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Suor Marta, trappista nella Siria in guerra. Rimanere è amare

SUOR MARTA, TRAPPSITA

Suor Marta, superiora del monastero Nostra Signora Fonte della Pace, ad Azeir (Siria)

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Paola Belletti - pubblicato il 22/08/19
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Il suo nome è Marta Fagnani, è nata e cresciuta a Como, viene dalla Parrocchia di S.Agata. Benedettina di clausura dal 1995 dal 2005 è in Siria come superiora nel monastero trappista “Nostra Signora Fonte della Pace”.Perché Suor Marta, 57 anni, da Como è finita in Medio Oriente e proprio in Siria? Con la scelta di questa destinazione c’entra il destino di alcuni monaci, anche loro benedettini, anche loro trappisti, nella riflessione che l’intera comunità trappista cui appartiene ha maturato nel tempo e nella preghiera.


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La missione terrena di questi fratelli si è conclusa con il martirio: siamo a Thibirine,  sulle montagne dell’Atlante in Algeria e sono gli anni novanta, precisamente il 1996. Sulla loro storia e il loro martirio è uscito nel 2010 un bel film per la regia di Xavier Beauvois, il titolo originale è Des hommes et des dieux, tradotto e in parte alterato con Uomini di Dio per la versione italiana. A parte forse l’eccessiva reticenza sulle cause della guerra e sulle responsabilità dell’integralismo islamista, la vicenda umana e spirituale dei sette monaci emerge con forza e commuove.

Papa Francesco ha proclamato santi questi sette monaci trappisti l’8 dicembre del 2018 chiamandoli “martiri della speranza”. Decisero di restare con il popolo, a maggioranza mussulmano, che stavano servendo con amore e umiltà anche quando l’odio islamista era acceso e pronto ad esplodere ovunque come una miccia corta. La guerra civile in Algeria durò un decennio senza guadagnare adeguato interesse da parte dell’altra sponda del Mediterraneo.

Rimanere è verbo squisitamente cristiano, è l’azione dell’amore che sta, opera, si offre. Così fa anche Suor Marta. Così si legge su il Corriere del 19 agosto nelle pagine di Milano:

La scelta della Siria non è stata casuale come spiega suor Marta, superiora della comunità, ed è strettamente collegata ai fatti di Tibhirine in Algeria del 1996, quando sette monaci trappisti furono sequestrati e uccisi dal Gruppo Islamico Armato: «Alla loro morte la nostra famiglia religiosa ha voluto raccogliere quell’eredità, da qui è nata la chiamata per un paese a maggioranza islamica. Si era pensato prima al Marocco e alla Tunisia, fino ad arrivare a questa terra dove oggi viviamo e leggendo gli avvenimenti alla luce di quanto è avvenuto è davvero provvidenziale che ci siamo potute trovare qui nel momento di questa terribile guerra».



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Testimoni in ogni senso, i martiri d’Algeria si consegnano spiritualmente nelle mani di queste sorelle perché continuino la corsa. Quello che le ha colpite, racconta Suor Marta, è stata la loro vita, la loro fede, la loro radicale appartenenza a Cristo. La loro vita ci ispira, la vocazione è sempre alla vita non al martirio in sé.

In questa intervista del 2018 Suor Marta risponde a Toscana Oggi proprio sulle ragioni profonde della loro presenza in Siria.

La Siria stessa dal 2011 è sotto sequestro e tormentata dalla grande aguzzina, la guerra. (In quel momento la piccola comunità di suore italiane si era appena trasferita da Aleppo, il monastero ancora non esiste.)

E ai suoi ceppi il popolo soffre terribilmente e quando può, chi può scappa. Le famiglie che vogliono salvare il proprio futuro, i figli, lo fanno. Marta e le sue consorelle restano con chi resta. Prima ad Aleppo, da sette anni invece in un villaggio cristiano maronita vicino al confine libanese.

Tra chi è rimasto, nel piccolo villaggio di Azeir al confine con il Libano, ci sono suor Marta e le sue sorelle: «Quando è scoppiata la guerra non potevamo fare altro che vivere tutto questo con quella che ormai è la nostra gente, il nostro popolo. Non avrebbe avuto alcun senso partire, noi potevamo a dispetto di tanta gente che non aveva scelta, e tornare quando ogni difficoltà fosse terminata a parlare di speranza, di fede, di Dio…qui ci sono ricchezze di umanità e di fede che forse da noi si stanno un po’ perdendo». (Ibidem)

La popolazione le ama, le protegge e le aiuta come può.

«C’è grande rispetto reciproco e in particolare noi come cristiane siamo state aiutate ed accolte molto bene anche da chi è di religione musulmana (…)». (Ib.)


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Restare, amare e costruire significa fare di tutto perché le persone conoscano il vero Dio e anche cercare di promuovere le condizioni di una vera promozione umana, a partire dal lavoro. Così spiega Suor Marta:

«Cerchiamo di essere realiste, ma non senza speranza. Stiamo facendo il possibile per costruire il nostro monastero, a causa della guerra viviamo ancora in quella che sarà la foresteria, e per aiutare le persone ad avere un incontro più personale con Dio. Stiamo cercando delle attività di lavoro, in particolare stiamo facendo le pratiche per commercializzare in Italia il sapone di Aleppo, insieme ad un amico siriano che ci aiuta e lavora nel settore. Questo per mantenere noi e anche per creare un po’ di lavoro. Le nostre vere prospettive riguardano le speranze e la vita. La sfida è prenderci gusto davvero, credendo che sia possibile e diventino realtà». (Ibidem)

La stessa scelta del terreno su cui sta sorgendo il monastero e le realtà ad esse connesse rappresenta la fisionomia e la natura della Siria: cristiani di diversi riti, mussulmani di diverse appartenenze vivono insieme e non in forza di un dialogo astratto e filosofico; ma in nome della vita stessa, concreta, quotidiana, umana. Per tutti i siriani, dice Suor Marta, la vita è ancora “vissuta davanti a Dio”.