Le parole delle Scritture e dei santi, ma pure della letteratura, ci garantiscono che le tentazioni non sono mai più grandi delle nostre forze; eppure prima o poi tutti quanti facciamo l’esperienza di cadere sotto tentazioni “irresistibili”, le quali descrivono nel tempo la parabola di vizi che magari ci perseguitano per molto tempo. La sottile tentazione è allora quella di accusare indirettamente Dio, e di restare piegati su noi stessi a «detestare la nostra colpa». Inutilmente. La strada giusta è un’altra.
…e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male.
Si traduca come si voglia, ma queste ultime parole del Padre Nostro esprimono comunque l’ambivalenza di una tensione, quella tra la tentazione e il dono di Dio: «Dove è abbondato il peccato sovrabbonda la grazia» (Rom 5, 20), afferma Paolo, e nondimeno non diremo mai «continuiamo a restare nel peccato perché abbondi la grazia» (Rom 6, 1), come se la tentazione venisse da Dio. Appunto risponde Giacomo: «Nessuno quando è tentato dica “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e nessuno tenta al male» (Gc 1, 13).
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Poi le voci dell’Antico e del Nuovo Testamento ci confortano unanimi riguardo al ruolo protettivo e benevolo della provvidenza di Dio, che si cura tanto delle orbite planetarie quanto dei nostri ben più erratici cammini. Nel bellissimo Salmo 120 (121) leggiamo:
Egli non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode:
non si addormenta, non prende sonno
il custode di Israele.Sal 120 (121), 3-4
e se alle volte sentiamo di essere al limite della sopportazione è ancora la voce dell’Apostolo a confortarci:
[…] Dio infatti è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla.
1Cor 10, 1-13
Certamente a tutto questo doveva pensare anche Alessandro Manzoni quando, terminando l’altissimo brano del capitolo VIII dei Promessi Sposi, noto come “Addio ai monti”, pone questa chiusa nel cantuccio lirico di Lucia:
Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.
Tutto vero, tutto bello, tutto noto. E però Lucia Mondella resta in buona parte un modello – sublime e quotidiano al contempo –, non propriamente il nostro alter ego. In altre parole, tutti noi facciamo l’esperienza di essere sopraffatti dalla tentazione, di vedercene soverchiati e di cadere nel peccato. Peccato di cui presto o tardi assaggiamo i frutti – acerbi e insieme marci – e per cui torniamo a chiedere perdono, pieni di lacrime e di vergogna. Tutto ciò che abbiamo detto viene dunque rimesso in discussione, mentre in buona sostanza ci domandiamo: «Perché Dio ci ha lasciati in balia della tentazione se – nella sua prescienza – sapeva infallibilmente che non le avremmo resistito?».
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Un simile pensiero rileva della psicologia di Adamo, che poi è l’uomo vecchio mai del tutto morto in noi: come infatti quello, alla domanda su ciò che avesse fatto, rispose che ad agire era stata la donna, quella che Dio stesso gli aveva dato; così anche noi, cedendo alla tentazione, diciamo che è stato Dio ad averci lasciati in una situazione più grande di noi. Ricordate la “preghiera” di Frollo ne Il gobbo di Notre Dame firmato Disney? «Che c’entro io / se vuole Dio / ch’io non resista al / desiderio che sia mia?» [in originale: «It’s not my fault / if in God’s plan / He made the devil so much / stronger than a man»]
Quel salmo oscuro che ci illumina
E l’ascoltatore attento coglie che il canto di Frollo è in realtà un controcanto confutato già sul nascere dal cantus firmus del coro – che è letteralmente la Chiesa – nel quale proprio in quel momento si sta recitando il “mea culpa”. È questo il caso in cui un passo biblico piuttosto oscuro giunge provvidenziale a rischiarare una questione poco chiara:
Nel cuore dell’empio parla il peccato,
davanti ai suoi occhi non c’è timor di Dio,
poiché egli s’illude con sé stesso
nel ricercare la sua colpa e detestarla.Sal 35 (36), 2-3
Solo l’esperienza può spiegarci quanto sia vera questa apparente contraddizione: l’empio cerca la propria colpa e prova a detestarla, e nondimeno la sua è un’illusione ed egli resta quel che è – cioè un uomo senza pietà. Come Frollo nel film d’animazione del 1996, come ciascuno di noi quando ci chiediamo perché Dio ci lasci al male quando sa che vi soccomberemo (e dunque sottilmente lo additiamo a vero responsabile).
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Il salmo pronuncia quelle parole oscure (una lectio difficilior attestata in tutte le lingue antiche!) perché rende conto precisamente dell’incapacità dell’uomo di emendarsi dalle proprie colpe: non è questione d’intelligenza, non è questione di volontà. Possiamo ben vedere quali sono i nostri peccati, e ancora di più possiamo volercene emendare. E tuttavia, per tornare alle parole di Paolo,
io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?
Rom 7, 18-24
Non lo si sarebbe potuto esprimere meglio: Paolo vive precisamente ciò che accusa Frollo, ciò che tutti abbiamo esperito, ma pur ammettendo che questa condizione è “da sventurati” egli non diventa tuttavia un “empio”. Perché? Perché ha intuito che un liberatore ci può essere, anzi c’è: «Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore!» (Rom 7, 25).
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Chi pensa di liberarsi da sé del proprio peccato è “un illuso”, stando al salmo, oppure un mitomane come il Barone di Münchhausen – e il mitomane è un illuso al quadrato, uno che spara balle così intensamente che alla fine se ne persuade. L’uomo prigioniero della propria menzogna.
A questo punto la risposta alla domanda “Perché Dio permette…?” diventa in qualche modo trasparente: una delle prime cose che l’uomo alle prese col proprio limite peccaminoso deve imparare è a detestarlo, sì, ma perché ferisce una relazione con l’Altro, con Dio, non perché scalfisce il proprio idolatrico amor proprio. Dio è infatti quell’Altro onnipotente e buono che col suo perdono può guarire le ferite del peccato e renderle anzi fonte di una vita santa, laddove noi stessi su quelle ferite non potremmo fare se non inutili impiastri che la renderebbero cancerosa.
La prova del nove: impariamo dai nostri bambini
E in ultimo, la risposta mi si conferma vera e sacrosanta quando guardo a come seguo mia figlia che barcollando si avventura per casa: le capita di inciampare, di tanto in tanto, e di cadere (più o meno compostamente); facendo la tara delle volte che non sono presente o attento (ciò che Dio invece è sempre), il mio cuore di padre non interviene tuttavia di continuo a rimuovere tutti gli ostacoli di fronte a lei. Qualche volta la tengo per mano, altre volte l’avverto a voce di fare attenzione a qualcosa (questo è immagine della legge divina, quello è tipo della grazia)… ma sempre resto lì appostato e pronto a intervenire. Quando cade si spaventa e piange, proprio come tutti noi continuiamo a fare, anche da adulti, non appena tocchiamo con mano le conseguenze di quegli errori teologali ed esistenziali che chiamiamo peccati. Allora mia figlia spalanca le braccia verso l’alto e mi cerca, senza pensare che io avrei potuto evitare la sua caduta, o che se in quel momento l’avessi tenuta per mano lei ora non starebbe piangendo: come Pietro che affonda in acqua (cf. Mt 14, 22-33), la mia bimba non pensa di aver sbagliato a fidarsi della parola di chi la incoraggiava a muovere i suoi passi, ma cerca soltanto l’abbraccio del Padre, che tutto lenisce, guarisce, consola.