“Voglio e amo la vita. Però se Dio vuole che muoia, morirò, perché posso aiutare anche dal Cielo”.
Una vita piena di entusiasmo e fede; la malattia vissuta affidandosi a Dio, lottando internamente ma con la gioia sul volto. La storia di questa giovane ragazza spagnola, dichiarata venerabile nel 2016, ci mostra una volta di più quanto la santità sia una chiamata alla portata di tutti, per cui non contano doti straordinarie ma uno straordinario amore per ciò che Dio ci mette tra le mani.
Ha fatto parte del cammino dell’ Opus Dei, rendendo la propria vita quasi una traduzione letterale di questo pensiero di San Josemaria Escrivà: «Essere santi non è facile, ma non è neppure difficile. Essere santo vuol dire essere buon cristiano: assomigliare a Cristo. – Chi più assomiglia a Cristo, più è cristiano, più di Cristo, più santo».
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Tutta per Dio, in famiglia e con gli amici, dalla pallacanestro alle periferie
Maria Montserrat Grases Garcia, familiarmente chiamata Montse, nacque a Barcellona nel 1941, seconda di nove fratelli. Era di carattere solare ed entusiasta, amava il teatro e la danza; aveva molti amici. Dalla famiglia fu accompagnata a scoprire la gioia del cristianesimo, che visse appieno quando fu accolta come numeraria nell’Opus Dei. Anche prima, però, riempiva il suo tempo di carità, oltre che di studio e divertimento: la domenica con alcune compagne di scuola si recava nei quartieri poveri di Barcellona per fare catechesi ai bambini.
L’ingresso nel cammino dell’Opus Dei avvenne il 24 dicembre del 1957, da quel momento la sua devozione si accrebbe come impegno nel quotidiano, a servire gli altri e svolgere le mansioni semplici che le venivano chieste. Anche una partita di pallacanestro era per lei occasione per portare la Buona Novella a chi incontrava.
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Contemporaneamente, proprio in quel dicembre, il disegno di Dio la chiamava a una battaglia più gravosa che cominciò con un dolore alla gamba:
Poco prima di compiere diciassette anni, le diagnosticarono un cancro (sarcoma di Ewing) al femore della gamba sinistra. La malattia durò nove mesi e fu causa di dolori molto forti, che lei accettò con serenità e con fortezza. Anche se gravemente malata, continuò a manifestare un’allegria contagiosa. Riuscì ad attrarre a Dio molte amiche e compagne di classe che andavano a trovarla. Il dolore divenne un luogo di incontro con Gesù e con la Madonna. Quanti la frequentavano furono testimoni della sua progressiva unione con il Signore. Una delle sue amiche afferma che, quando la vedeva pregare, palpava la sua intimità con Cristo. (da Opus Dei)
Una morte feconda
Il progressivo aggravarsi della malattia comportò una grande lotta interiore per Montse, che però mise a fuoco con ancora più chiarezza che quella circostanza particolare era la chiamata di Dio per lei. Significativa a questo proposito la richiesta, all’indomani della diagnosi, che fece alla direttrice del centro dell’Opus Dei che frequentava: «Sono molto serena e molto contenta. Ho una grande pace. E voglio fare la volontà di Dio. Ricordamelo, se lo dimenticassi: io voglio fare la volontà di Dio. Questa è la seconda donazione che ho fatto al Signore».
Montse morì il 26 marzo del 1959, era un Giovedì Santo. Da allora molti giovani l’hanno sentita accanto nelle prove e nella malattia, raccogliendo testimonianze che fanno parte della documentazione per il suo processo di canonizzazione. E’ stata tra i giovani indicati come esempio nel corso del sinodo dello scorso ottobre.
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Il 26 aprile 2016 fu dichiarata venerabile, in quella occasione il Prelato dell’Opus Dei, Mons. Javier Echevarría, ha raccolto una sintesi umana della ragazza spagnola:
«ha corrisposto sin dalla giovane età all’amore di Dio in mezzo al mondo e ha cercato di avere una vita di pietà, di lavorare bene – mettendo a frutto le sue doti – con spirito di servizio, nel desiderio costante di occuparsi generosamente degli altri, dimenticandosi di sé stessa. Ha seguito fedelmente il Signore quando la chiamò a far parte dell’Opus Dei e ha cercato di camminare – lungo un’esistenza ordinaria come quella di tante donne – molto unita a Dio, anche quando si ammalò del cancro che la condusse alla morte e che le causò dolori molto forti. Cercò di portare a termine con delicatezza soprannaturale le sue occupazioni quotidiane, per amore di Dio e degli altri, e si propose di attrarre a Gesù le sue numerose amicizie» (da Opus Dei)
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La fatica nostra e dei santi
Il sorriso e le battute ironiche non le mancavano mai, dicono gli amici e i conoscenti. Le foto ce la mostrano come una ragazza comune e bella, forse davvero la si noterebbe in mezzo a una folla per lo sguardo onestamente lieto. Ci sono sorrisi forzati e altri che sono uno specchio trasparente dell’anima, propri di chi ha trovato la vera fonte dell’eterna giovinezza, che è pure eterna gioia.
Eppure documentandomi su questa ragazza, morta poco prima di compiere 18 anni, mi ha colpito anche l’estrema sincerità nel mostrare la propria fragilità. I santi hanno una marcia in più che non è fatta di potenza, ma di inciampi. Resta qualcosa di davvero misterioso la forza che solo l’umiltà porta in dote: senz’altro l’esempio di queste vite spese a non fare altro che il proprio dovere quotidiano, in salute e in malattia, ci suggerisce che la proposta della santità è fatta in prima persona a noi. Sarebbe facile delegarla ad anime più nobili, più pure, più profonde, più degne. Più.
Raccontano che quando seppe dal papà tutta la verità sulla sua malattia, Montse fece una smorfia. Ecco, ho intravisto in quel cedimento del volto il punto in cui attecchisce l’abbraccio vivo con Dio, attecchisce nella parte meno presentabile … lavora e incide lì. Forse, quel che io solo intuisco balbettando, lei lo vide con gli occhi trasparenti del dolore vero: raccolse un diario quotidiano della sua battaglia interiore di ragazza morente. Uno dei passaggi più belli l’ho trovato in un articolo di Benedetta Frigerio che riporta alcuni appunti della Grases:
Il 29 agosto scrisse: «Orazione: mattina così così, pomeriggio male ma lotto. Santa Messa e Comunione: molto distratta. Rosario: bene ma fuori orario. Vangelo e lettura spirituale: di malavoglia (…). Nervi: un po’ meglio» (da Tempi)
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C’è qualcosa di più pienamente umano e fatto santo? Non una litania di bei gesti e azioni gloriose, ma un elenco di inciampi; messi a fuoco per essere guardati, innanzitutto. Guardati per essere offerti, poi. E’ tutto ciò che possiamo dare? Diamolo, il santo è quel lottatore distratto e di malavoglia che sa a che braccia affidare le proprie smorfie. La parte bella e buona di noi è così poca cosa, al disegno di Dio sul mondo occorre un campo più vasto e semina a mani piene nei nostri ettari lasciati a vuoto, aridi, pieni di erbaccia.
Per chi voglia, è possibile recitare una novena a Montse Grases; il nostro tempo ha bisogno di alleati che ci diano vigorose spinte per trasformare il modo di guardare l’impegno quotidiano, le imprese semplici e invisibili di ogni giornata: è lì – cioè qui – l’alveo della nostra santità.