Una interessante chiave di lettura dell’epidemia di morti per selficidio: sacrificio estremo di sé sull’altare dell’Io.Un articolo molto interessante apparso su Il Foglio a firma di Mattia Ferraresi ci informa di una recente ricerca apparsa sul Journal of Family Medicine and Primary Care che ha posto le basi per un nuovo capitolo dell’epidemiologia: la morte da selfie, un fenomeno nuovo e complesso collegato ad un’ossessione pervasiva e trasversale ai più vari ambiti culturali, che però ne plasmano – ciascuno a modo proprio – l’impronta caratterizzante.
259 vittime tra il 2011 e il 2017
Sarebbero 259 le vittime del selfie, cadute fra il 2011 e il 2017 sulla “linea del dovere” dello scatto che più adrenalinico non si può. La casistica spazia fra due estremi: il freak accident, l’incidente sfortunato causato da eventi imprevedibili, e la disgrazia più che probabile che attinge colui che fa del rischio il proprio mestiere e/o il massimo piacere (Il Foglio).
Le locations “migliori”? grattacieli, treni in corsa, dirupi…
I contesti scelti per l’autoscatto più eccitante sono i più vari: un dirupo, un treno in corsa, le onde oceaniche, un grattacielo, un mare pieno di squali, cavi ad alta tensione, automobili a folle velocità, ma la fantasia non conosce limiti, come scattarsi un selfie shoe con le gambe penzolanti dal portellone di un elicottero che vola nel cielo di Manhattan (Ibidem). La morte per selfie non conosce differenze di censo, è una moderna “livella” come recitava Totò: ghermisce anonimi turisti ma anche i nuovi imperatori del web, come l’influencer Gigi Wu che scalava in solitaria le cime più assurde per poi scattarsi un selfie in vetta, e raccogliere così il tripudio dei suoi follower. E’ morta a Taiwan, nel desolante gelo di un crepaccio che ha portato a termine la sua opera prima dell’arrivo dei soccorritori.
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In pole position l’India, poi Russia, Usa e Pakistan
L’India è al primo posto della classifica per morti da selfie, distaccando ampiamente Russia, USA e Pakistan. La ragione? L’estrema fascinazione della dimensione visiva che ne caratterizza la cultura, o il tentativo di valorizzare il proprio status in una società rigidamente strutturata in caste, dove il selfie è probabilmente tra la cose più democratiche perché se lo possono permettere quasi tutti. I ricercatori ritengono che il numero dei morti per selfie sia ben più elevato, perché ancora in nessun Paese viene codificato il selfie come causa della morte.
Come “leggere” il fenomeno?
Come “leggere” il fenomeno, certamente limite ma non rarissimo, dell’autoscatto ad elevato rischio per la propria vita? La prima chiave di comprensione attiene al concetto speculare della distrazione/attenzione selettiva, fenomeno che si viene a configurare quando lo scatto dell’istantanea in un contesto ambientale ad alto rischio polarizza l’attenzione a tal punto da determinare l’esito infausto. La morte per selfie sarebbe omologabile così al decesso causato dall’incauto invio di messaggi dallo smartphone durante la guida, per cui le campagne di prevenzione attivate in alcuni paesi ricalcano il messaggio proposto per il text and drive che più o meno in tutte suona così: “Anche un milione di like sui social non valgono la tua vita” (Il Foglio).
Il tema del suicidio
L’altra chiave interpretativa si rifà al tema del suicidio, tanto da essere stato coniato il termine selficidio (traduzione di suicide selfie o selficide) nonostante si sia di fronte ad un esito letale involontario che non può essere propriamente inquadrato come autosoppressione. La proposta linguistica trova giustificazione nel fatto che la vittima è di fatto anche il suo carnefice in quanto si è posta in condizioni di pericolo che rendevano l’eventualità facilmente prevedibile. In aggiunta si può ricorrere alla simbologia di un click che vede coincidere chi scatta e chi viene “immortalato”, e all’accostamento del selfie stick ad un’arma da fuoco puntata verso chi la impugna.
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Selficidio come sacrificio umano rituale
Viene avanzata una terza prospettiva, meno immediata delle ipotesi precedenti, che legge la morte da selfie come sacrificio umano rituale e a sua volta stimola ulteriori considerazioni. Si parte dalla constatazione che ogni manifestazione del sacro prevede che nelle relative cerimonie si attuino forme di sacrificio. E all’obiezione che il selficidio non ha nulla di religioso, in quanto fenomeno emblematico della pervasiva secolarizzazione in progress, si può facilmente rispondere che il Self ha assunto il rango di divinità, la più adorata del nostro tempo. Una divinità vorace che, come gli dei dell’antichità, impone sacrifici umani, in assoluto contrasto con l’illusione nutrita dalla cultura a-religiosa che sottende il self dell’assenza del Sacro, e della ritualità che inevitabilmente lo accompagna.
In questa nostra civiltà dell’egocentrismo narcisistico, il bisogno non riconosciuto di trascendenza viene dirottato nel ristretto spazio individuale imboccando così un percorso distruttivo che vede l’Io-deificato pretendere beffardamente doni sacrifici sempre più onerosi per il suo altare. E come scrive il filosofo René Girard citato nell’articolo de Il Foglio il selficida, che è la punta dell’iceberg dell’esercito narcisistico dei “selfisti”, nel tentativo di immortalarsi finisce per immolarsi inconsapevole del vero perché.
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