Grazie a Don Fabio Bartoli che nel giorno di San Valentino ha scritto un pensiero a chi soffre per amore. Chi è vedovo, separato, tradito o abbandonato ha toccato un nervo scoperto dell’amore, la perdita. Il giorno di San Valentino può aprire ferite profonde nelle persone che ci sono vicine, e che in qualche modo hanno vissuto traumi legati a esperienze affettive: vedovi, separati, traditi. Più semplicemente anche coppie che si sono lasciate, magari vedendo naufragare l’ipotesi accarezzata di un matrimonio.
Si ha un bel dire che il 14 febbraio è solo una semplice occasione, che l’amore è una faccenda quotidiana e non un cioccolatino all’anno; però tutto il bombardamento di cuoricini, pubblicità, condivisioni personali sui social network può suscitare amarezza, dolore, rimpianti in chi si porta addosso le cicatrici di un amore che non rima allegramente con sole e cuore.
Oggi Don Fabio Bartoli lo ha ricordato a ognuno di noi, scrivendo un post su Facebook in cui ricordava nella preghiera e nell’abbraccio personale tutti quelli che, nei modi più diversi, soffrono per amore.
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Mi ha fatto prendere consapevolezza che non avevo minimamente pensato a quanti amici e parenti vivono drammi simili. Amiche ancora giovani e vedove, altri meno giovani e comunque non meno feriti dalla perdita del coniuge; amici che vivono la fatica addolorata di una separazione; altri che per l’ennesima volta hanno chiuso la porta di un rapporto su cui avevano puntato il proprio destino. Forse non era una sbadata distrazione la mia, ma una scelta un po’ consapevole di non vedere.
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Eppure l’amore per essere guardato onestamente deve fare i conti con la morte. Tante esperienze si possono definire di morte, oltre quella generalmente intesa: la perdita di fiducia, il tradimento, l’abbandono, la violenza, i voltafaccia, l’ignorarsi. Ogni perdita è una morte; e non è un caso che fin dall’antichità Amore sia stato contrapposto a Morte. Sono opposti che si assomigliano tanto, ed è un mistero. Chi ama fa esperienza dell’unica forza in grado di disintegrare l’ombra scura che la logica della morte vorrebbe imporre: “tu sei nulla“.
Ma chi ama dovrebbe sempre sentirsi in compagnia della morte, senza che quest’ipotesi sia affatto pessimistica o negativa. Perciò chi vive o ha vissuto il naufragio o la perdita di un amore è profondamente segnato dalla verità più profonda dell’esperienza affettiva.
Un dono infinito eppure mortale
Quando si tirano fuori esempi letterari sembra sempre di voler ostentare saccenza. Invece è una scelta di puro vantaggio: più l’argomento è grande, più occorre un contenitore grande per abbracciare tutte le sfumature. Il mito di Orfeo e Euridice accompagna l’umanità da così tanti secoli per dirci che la morte insegna all’uomo come amare, cioè riconoscendo il mistero vertiginoso di ogni persona e poi liberandoci dalla volontà di possesso.
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Orfeo perde Euridice poco dopo averla sposata, un’atrocità che alcuni conoscono nel proprio vissuto. Lei muore e lui scende nel regno degli Inferi per riprenderla.
Questa discesa nel regno della morte non è tanto una sfida, ma una coscienza che tutti dovremmo acquisire: Orfeo, a tu per tu con la morte, si rende conto che la persona a cui tiene di più ha una grandezza che oltrepassa la sua mortalità. Andarla a prendere, implorare Plutone che la liberi dai vincoli dell’Ade, è tutt’uno col dire: chi amo non è fatto per la morte, eppure è mortale.
Così il grande Ovidio ci restituisce la voce di Orfeo che dice:
presto o tardi tutti precipitiamo in quest’unico luogo.
Qui tutti noi siamo diretti; questa è l’ultima dimora, e qui
sugli esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine.
Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto
il tempo che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono. (dalle Metamorfosi)
Anche se brucia e fa venire i brividi, dovremmo tenerci caro lo sguardo che Orfeo guadagna dal suo lutto: chiede Euridice in pegno alla morte, riconosce che chiunque ci è accanto ci è stato dato. E ci è stato dato come dono passeggero. La permanenza, l’eterno, la fedeltà perfetta non appartengono alla terra.
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Plutone gli affida Euridice chiedendogli di precederla nel cammino d’uscita verso la luce senza mai voltarsi a guardarla. Una prova? Certo non è una punzione. Anzi. La discesa nel buio porta in dote anche questa consapevolezza: lo sguardo con cui amo non si deve trasformare in un possesso onnicomprensivo. Non conoscerò mai davvero chi amo, non posso scrutarne ogni recondito spazio intimo. Siamo insieme per un destino che s’intreccia con la libertà di ciascuno dei due, camminiamo ma c’è una distanza.
Orfeo non resiste e si volta, una premura che gli costerà la perdita senza appello dell’amata. Ama davvero chi non guarda, dunque? Ama davvero chi fa i conti con l’assenza, con la quotidiana consapevolezza che anche chi è qui accanto a noi non è del tutto nostro e non potrà mai esserlo. Si deve imparare a guardarsi con un occhio nostalgico, quello che ha chi è stato ferito: sullo sfondo nero della perdita – delle molte forme di morte – i colori di una presenza amata si fanno più vividi. Dimenticare la nostra fragilità (siamo capaci di tradire, scappare, fare violenza) e mortalità equivale a non vedere affatto qual è la trama della nostra vita.
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C’è un racconto di Dino Buzzati che parla di perdita e parla di amore, racconta di una madre che vive un’esperienza tragica e bellissima. Credo sia un brano che contiene un messaggio spirituale su ogni esperienza d’amore che viviamo.
All’improvviso il figlio Giovanni torna a casa dalla guerra dopo due anni di lontananza. Senza preavviso, eccolo varcare la soglia di casa, mentre madre e fratelli fanno le loro cose quotidiane. Che sorpresa! Una gioia incontenibile riempie quelle stanze. La mamma, incapace di gestire le emozioni, lo fa accomodare a tavola per servirgli il pranzo, e lo guarda come fosse un prodigio – dice l’autore. Pensava fosse morto e invece è vivo e di fronte a lei: un prodigio, qualcosa di straordinario che pure posso abbracciare.
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Ma Giovanni è triste, non vuole togliersi neppure il mantello. Senza spiegare molto, rovina la felicità generale dicendo che deve ripartire quasi subito. Un uomo lo attende giù alla porta. Chi è? Non lo sa, ma è giù in attesa. Dopo molte domande e mosse incerte, la mamma lascerà andare via quel figlio, creduto perso e poi rivisto per così poco. Affacciandosi alla finestra per dirgli addio, vede le due figure allontanarsi. E capisce.
E allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso, che mai e poi mai i secoli sarebbero bastati a colmare, si aprì nel suo cuore. Capì la storia del mantello, la tristezza del figlio e soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada, in attesa, chi fosse quel sinistro personaggio fin troppo paziente. Così misericordioso e paziente da accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre), affinché potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuori dal cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente affamato. (da Sessanta racconti)
Perdendo qualcosa ci accorgiamo di come si guarda davvero chi ci sta a fianco. È la perdita a dirci che prima dovevamo considerare chi c’era un guadagno, un dono. Non è affatto lugubre dire che per amare occorre avere questa tristezza grata nel cuore, la consapevolezza che Qualcuno attende alla porta: per un certo tempo mi è fatto dono di una presenza da amare e accudire, ma non ne sono il proprietario e neppure posso pilotare gli eventi. Posso ospitare frammenti di bene per un tempo incerto; e posso ringraziare Chi attende paziente alla porta.