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I trappisti di Tibhirine in Marocco, monaci nella «casa dell’islam»

I trappisti di Tibhirine in Marocco, monaci nella «casa dell’islam»

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padre Renato Zilio - pubblicato il 26/08/13

A Midelt vive una comunità vigile nella preghiera e sollecita nella carità, impegnata nell'inculturazione, nel rispetto dell’alterità e nella sfida della comunione

Ho il privilegio di vivere con i monaci trappisti di Tibhirine (Algeria) a Midelt in Marocco, in un altopiano desertico e di rivivere ciò che, molti anni fa, condividevo con Bruno e Christophe a Fès, poi martiri, con altri cinque monaci, in Algeria. Ed è la preghiera, lo sguardo pieno di speranza su questo paese musulmano e l’amore per questa gente, così diversa da noi. Ora, alle 4 del mattino, alla prima preghiera, guardando un cielo africano tutto nero e una immensa stellata da incanto, mi vengono in mente i loro occhi. E la luminosità del loro sguardo, con emozione. Osservo con stupore i valori del Vangelo, che fanno vivere questi monaci in mezzo all’islam: lo sforzo di inculturazione, l’etica dell’empatia, il rispetto dell’alterità, la sfida della comunione, del vivere insieme nella differenza di ognuno.

In una società tanto diversa è incontrare, così, il senso di una fratellanza universale che sempre mi sorprende. In nome del Cristo e dei suoi migliori discepoli, come Charles de Foucauld. Tutte le piccole comunità cristiane presenti nella «casa dell’islam», come viene chiamato il contesto musulmano, vivono così… Presentano il volto di una Chiesa fragile, minoritaria, evangelica, costituita di immigrati di diversa origine: francesi, filippini, italiani, africani subsahariani. Una Chiesa vigile nella preghiera. Sollecita nella carità, in associazioni o in cooperative di donne musulmane. E in cammino con un popolo di cultura arabo-berbera e di religione musulmana. “Cammina umilmente con il tuo Dio”, sembra ripetere a se stessa con il profeta Michea, ogni giorno all’alzarsi dell’alba. Ho il privilegio di vivere in una terra tormentata dall’emigrazione. Emigrazione di partenza, di arrivo e di transito, dove per questo desiderio impossibile di emigrare, presente soprattutto in ogni giovane di qui, si viene uccisi come nemici in guerra. A Melilla o a Ceuta (le due enclave spagnole in Marocco), nel 2005. O annegati a centinaia, come topi, nelle acque del nostro Mediterraneo. Mare nostrum, purtroppo.

Sto vivendo il privilegio di un tempo speciale in questa terra: il Ramadan. «È qualcosa che sa veramente di profetico», mi confidava l’altro giorno padre Joël, francescano, qui da più di quarant’anni. Tutto un popolo vive la solidarietà, la preghiera, la visita ai vicini, la tensione escatologica con una convinzione interiore, a volte, impressionante. «Sai, molti qui hanno una fede, che trasporta le montagne!», mi confessa con meraviglia suor Monique, alsaziana, nel Maghreb da più di trent’anni. Anche ieri sera, siamo stati invitati con tutti i sei monaci trappisti dai nostri vicini. Era per condividere la cena di rottura del digiuno (ftur), al calare della notte: fraterna, rituale, regale. Era il coronamento di mille piccoli gesti di solidarietà, vissuti durante tutto l’anno con loro. Accanto al monastero c’è l’atelier di tappeti delle suore francescane, dove lavora una cooperativa di un centinaio di donne musulmane. Ma il vero lavoro di tessitura sono loro stesse a farlo. Sì, le persone, nei loro incontri e nell’apertura reciproca. Uomini e donne di cultura, di sensibilità e di religione differenti. Un miracolo quotidiano. «La bellezza di un tappeto», ricorda qui un proverbio, «viene dalla varietà dei suoi colori». Nessuna realtà umana mi è estranea, ripetevano gli antichi, come un assioma. Per noi significa oggi che niente di tutto ciò che riguarda uno straniero ci è estraneo. In quanto tutti discendenti di Abramo: il nomade che ha mosso i suoi passi alla cieca, da ben lontano e con una fiducia impensabile. Ma anche perché, senza accorgercene, gli esseri umani che emigrano ricompongono in maniera originale il paesaggio sociale, culturale e religioso di un territorio.

«A uno straniero non domandare mai il suo luogo di nascita», raccomanda Edmond Jabès «ma quello del suo avvenire». Ogni migrante inconsciamente cammina verso la fratellanza degli uomini e delle loro differenti culture. Come un'ansia insopprimibile. Questi monaci sanno leggerlo nel cuore di ognuno. Sì, a qualsiasi fede appartenga.

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