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Elizabeth Sombart: la pianista sull’oceano del dolore umano (VIDEO)

Elizabeth Sombart
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Paola Belletti - pubblicato il 23/10/18
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La potenza inerme della musica di fronte alla tracotanza del male; così una pianista d’eccezione gira il mondo per diffonderla nei luoghi dove non arriverebbe mai

Cammina a piedi nudi nella sede italiana di Résonnance, la fondazione con cui da anni porta la musica classica là dove la musica classica, da sola, non arriverebbe mai. In mezzo alle guerre, tra profughi e rifugiati, negli ospedali, nelle carceri. E negli orfanotrofi, come il luogo in cui tutto è iniziato. (Corriere)

Un premio prestigioso, in Italia, per un’artista internazionale

Riprendiamo dal Corriere Buone Notizie gli accordi con i quali il redattore apre questo brano. Sembra già musica, in effetti, la storia di Elizabeth. Nata a Strasburgo il 29 maggio 1958, inizia a suonare il piano all’età di sei anni.

Ha un curriculum che racconta con asciutta essenzialità la ricchezza sontuosa di una vita artistica piena, alta, ricca di successi, è vero, ma sentendola parlare non pare interessarle in modo precipuo. E’ concentrata sulla vita che essendo ovunque e sempre non permette distrazioni. E’ pianista, compositrice, maestra. La cosa che colpisce leggendo di lei e di più sentendola, guardandola parlare è la purezza intensa e asciutta, quasi violenta di fronte alla vita e alla sua profondità.



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Ma torniamo ai fatti, quelli un po’ superficiali o meglio visti da lontano, che sono questi. Il 12 ottobre Elizabeth ha ricevuto a Napoli il Premio Montale Fuori di Casa dedicato tradizionalmente alla letteratura ma eccezionalmente in questa edizione rivolto alla musica. Lei e il violinista siriano  Alaa Arsheed i due artisti insigniti del riconoscimento.

Cosa fa questa pianista sublime oltre che eseguire concerti e impartire lezioni? Dal 1998 ha creato la Fondation Réssonnance che è oggi presente in altri sei paesi, Francia, Italia (ed è nella sede trasteverina che i colleghi di Radio Radicale l’hanno intervistata pochi giorni fa), Belgio, Romania, Spagna e Libano; e la cui missione è offrire la musica classica nei luoghi dove non è presente: ospedali, case di riposo, carceri, strutture per persone disabili, imprese. (vedi link)

La musica che fa del bene, non beneficenza

Ma non si tratta di un esperimento marketing, di un approccio innovativo da Terzo Settore avanzato, come a dire “aggrediamo una fetta di mercato nuova, conquistiamo nuovi target”. Piuttosto si tratta di assecondare il movimento naturale della musica e dell’arte che è inclusivo e non elitario, gratuito e non esclusivo.

Parla di dolore, di violenze, di solitudine e desolazione, di cose con le quali lei si misura quotidianamente e che la ragione umana non riesce a concepire; eppure sono gli uomini stessi, spesso e inspiegabilmente volentieri (se non teniamo conto del mistero abissale della malizia) che infliggono tanto ai loro stessi fratelli; un esempio su tutte: la storia di alcune donne, – poco più che bambine – siriane violentate giorno e notte ininterrottamente da cinquanta uomini per un tempo lunghissimo. Per loro lei ha suonato, forse anche per sé stessa e per tutti poiché tanto orrore con che cosa si può coprire?

Il dramma della libertà umana e la compassione “impotente” di Dio

Questa vicenda in particolare ha un epilogo tragico e di difficilissima lettura. Non possiamo che lasciarlo a Dio. Queste 18 ragazze si sono tutte suicidate ma secondo le loro intenzioni allo scopo di liberarsi e di accedere alla vera vita; lo hanno lasciato scritto. Che il suicidio resti un male gravissimo contro un bene assoluto e indisponibile va ripetuto, come cristiani e come esseri umani di buona volontà; ma va ripetuto tremando di fronte ad una tale profondità, sia dell’iniquità subita, sia delle anime di queste giovani così a lungo torturate, nei loro poveri corpi. Dio sa, noi no.

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Con la stessa attenzione e intensità parla di soldi e di Provvidenza, Elizabeth; dice che ha già girato le sue pressanti richieste al Provvidente per gli ambiziosi progetti che la fondazione ha iniziato o vuole intraprendere; parla di Dio e della necessità di dire il suo nome, di chiamarlo. Un nome che in Francia, nelle università, è una vera e propria parolaccia. Il Suo nome deve essere detto, come anche quello dell’amore, della vita ma secondo la loro verità e non come succede oggi per significare il contrario. Anche questa è una violenza alla quale la musica di Elizabeth si oppone, senza diventare ideologia.

La musica ci introduce in un tempo diverso da quello degli orologi e della produzione ed è un tempo che sentiamo dentro di noi e riconosciamo vero, reale sebbene invisibile e non misurabile al fondo del nostro essere; un tempo che sa di eternità. A questo invita la musica vera mentre quella industriale non lo fa, ti ributta nel tempo della brutalità, del fare forsennato e non umano, non abbastanza.



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La resilienza umana, un vero spettacolo

Un’altra parola che ricorre e ci rincorre quando Elizabeth si racconta e risponde a chi la intervista è resilienza. Usata spesso nei nostri tempi e non sempre a ragione è invece la grande potenza delle creature umane. Fatte per il bene e la felicità, di fronte o dentro ad abissi di male indicibile ritrovano la loro forma autentica lasciando esplodere in loro e attorno a loro l’amore e il perdono. E senza trascinare Dio sul banco degli imputati; Lui semmai è lì a piangere con gli oppressi.

Vi faccio una confessione: voleva essere un articolo semplice, che riferisse una delle tante, meravigliose storie di bellezza che si fa largo tra le macerie e che abbiamo il dovere morale di raccontare e diffondere; ma l’incontro seppure fugace con questa donna mi ha posto davanti a qualcosa di più grande e vertiginoso.

Avremo occasione di tornare a parlarne.