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Polemiche sul presepe: l’importanza di prendere una posizione

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 13/12/18
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Forse per non ascoltare i silenziosi passi di Dio che av-viene, la gazzarra “politica” alza i toni, e dato il calendario lo fa proprio sul Presepe. Il quale però funziona con una mitissima ma irriducibile ostinazione: qualunque cosa si faccia, non se ne può uscire. Ecco perché è assurdo pensare a “scioperi della messa”, ma parimenti è impensabile pensare di fare della mangiatoia del Pane Vivo un soprammobile.

Questa serie di polemiche sul presepe sta inaugurando una nuova tradizione: in principio non si faceva il presepe; poi si è cominciato a fare il presepe; ora si fanno dispute sul presepe.

Una scena anni ’40 che avrebbe meritato i Social

Tutto ciò mi ricorda una splendida pagina di letteratura italiana: in Cristo si è fermato a Eboli Carlo Levi narra – e c’è un forte sostrato autobiografico, dunque di pura cronaca – di una vigilia di Natale ad Aliano in provincia di Matera (nel libro “Gagliano”). L’autore era al confino, ma il gerarca fascista locale, tale don Luigi Magalone, volle permettere ai confinati di festeggiare il Natale con un coprifuoco rimandato e, liberamente, assistendo alla Messa della vigilia. Ecco la pagina.

E venne la vigilia di Natale. La terra era piena di neve e di abbandono. Il vento portava il funebre suono della campana, che pareva scendere dal cielo. Gli auguri e le benedizioni piovevano, al mio passaggio, dagli usci delle case. I bambini giravano a gruppi, per l’ultima questua dei cupi-cupi. I contadini e le donne andavano attorno, portando i regali alle case dei signori; qui è uso antico che i poveri rendano omaggio ai ricchi, e rechino i doni, che vengono accolti come cosa dovuta, con sufficienza, e non ricambiati. Anch’io dovetti ricevere, quel giorno, bottiglie di olio e di vino, e uova, e canestrelli di fichi secchi, e i donatori si meravigliavano che io non li accettassi come una decima obbligatoria, ma che me ne schermissi, e facessi, in cambio, come potevo, qualche dono. Che strano signore ero io dunque, se non valeva per me la tradizionale inversione della favola dei Re Magi, e si poteva entrare a casa mia a mani vuote? Che quei potenti fossero venuti dall’Oriente, seguendo la stella, per portare le loro ricchezze al figlio di un falegname, era un segno della prossima fine del mondo. Ma qui, dove Cristo non era venuto, non s’erano mai visti neppure i tre Re.

Don Luigino mandò generosamente ad avvertire che quella sera, in segno di festa, avremmo potuto restar fuori di casa fino a tardi, ed assistere, se volevamo, alla messa di mezzanotte. A mezzanotte precisa io ero davanti alla chiesa, nella folla di contadini, di donne e di signori; e battevamo i piedi nella neve frusciante. […] Di lì a qualche minuto si vide scendere dal vicolo don Trajella, con dei grandi stivaloni da neve, e una grossa chiave in mano: si avvicinò all’uscio, mormorando qualche scusa per il ritardo, diede un giro di chiave, spalancò la porta, e corse ad accendere i ceri sull’altare. Entrammo allora tutti in chiesa, e la messa cominciò, una povera messa affrettata, senza musiche e senza canti. Quando la messa fu finita, all’Ite missa est, don Trajella scese dall’altare, e, traversando le panche dove eravamo seduti, salì sul pulpito per pronunziare la sua predica.

– Fratelli carissimi! – cominciò. – Carissimi fratelli! Fratelli! – e qui subito si interruppe, e cominciò a frugare in tutte le tasche, balbettando fra i denti parole incomprensibili. Inforcò gli occhiali, se li tolse, li rimise sul naso, tirò fuori il fazzoletto, si asciugò il sudore, alzò gli occhi al cielo, li rivolse in basso all’uditorio, sospirò, si grattò la testa in segno di sommo imbarazzo, lanciò degli oh! e degli ah!, congiunse le mani, le disgiunse, mormorò un pater, e finalmente tacque, con l’aspetto di un uomo disperato. Un mormorio corse nella folla. Che cosa avveniva? Don Luigino si fece rosso in viso, e cominciò a stridere: – È ubriaco! La sera di Natale! – Fratelli carissimi! – ricominciò don Trajella dal pulpito, – ero venuto qui, con animo pastorale, per parlare un poco con voi, che siete il mio gregge dilettissimo, in occasione di questa Santa Festa; per portarvi la mia parola di Pastore amoroso, solliciti et benigni et studiosi pastoris. Avevo preparato una predica veramente, mi sia concesso di dirlo con ogni umiltà, bellissima: l’avevo scritta, per leggerla, perché non ho molta memoria. L’avevo messa in tasca. E ora, ahimè, non la trovo più, l’ho perduta; e non mi ricordo più di nulla. Come fare? Che cosa potrò dire a voi, miei fedeli, che aspettate da me la parola? Ahimè, le parole mi mancano! – E qui don Trajella tacque di nuovo, e rimase immobile, con gli occhi al soffitto, come assorto. In basso, tra le panche, i contadini aspettavano, incerti e incuriositi: ma don Luigino non si trattenne più, si alzò rabbioso: – È uno scandalo, e una profanazione della Casa di Dio. Fascisti, a me! – I contadini non sapevano chi guardare. Don Trajella, come scuotendosi dall’estasi, si era inginocchiato, rivolgendosi verso un crocifisso di legno, attaccato sul bordo del pulpito, e, con le mani unite in preghiera, diceva: – Gesù, Gesù mio, vedi in quale imbarazzo mi trovo, per i miei peccati. Aiutami tu, mio Signore! Fammi uscire da questo malo passo, Gesù! – Ed ecco, come toccato dalla grazia, il prete balzò in piedi; con una rapida mossa della mano afferrò un foglio di carta nascosto ai piedi del crocifisso, e gridò: – Miracolo! Miracolo! Gesù mi ha ascoltato! Gesù mi ha soccorso! Avevo perduto la mia predica, e mi ha fatto trovare di meglio! Che cosa valevano le mie povere parole? Ascoltate, invece delle mie, le parole che vengono di lontano! – E cominciò a leggere il foglio del crocifisso. Ma don Luigino non l’ascoltava. Lanciato ormai in un freddo accesso d’ira e di sacra indignazione, continuava a gridare: – Fascisti, a me! È un sacrilegio! Ubriaco, in chiesa, la notte di Natale! A me! – E, facendo segno ai sette o otto balilla e avanguardisti della sua scuola perché lo seguissero, intonò «Faccetta nera, bella abissina». Il podestà e i ragazzi cantavano, ma don Trajella pareva non udirli, e continuava la sua lettura. Il foglio miracoloso era una lettera che veniva dall’Abissinia, di quel sergente gaglianese, allevato dai preti, che tutti conoscevano. – È la parola di uno di voi, di un figlio di questo paese, della più cara di tutte le mie pecorelle. La mia povera predica non valeva nulla, al confronto. Gesù, che me l’ha fatta trovare qui, ha fatto il miracolo. Sentite: «Si avvicina il Santo Natale, e il mio pensiero vola a Gagliano, e a tutti gli amici e i compagni di laggiù, che immagino radunati nella nostra piccola chiesetta ad ascoltare la Santa Messa. Qui noi combattiamo per portare la nostra Santa Religione a queste popolazioni infedeli, combattiamo per convertire alla vera Fede questi pagani, per portare la pace e la beatitudine eterna», ecc. ecc. – La lettera continuava per un pezzo su questo tono, e finiva con saluti per tutti, e particolarmente per molti del paese, che venivano chiamati a nome. I contadini ascoltavano compiaciuti l’ultraterreno messaggio africano. Don Trajella prese di qui lo spunto per la sua orazione, destreggiandosi tra i concetti di guerra e di pace. – Il Natale è la festa della pace, e noi siamo in guerra: ma, come dice così bene la lettera, questa guerra non è una guerra, ma un’azione di pace, per il trionfo della Croce che è la sola vera pace per gli uomini; – e così via. La predica si perdeva nel pandemonio: Don Luigino e i suoi ragazzi da «Faccetta nera» erano passati a «Giovinezza» e finita «Giovinezza» avevano riattaccato «Faccetta nera». Visto che i contadini non lo seguivano, e che il prete parlava, fingendo di non accorgersi del chiasso, il podestà si avviò alla porta, gridando: – Fuori dalla chiesa! Questo posto è profanato! Fascisti, a me! – e seguito dai suoi balilla e avanguardisti, e da qualcuno dei suoi amici, uscì, e si mise, col suo codazzo, a girare attorno alla chiesa, cantando alternativamente «Faccetta nera» e «Giovinezza», e così continuò per tutta la durata della predica. Don Trajella intanto tirava diritto, ed era il solo, nella chiesa, a non parere a disagio: aveva soltanto, contro il solito, due macchie rosse ai pomelli, nel viso pallidissimo. – Pax in terra hominibus bonæ voluntatis, figli miei dilettissimi. Pax in terra, questo è il messaggio divino, che noi dobbiamo ascoltare con particolare compunzione e devozione in questo anno di guerra. Il divino Infante è nato proprio in quest’ora per portare questa parola di pace. Pax in terra hominibus, e perciò noi dobbiamo purificarci, per sentircene degni, dobbiamo fare un esame di coscienza, dobbiamo chiederci se abbiamo fatto il nostro dovere, per essere degni di ascoltare con purezza di cuore il Verbo di Dio. Ma voi siete malvagi, siete peccatori, voi non venite mai in chiesa, non fate le devozioni, cantate canzonacce, bestemmiate, non battezzate i vostri figli, non vi confessate, non vi comunicate, non avete rispetto per i ministri del Signore, non date a Dio quello che è di Dio, e perciò la pace non è con voi. Pax in terra hominibus: voi non sapete il latino. Che cosa vuol dire? Pax in terra hominibus vuol dire che oggi, la vigilia di Natale, voi avreste dovuto portare un capretto in dono, secondo l’usanza, al vostro pastore. Invece non l’avete fatto, perché siete dei miscredenti; e poiché non siete bonæ voluntatis, non avete la volontà buona, così non avete la pace, e la benedizione del Signore. Pensateci dunque, portate al vostro parroco il capretto, pagategli i debiti per i suoi terreni, che glieli dovete dall’anno passato, se volete che Dio vi guardi con misericordia, vi tenga la sua mano sul capo, e ispiri la pace nei vostri cuori; se volete che la pace torni nel mondo, e finisca la guerra che vi fa trepidare per la sorte dei vostri cari e della nostra Patria diletta –. E così via di questo passo, con scherzi, rivendicazioni, e citazioni latine. «Faccetta nera» risonava dalla porta, sottolineando i passaggi dell’orazione, mentre il ragazzo campanaio, a un cenno del prete, si era attaccato alla campana, cercando di coprire, con quegli squilli da morto, i canti del podestà. In questo chiasso, fra la generale costernazione, la predica ebbe finalmente termine. Don Trajella scese dal pulpito, e senza voltarsi a destra né a sinistra uscì dalla chiesa, e noi tutti lo seguimmo. Fuori, don Luigino continuava a cantare. Un contadino col mantello nero aspettava davanti alla chiesa, tenendo per la cavezza un mulo sellato. Era venuto da Gaglianello per prendere il prete, che doveva dire anche là la messa di Natale. Don Trajella chiuse la porta della chiesa, si mise la chiave in tasca, e, aiutato dal contadino, si arrampicò sul mulo e partì. Doveva fare due ore di strada, sul sentiero tra i burroni, nella neve. A Gaglianello Gesù Bambino nacque, quell’anno, verso le quattro del mattino. Don Trajella ripeté là il suo miracolo, e poiché non c’era, in quella frazione sperduta, né podestà né signori, tutto andò benissimo, e i contadini furono entusiasti della predica, e, una volta tanto, il povero prete venne trattato con i dovuti onori, ebbe da bere quanto volle, si ubriacò, questa volta davvero, e non tornò a Gagliano che tre giorni dopo.

Che spettacolo sarebbe stato, se ci fossero stati i social: don Luigino avrebbe fatto fare una diretta Facebook mentre intonava “Faccetta nera” e “Giovinezza”, #preteubriaco sarebbe finito tra i trending topics in pochi minuti, noi qui avremmo poi versato fiotti di parole per spiegare che il genitivo “bonæ voluntatis” si riferisce soggettivamente a Dio e oggettivamente agli uomini (un errore che ho visto contestare fin da scritti del IV secolo!), deprecando le strumentalizzazioni di cui sempre le storpiature esegetiche diventano mezzo. Ognuno si sarebbe strappato i propri cinque minuti di attenzione e tutti ce ne saremmo andati contenti.



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Gesù Cristo, signor Migrante e migrante Signore

Proprio come accade nello scomposto baccagliare di questi giorni, dove si discute dell’opportunità o meno di fare “lo sciopero della Messa” – e nella notte di Natale. L’assurdo passaggio “se aveste buona volontà portereste soldi, cibo e bevande al vostro parroco”, riletto dopo una sfogliata ai nostri giornali, non pare più ai confini della realtà: Levi però aveva trovato una spiegazione concisa e convincente – Cristo si è fermato a Eboli, ad Aliano mica c’era. Possiamo noi chiederci se per caso Cristo non sia giunto a Genova e a Roma?

Abbiamo avuto modo di sottoscrivere altre dichiarazioni di don Farinella, che talvolta si sono rivelate di rari equilibrio e lucidità. È un mistero come sia giunto a pensare possibile «un vero e proprio sciopero» contro il provvedimento

con cui il governo e il parlamento italiani nel silenzio totale dei cattolici e dei cristiani, alla vigilia di Natale, espellono dall’Italia quel Gesù di Nazaret di cui si vorrebbe celebrare la nascita.

E anche su questo punto don Farinella è stato più preciso di altri – magari più blasonati – teologi. Ho letto ad esempio una dichiarazione di padre Tarcisio Stramare per cui sarebbe una falsità dire che la sacra famiglia fu una famiglia di migranti:

Assolutamente no, non furono migranti. La Santa Famiglia si spostò per andare a rispondere ad un censimento che di fatto serviva ai romani a fini fiscali, per riscuotere le tasse in ragione del numero di persone censite. Anzi, il fatto che vi andassero, significa che Giuseppe e Maria erano rispettosi della legge del tempo.

E continua, l’oblato giuseppino:

Chi lo afferma ignora o peggio strumentalizza il Vangelo. Oggi sono di moda i migranti e li si vuole vedere o mettere dappertutto e allora si inventano cose strane, persino con letture inappropriate del Vangelo e della vita dei santi. Accostare Maria e Giuseppe a migranti è fuorviante, certamente segno di scarsa conoscenza. Magari certe affermazioni, azzardate, fanno impressione sulla gente, piacciono, e allora ci si butta. Bisogna essere attenti a non inventare nulla.

Parole sconcertanti, se vengono dalla bocca di uno che senza dubbio i Vangeli li conosce a menadito. Don Farinella, difatti, ha precisato che lo statuto di “migranti” non si addice – sempre analogicamente, beninteso – al viaggio da Nazaret a Betlemme, bensì alla fuga dal potere erodiano – che porta la Famiglia in Egitto. E per un paio d’anni, visto che Erode morì nel 4 a.C. e la nascita di Cristo va collocata intorno al 6 o 5. Parecchi mesi di precarietà, di difficoltà economiche, lavorative, abitative, di incertezza sul futuro… aspettando fiduciosamente il via libera, che sarebbe arrivato in un sogno celeste. E don Farinella, correttamente, ha detto:

[…] è un profugo che scappa dalla polizia di Erode, ricercato per essere fatto fuori, emigrante in Egitto in cerca di salvezza e di fortuna, nato fuori dall’abitato perché nessuno lo voleva

«Se non del tutto giusto / quasi niente sbagliato»: è il distico di Fabrizio De André per descrivere il protagonista della sua Storia di un impiegato quando questi si decide a risolvere lo stallo della propria vita diventando Il Bombarolo. Così don Farinella, e come lui tanti altri preti che – giustamente – stanno agendo da voce critica nei riguardi del potere temporale. Il cardinal Gualtiero Bassetti l’ha detto recentemente e con chiarezza: la Chiesa

è una comunità di fedeli in Cristo e non certo un partito politico. Quindi non può stare all’opposizione di alcun governo. Oggi come in passato siamo “voce critica” ma al tempo stesso accogliamo le iniziative che riteniamo opportune e che sono a favore del bene comune. Tutto ciò che viene fatto concretamente per l’Italia, per i poveri, per la famiglia, per i giovani e per il lavoro ha sempre il nostro incoraggiamento. Ovviamente non bisogna cercare scorciatoie demagogiche o alimentare aspettative illusorie. Soprattutto non bisogna soffiare sul fuoco del conflitto sociale e occorre affrontare in positivo le questioni dei migranti e dell’Europa.

Riflettere teologicamente sul semantema drammatico della mangiatoia

Qualche giorno fa mi era capitato di soffermarmi a riflettere su queste cose anche altrove, e osservavo che quanto al presepe

il nodo centrale, ovviamente, è teologico, perché nessuno può pensare di accogliere e adorare la carne di Cristo avvolta in fasce se disprezza quella a stento coperta dagli stracci; poco meglio, in fondo, faranno quelli che si produrranno in grandi retoriche sui migranti senza aprire concretamente la loro mano (e «non sappia la tua destra ciò che fa la tua sinistra…») al povero che vive sotto alle «vostre tiepide case».

La nascita di Cristo è Dio che muove il Re sulla scacchiera della storia: il re, come tutti sanno, fa un passo per volta, l’osservatore disattento neanche se ne accorge, ma quello avveduto sa che il Giocatore sta compiendo una mossa decisiva, irrevocabile. Questo comporta un duplice carattere, consono al mistero stesso dell’Incarnazione («come infatti nella maggior parte dei casi – diceva Cirillo di Gerusalemme –, tutto è duplice per il Signore nostro Gesù Cristo»): da una parte è un evento storico, teoricamente composto di meri fatti bruti; dall’altro è il dato più significativo e più “nuovo” della Storia (con la S maiuscola) insieme con la stessa e sola Risurrezione/Ascensione/Pentecoste. Ragion per cui quel grande poeta e vescovo napoletano che fu sant’Alfonso scrisse:

Fermarono i cieli
la loro armonia,
cantando Maria
la nanna a Gesù.

Le orbite dei pianeti non poterono restare indifferenti all’inaudito prodigio di un Dio così onnipotente da operare l’impensabile – nascere da una propria creatura e lasciarsi addormentare dalla sua nenia.



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Non si tratta di “considerazioni poetiche”, ma della ragione per cui il presepe interessa anche ai non credenti, e a titolo non totalmente peregrino: anche chi non ha compiuto “il salto della fede” può sentirsi interpellato da quella insistente presenza – Dio è insistente, persistente… si limitasse alla mera esistenza… – e questo può concretarsi nei termini di una vaghezza, di una nostalgia, di un ricordo d’infanzia. Dal punto di vista semantico, il presepe è drammaticamente performativo in quanto, mentre ce l’abbiamo davanti, già in quel momento ci siamo dentro: la nostra posizione di fronte al Bambino ci rende immediatamente personaggi del presepe. È performativo nel dramma ed è drammatico nella performatività: si può scegliere di essere in qualunque punto del presepe, di fare o non fare qualunque cosa… tutto tranne che uscirne. Ecco cosa produce, semanticamente, quella silenziosa e minuscola “mossa del Re”. Si scopre l’invadenza di Dio nella storia, e il presepe è la reificazione simbolica di questa immensa teo-drammatica.

Un corollario di ciò è che – siccome il presepe è statuario ma av-viene nel tempo – una persona che oggi è lontana potrebbe essere vicina domani, o viceversa; una persona che oggi osserva scetticamente o con curiosità data dal folklore o dal sentimento potrebbe cogliere il Mistero del Bambino – se accoglierà la Grazia di vedere la buona volontà di Dio – domani.

E mentre ci si rivela la pazienza di Dio – sublime smerigliatura del mysterium pietatis di cui parlavamo giorni fa – veniamo misticamente indotti a quella che tra le virtù Tommaso riconobbe quale loro auriga: la prudenza. Proprio perché il presepe ci intrappola più di Jumanji, nessuno può pretendere di estrometterne chicchessia.



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I pastori ed Erode sono tutti nel presepe e né gli uni possono cacciare quello né questo può nuocere a quelli: però la distanza tra loro è irriducibile e innegabile. Don Farinella può giustamente ricordare che certi provvedimenti politici – quali furono quelli di Erode – equivalgono alla persecuzione del Messia, ma non per questo può “chiudere la capanna” in cui sta Gesù. Cristo nasce a Betlemme, la Casa-del-pane, e con questo accoglie – nella suprema libertà di Dio – il destino di essere mangiato o sputato, digerito o vomitato, smozzicato, sprecato, tenuto lontano dagli affamati per cui era stato dato. Illudersi di poter ridurre questa rivoluzione radicale e permanente a un soprammobile estetico o a una reclama politica significa scegliere per sé il ruolo di statuine ben ridicole.

Per questo sull’ultimo numero di Famiglia Cristiana, in edicola oggi, monsignor Bregantini ha scritto:

Non si può invitare a fare il presepe e non accogliere negli Sprar una coppia vera di giovani sposi che hanno avuto un bimbo qualche mese fa e ora sono per strada. Non si può venerare il crocifisso senza aver solidarietà con i crocifissi della storia.

E in effetti Yousef e Faith (guarda l’ironia della Vita: lui si chiama come il marito di Maria e lei come ciò che rese l’Immacolata Madre di Dio!) sono davvero genitori di una bimba di sei mesi, aspettano un altro figlio e sono stati espulsi dal Centro di accoglienza di Crotone e buttati in mezzo alla strada a causa del “decreto Sicurezza”



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Proprio come nel racconto evangelico, in aiuto alla famiglia sono intervenuti la Caritas e la Croce Rossa, che hanno offerto una sistemazione provvisoria, fino a che una coppia – peraltro mista – ha messo a disposizione una casa sfitta.

«Semplicità evangelica, povertà, umiltà»

A evitare questo spreco del Natale e di Colui che lo fa, il vero Pan d’Oro degli uomini, mira il #dialogo settimanale del cardinal Bassetti, uscito pure oggi sul Settimanale de L’Osservatore Romano, che questo scrive sul presepe:

Un simbolo antico che in Italia ha una storia speciale grazie alla felice intuizione del Poverello di Assisi. Tommaso da Celano, descrivendo la rappresentazione del presepio voluta da san Francesco a Greccio, restituisce il significato profondo di questo simbolo natalizio: «In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà».

Il presepe ancora oggi ha questo significato: semplicità evangelica, povertà, umiltà. E null’altro. Le odierne dispute sul presepe, perciò, stridono alle orecchie di chi è puro di cuore e risultano enormemente distanti dalla commozione e dal giubilo raccontati da Tommaso da Celano. Il giorno della rappresentazione di Greccio, scrive questo autore medievale, è «il giorno della letizia» e «il tempo dell’esultanza»: ogni volta che san Francesco «diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole», scrive Tommaso. Bisogna allora avvicinarsi al Natale cercando di gustare questa dolcezza, e dunque lasciando da parte asprezze, maldicenze, divisioni.

Insomma, con buona pace di Carlo Levi Cristo non si è fermato: né a Eboli, né a Genova né a Roma. Bisogna solo capire dove intendiamo fermarci noi.