia abbiamo potuto ricominciare una nuova vita. Ho ripreso il college e ho ottenuto una borsa di studio che ci consente di vivere dignitosamente”.
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