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“Così don Italo Calabrò mi ha allontanato dalla ‘ndrangheta”   

Young boy saved by the priest in Calabria

Don Italo Calabrò

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Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 09/05/19
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Giosuè, rampollo di una famiglia malavitosa della Piana di Gioia Tauro racconta: persino sul letto di morte mi raccomandò ad un suo caro amico

Giosuè è stato il primo dei minori allontanato dalla propria famiglia di mafia. Infatti, cresciuto in un paese della Piana di Gioia Tauro, nel 1988, a soli 17 anni Giosué finisce nel carcere minorile di Reggio. Lì fa un incontro che gli cambierà la vita. Quello con don Italo Calabrò, allora vicario generale della chiesa Reggina.

Il collegio e il primo arresto

«Sono cresciuto in una famiglia mafiosa e in un ambiente mafioso – racconta Giusuè ad Avvenire (9 maggio) – Quando ero piccolo sono stato in collegio, lì ho conosciuto tanti ragazzini che oggi hanno cognomi “importanti”, che poi ho ritrovato sui giornali».

A 15 anni i primi passi nell’ambiente della ndrangheta. «A 17 anni sono finito prima davanti al Tribunale e poi in carcere minorile. Lì ho cominciato a maturare una riflessione, avendo tutto il tempo per riflettere ho deciso di fare qualcosa per cambiare il mio destino».



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Silenzio mafioso

Il ragazzo era finito in carcere per una storia di omertà. Aveva coperto i criminali con il suo silenzio. «In carcere ho conosciuto don Italo Calabrò, venne in visita. Anche le assistenti sociali mi hanno aiutato tanto. Uscii col condono di pena e fui affidato ai servizi sociali».

Ma una volta fuori «per la mia famiglia era come se avessi preso la laurea. Se fossi tornato, l’avrei fatto da “uomo”, da persona che ha man- tenuto l’onore, non ha parlato. Avevo superato la prova con 30 e lode. Ho guadagnato rispetto, saluti da gente che non mi considerava. Queste sono le “virtù” della ’ndrangheta».



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Don Italo

A quel punto Giosuè ha cambiato strada. «Ho maturato la scelta di non tornare a casa, dovevo fare qualcosa per me, cercare un’altra strada. Altrimenti quello che mi aspettava era fare “carriera” in quella famiglia, rischiare la vita, rischiare il carcere».

Furono le assistenti sociali del Tribunale per i minorenni a metterci in contatto con don Italo. «Lui era una persona che parlava all’altro come se fosse il suo migliore amico. Quando lo vedevi sapevi che se avessi bussato alla porta avrebbe aperto. Anche se era un prete “importante” non si dimenticava di nessuno».



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Seminari e Agape

Don Italo inizia un vero e proprio percorso di recupero per Giosuè. «Voleva che partecipassi alle riunioni dell’Agape (associazione di solidarietà da lui fondata), che sentissi parole diverse, parole d’amore: erano riunioni molto diverse da quelle a cui ero abituato, qui si progettava come aiutare il prossimo. Mi portava ai convegni in cui si parlava di contrasto alla mafia. Non c’è stata una cosa singola, particolare».

L’ultimo appello

Prima di morire, ci fu l’ultimo grande gesto d’amore verso Giusuè. Don Italo stava male, «in quel momento – rammenta il ragazzo – io andai da lui assieme a un grande amico, Francesco. Don Italo era in un pessimo stato fisico ma gli disse: “Ti affido Giosuè”. Si preoccupò di me anche sul letto di morte».


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