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Africa: imporre l’aborto ai poveri è il nuovo colonialismo

AFRICA, MOTHERS, BABIES
Annalisa Teggi - pubblicato il 04/09/19

“La maggior parte delle lingue africane non ha neppure un modo di esprimere il concetto di aborto come qualcosa di buono. Quindi per convincere una donna africana che l’aborto sia una cosa buona bisogna prima convincerla che ciò che pensavano i suoi genitori, i suoi nonni e i suoi bisnonni era sbagliato. E questa, mie care signore, è colonizzazione” – Obianuju EkeochaCerti temi sembrano muoversi su binari preimpostati. Quando si parla della povertà in Africa, salta fuori spessissimo il discorso sull’aborto come presunta corsia preferenziale di aiuto a famiglie numerose e in grave necessità. Quasi non ci si fa più caso al fatto che pensare all’aborto come una “conquista” sia un cortocircuito interamente occidentale. Ed è altrettanto amaro che il pilota automatico di questo ragionamento sia assunto passivamente come verità.

Il linguaggio è una dote umana che può diventare dannazione. Babele docet. Il confine tra verità e menzogna non è sempre evidente, soprattutto in una civiltà come la nostra divenuta via via più raffinata ed esperta nella comunicazione persuasiva. Finché accade nella pubblicità non c’è scandalo: quel linguaggio mira naturalmente a plagiare il pensiero.

Parole scandalosamente vere

Quando sono in gioco questioni umane ben più serie, è grave che la lingua distorca la realtà mirando a ottenere una persuasione quasi invisibile, ma dagli effetti tragici. Un esempio: di recente in California si è pensato di bandire tutte le parole ritenute sessiste e si è arrivati a dare un nome più neutro perfino al tombino, reo di chiamarsi “manhole” (buco dove scende l’uomo). La sola presenza di “uomo” è stata ritenuta un oltraggio alle donne ed è stata tolta. La galanteria di un tempo faceva scendere l’uomo nelle fogne, oggi può infilarsi in un tombino anche la donna. Esultiamo.


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Dunque, ci sono casi in cui discutere sulle parole diventa un’azione quanto mai poco astratta e cavillosa. Soprattutto se sono in ballo le fondamenta dell’umano. Ne è, allora, un esempio virtuoso il breve discorso della nigeriana Obianuju Ekeocha, divenuta un volto noto dei pro-life in Africa. Le sue argomentazioni incisive sono state pubblicate sul profilo Facebook di Lila Rose (fondatrice di Live Action, associazione anti-abortista statunitense), ne riporto la traduzione integrale:

Vengo dalla Nigeria, se tentassi di tradurre nella mia lingua natia cosa s’intende col messaggio che una donna può scegliere cosa fare con il suo corpo, non potrei. La maggior parte delle lingue africane non ha neppure un modo di esprimere il concetto di aborto come qualcosa di buono. Il danno che deriva alla comunità da questo colonialismo, da questa nuova forma di colonialismo, è che il mondo occidentale arriva in Africa e tenta di offrire un nuovo linguaggio che non saremo mai in grado di tradurre nelle lingue native. Ci vengono a dire che le donne possono fare del loro corpo cose che non sono moralmente buone, ma al di là di questo la prima cosa a cui prestare attenzione e che è bene ricordare – come ho detto all’inizio – è che gran parte delle comunità africane crede per tradizione che l’aborto sia un diretto attacco alla vita. Quindi per convincere una donna africana che l’aborto sia una cosa buona bisogna prima convincerla che ciò che pensavano i suoi genitori, i suoi nonni e i suoi bisnonni era sbagliato. E questa, mie care signore, è colonizzazione.

OBIANUJU EKEOCHA

Live Action | Facebook

Le sue parole sono così chiare che mi posso permettere una breve parentesi prima di commentarle. Chi è Obianuju Ekeocha? Il suo nome significa “colei che è arrivata nel bel mezzo dell’abbondanza”, a ricordo del suo concepimento giunto inaspettato ma comunque desiderato. Nasce, dunque, e cresce in un contesto culturale devoto alla sacralità della vita, ma chi la volesse ridurre a una nigeriana nutrita solo di folklore locale si sbaglia. A 26 anni Obianuju si trasferisce a Londra dove si laurea in scienze biomediche, con specializzazione in ematologia. Rimane in Inghilterra, eppure non è soddisfatta e durante la Giornata Mondiale della Gioventù del 2011 a Madrid prega Dio di chiarirle quale sia la sua missione.


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Immaginava che Dio le chiedesse di fare la catechista, invece si è trovata tra le mani una proposta altrettanto educativa ma in un territorio culturale assai ostile. Ha fondato Culture of Life Africa, un’iniziativa che promuove la difesa dei valori africani in merito alla santità della vita, alla bellezza del matrimonio e alla dignità della maternità. È perciò diventata un’interlocutrice impegnata anche in ambito internazionale. Ed è evidente che, per quanto scomoda possa suonare la sua voce a certe orecchie, l’Occidente avrebbe molto su cui riflettere accogliendo senza pregiudizi lo sguardo sulla realtà della maternità testimoniato dall’Africa. Per quanto a livello teorico il colonialismo sia condannato e superato, quando si parla di paesi in via di sviluppo c’è sempre l’idea che il “buon” Occidente debba andare in soccorso dei poveri. A quanto pare, l’indigenza non ha nulla a che fare con la comprensione della realtà e la capacità di giudizio; facoltà che – in merito al tema dell’aborto, ma non solo – risultano assai offuscate alle nostre latitudini.

Rem tene verba sequentur

Mi permetto di tradurre questa massima latina di Marco Porcio Catone con “stai aggrappato alla realtà e le parole verranno da sè“. Il linguaggio è un fiore le cui radici sono innestate nella realtà, le parole non possono prescindere dall’evidenza dei fatti.


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Certo, posso pronunciare la frase: “La gallina ha sei zampe”, ma in questo caso le parole tradiscono la realtà e generano un non-senso. Se l’esempio della gallina è lapalissiano, molto meno facile è riconoscere altrettante fantasie linguistiche che ci beviamo ogni giorno senza dubitare che siano “vere”. Stare aggrappati alla realtà, è questo il nervo scoperto. Per poter somministrare frottole disumane, occorre recidere il cordone ombelicale che ci lega al regno vivo della fattualità.

In quanti ormai non hanno nulla da contestare all’espressione “il mio corpo, la mia scelta”. Eppure è un non-senso come la gallina a sei zampe; è una frase che tradisce l’esperienza. Una donna leale con il dato di realtà non la pronuncerebbe, perché nel corpo di una donna incinta c’è un altro corpo. Eppure la propaganda abortista è riuscita in Occidente a mascherarsi bene da portavoce di presunte evidenze, che sono puri slogan disancorati dalla vita pulsante.

La voce di Obianuju Ekeocha ci giunge come quella del bimbo che gridò: “Il re è nudo!”. È disarmante sentire dire che gran parte delle lingue native africane non attribuiscono nessun senso positivo all’aborto; ci riporta a quella nuda evidenza che molti pirotecnici strumenti retorici oggi vogliono cancellare.

Rifiutando la colonizzazione ideologica a cui l’Occidente si è inchinato fin troppo passivamente, la signora Ekeocha riporta la discussione in merito alla vita lì dove dovrebbe stare, aggrappata alla realtà. Che lo slogan “il mio corpo, la mia scelta” sia intraducibile in certe lingue native dell’Africa è altrettanto eclatante come dato. Ma l’obiettivo di questo discorso non è puntare il dito contro il “cattivo” Occidente incensando tout court la cultura africana, ambito quanto mai vasto di cui fanno parte anche tradizioni esecrabili. Semmai il punto è che una società ancora poco permeata dal lavaggio del cervello sull’aborto può riportare anche noi al centro – dimenticato – del discorso: le parole, prima di proporre una visione del mondo, devono riconoscere le evidenze innegabili. La percezione personale dei fatti non è la realtà: posso giudicare sgradita una gravidanza, ma non è questo il dato di partenza da cui dedurre che la gravidanza dipende dalla madre.

Ci sono ancora paesi lontani dalla cultura dell’aborto, noi invece apparteniamo a quei paesi dove tutto ciò che è dato per scontato in merito a certi presunti diritti delle donne deve essere messo in discussione sgretolando il terreno inconsistente della pura retorica: incarnare le parole è l’avventura di una coscienza morale all’opera.

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