Alcuni appunti per raccontare la nostra esperienza familiare, piena di gioie, ma provata anche dalla malattia e dalla disabilità. E’ nato così questo post, per l’esigenza di fissare i cardini a cui si regge di fatto la nostra vita, soprattutto nei momenti in cui il vento soffia forte e rischierebbe di abbatterla.Il fatto vero, centrale di tutto, di tutta la nostra vicenda umana di sposi e genitori è questo: mai ci siamo ritenuti titolari di un potere che, quand’anche fosse esercitato, non è fondato in nessun diritto, non poggia su nessuna roccia di giustizia né di ragione. Mai abbiamo accettato il costume che pure la legge ha rinforzato diffuso e peggiorato: resti incinta? Uno: la cosa riguarda solo te, donna. Due: sei sempre davanti a due opzioni. Tengo? Butto?
No. Non ho mai accettato né assunto come forma mentis questa impostazione. Che pure la legge 194 ha grandemente contribuito a diffondere, consolidare e incistare nella mente di tutti. Infatti, per noi cristiani, il vero sforzo è di “non conformarsi alla mentalità di questo mondo”, di restare attaccati ad un’altra mentalità.
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E vivendo una gravidanza particolare (quella del quarto figlio, l’ultimo nato. Abbiamo rilevato problemi cerebrali alla 22ma settimana) quel tipo di sguardo, si è fatto sentire in modo davvero intenso. Ma anche con le altre figlie qualcosa era già successo; pur essendo gravidanze normali ed avendo i bimbi uno sviluppo nella norma, lo sguardo del medico che si poneva come “tecnico di un processo” che va a volte quasi sottratto alla mamma, non esperta, e che va valutato nella sua “correttezza di produzione”, si faceva sentire.
Non sempre, non da tutti, naturalmente: ma ogni tanto c’erano segnali sospetti. Per un piede torto mi è stata ventilata la possibilità di abortire. E con i problemi di Ludo (Ludovico, il 4 figlio nato con una malattia genetica che ha causato cecità, cerebropatia epilettica e arresto di sviluppo psichico, motorio, cognitivo), che poi non sono stati chiari se non dopo la nascita, ho dovuto cambiare ginecologa perché non si fidava della mia intenzione, dichiarata, esplicita e ferma di non abortire in nessun caso. E so di non essere affatto l’unica ad avere vissuto simili esperienze.
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“No! dopo lei magari cambia idea…”, mi disse. Ecco. Mi tengo la mia idea, mio figlio e sa che faccio? Cambio ginecologa.
Proprio questa mentalità è la punta dell’iceberg di una rivoluzione dalla violenza prepotente e vigliacca. Io, che sono già formato e sono forte, posso decidere chi può nascere e quindi vivere e chi no.
Madre Teresa disse infatti che l’aborto è la più grande minaccia alla pace. Diversi anni fa, da ragazza sprovveduta e superba qual ero, prendevo questa affermazione come l’espressione colorita di una visionaria, un’iperbole di una sentimentale, maniaca religiosa magari… invece è esattamente così: se la madre può uccidere il figlio che ha nel ventre, cosa impedisce a me di uccidere te? Niente, se non la forza. La legge del più forte. Si torna a quella barbarie e con il sigillo dello Stato.
Le donne, spesso, spessissimo sono le vittime consenzienti di un’atrocità preferita come scorciatoia (anche) da altri. Oppure sono le regine del ghiaccio col quale circondano il proprio cuore e quello del maschio che non può più dire niente. Via. Non conti niente, me la vedo io. O le destinatarie di un egoismo e un disimpegno facilmente preferito al rischio e alla responsabilità che gli adulti veri si assumono. Sono fatti tuoi, veditela tu, liberatene.
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Povere donne convinte che sia sempre un’opzione disponibile! Che quando si è disperate, angosciate, povere, minacciate e lasciate sole è lì a tentarti, ad invitarti.
L’esperienza anche germinale di essere madri non è rimovibile. Per questo credo che l’aborto sia una tragedia. Ma credo anche che, se confessato e perdonato, sia un’occasione di bene immensa. I piccoli martiri muti diventano la placenta che nutre nuovi santi.
Però, nel frattempo, nella società si calcifica questo muro storto che vuole rifondare una città senza Dio, il Dio di tutte le vite, e senza l’uomo, maschio e femmina. E’ l’uomo che si unisce alla donna e, per una cosa così piccola eppure misteriosa, immensa e bella, vede crescere e fiorire un altro uomo, in nulla inferiore a sè.
Riguardo a noi, alla nostra vicenda familiare posso dire questo: che per grazia, per educazione, per storia, per decisione del cuore né io né mio marito abbiamo mai pensato di avere un diritto da esercitare sui nostri figli e contro di loro, contro l’attributo più importante che è la loro esistenza.
Abbiamo sempre saputo che avremmo dato loro fattezze, tratti, inclinazioni forse talenti, ma non l’anima né quello che del tutto li separa e li differenzia da noi e li mette sul nostro stesso piano di regalità. Sono persone. E per questo del tutto indisponibili se non a loro stesse- e possono dolorosamente anche decidere per il male (io prego che almeno ripartano sempre, tornino indietro, continuino a dire che si sono sbagliati anche mille volte e tornino a Dio) e al loro Creatore che per primo si autolimita davanti alla loro libertà. Per questo sentiamo di avere una responsabilità enorme che è quella di custodirli, difenderli, educarli e consegnarli a Dio. Almeno fare di tutto e sperare, pregare perché imbocchino la strada che porta a Lui.
Io, invecchiando e forse maturando, ho scoperto di avere un solo e unico problema vero da risolvere nella vita. Vivere in modo da non distogliere la misericordia di Dio da me e non rifiutarla perché voglio andare in Paradiso. Unico problema vero: vivere bene, per morire bene e andare in Cielo. E non è una favola.
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Basta un nanosecondo di distrazione dal continuo intrattenimento (quasi un “trattenimento”) al quale siamo invitati da tutte le parti per ricordarci che siamo stati buttati nell’essere, nella vita e che vogliamo essere felici, per sempre.
E questo voglio per tutti i miei figli. Allora, se riesco a spaccare la crosta che si indurisce intorno al mio cuore, lo desidero anche per gli altri. Allargo per progressiva inclusione questo amore di viscere a tutti. Facendo a pugni con le mie miserie, le mie meschinità, la cattiveria, gli egoismi.
Ludovico, come tutte le sue sorelle che sono qua e i due che sono andati in Cielo prima di nascere, non ha niente di particolare. Non c’è molto da dire. È un figlio di Dio. Che abbia o non abbia certe cose. Che debba prendere medicine già da due anni e mezzo (ora quasi sei NdR) e che non sappia stare seduto non incide di un millimetro l’armatura della quale è rivestito.
La Gloria di Colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove. (Par. Canto I, 1-3)
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Questa è una delle poche terzine dantesche che so a memoria. È l’inizio della cantica del Paradiso. Ho voluto fare l’alternativa all’Università e mi sono appassionata a quella più trascurata dai percorsi di studio canonici e l’ho studiata per i fatti miei.
Non in tutti gli esseri la gloria di Dio splende ugualmente, ci sono dei gradi. In lui splende, nascosta e fulgida, molta gloria divina. In forza del paradosso che Gesù Cristo ha introdotto nel mondo. In forza di quello Ludo è il magnifico. E questo difendo e amo. Lui, le sue carnine tenere, le sue fatiche; le sue regressioni e la sua bellezza struggente, il suo profumo, la sua magrezza i suoi muscoletti poco sfruttati. I suoi occhi debolissimi. Affacciati chissà dove, però. Ho solo bisogno di pazienza. Di resistenza paziente e gioiosa. E di non temere si secchino le cisterne delle mie lacrime. Ne ho ancora. E ancora. Ancora.
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Ho anche un obiettivo, nato da un’intuizione vissuta nel nostro dramma, che desidero raggiungere: dimostrare che eliminare i deboli– quello che il nuovo ordine mondiale intende imporre come modello a tutti i paesi – sia una vera perdita. Un immiserimento non solo morale e umano, ma anche materiale ed economico. Ne sono filosoficamente ed esistenzialmente convinta. Quello che è spiritualmente ricco ridonda, ricade abbondante sul materiale e il corporeo (mi ricordò entusiasta il Card. Caffarra in un incontro personale, confortando questo mio pensiero con il suo, robusto, attinto alla Chiesa e alla sua sapienza). Fiocca come neve, si riversa come un fiume che esonda sul sociale, sulla vita intera.
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Ho letto un breve passaggio di Ettore Gotti Tedeschi (ora non ricordo dove), che attinge senz’altro alla ricchezza della sapienza che la Chiesa porta, che mette la miseria morale proprio all’origine della miseria materiale. Significa quindi che se ci impoveriamo tanto sul fronte morale, ed è evidente che scartare chi non è produttivo è un immiserimento morale (nella Spe Salvi Benedetto XVI dice che la capacità di soffrire e compatire è uno dei segni più alti di umanità), diventiamo più poveri anche in banca. Se ci sono studiosi di sociologia statistica demografia economia etc che vogliano aiutarmi in questa fatica…se no niente, chiedo all’Ill.mo Gotti Tedeschi.
Ah. Detto questo vorrei rassicurare su una cosa: la mia sofferenza è rimasta intatta e acutissima, nessun effetto anestetico. Anzi ci sono ancora tanti momenti di scoraggiamento. Eppure, anche dentro questa oscurità, è possibile vivere la pace e la gioia. Schivando l’autocommiserazione e la rabbia. E per favore, nessuno sia tentato di compiangerci!
C’è anche, devo riconoscerlo, una solitudine profonda e irraggiungibile, dovuta all’esigenza di preservare il cuore e alla natura umana. Il luogo della nostra solitudine inaccessibile è anche il più divinamente abitato…
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