Perché l’anima non è un’isola ma una sposa, in grado di portare in sè tutto il mondo, tutti i fratelli. Come ha fatto S. Teresa di Lisieux, vera patrona delle Missioni e come ci insegna Papa FrancescoUn inquieto desiderio…
Il Santo Padre Francesco, nel suo recente viaggio nei Paesi Baltici, ci offre l’occasione di vagliare un prezioso e poco conosciuto insegnamento di S. Giovanni della Croce. Lo ha citato nell’appassionato discorso ai sacerdoti, religiosi, consacrati e seminaristi tenutosi nella cattedrale di Kaunas lo scorso 23 settembre:
Siamo noi, uomini e donne di speciale consacrazione, coloro che non possono mai permettersi di perdere quel gemito, quell’inquietudine del cuore che solo nel Signore trova riposo (cfr S. Agostino, Confessioni, I,1,1). L’inquietudine del cuore.
Nessuna informazione immediata, nessuna comunicazione virtuale istantanea può privarci dei tempi concreti, prolungati, per conquistare – di questo si tratta, di uno sforzo costante – per conquistare un dialogo quotidiano con il Signore attraverso la preghiera e l’adorazione. Si tratta di coltivare il nostro desiderio di Dio, come scriveva san Giovanni della Croce. Diceva così: «Sia assiduo all’orazione senza tralasciarla neppure in mezzo alle occupazioni esteriori. Sia che mangi o beva, sia che parli o tratti con i secolari o faccia qualche altra cosa, desideri sempre Dio tenendo in Lui l’affetto del cuore».
Il brano in questione (che Francesco aveva già citato in Gaudete et exsultate al n° 148 – segno che gli è caro) è tratto dal n° 9 del piccolo trattato di carattere ascetico Consigli a un religioso per raggiungere la perfezione [1], un’opera minore del Santo Dottore della Chiesa che sintetizza in quattro punti essenziali come raggiungere in breve tempo la perfezione: la rassegnazione, la mortificazione, l’esercizio delle virtù, la solitudine materiale e spirituale. Il brano citato fa parte del quarto punto, quello relativo alla solitudine materiale e spirituale, che qui riportiamo per esteso:
Quanto poi a quest’ultimo consiglio, è necessario che la Cortesia Vostra reputi tutte le cose del mondo come finite per lei; e quando per necessità le dovesse trattare, lo faccia con sommo distacco, quasi non esistessero. Giacché Dio l’ha cavato fuori e distolto dalle cose mondane, non ne faccia più conto alcuno; l’affare che potesse trattare per terza persona, non lo sbrighi da sé, e ciò sarà molto meglio; non desideri di vedere né esser veduto da nessuno. E si ricordi bene che, se nel giorno del giudizio Dio chiederà a chiunque dei fedeli stretto conto di una sola parola oziosa, quanto più chiederà conto di tutte al religioso, che gli consacrò tutta la sua vita e tutte le sue opere! Con questo non voglio dire che lasci di adempiere, con tutto l’impegno possibile e necessario, l’ufficio che ha e qualunque altra cosa che l’obbedienza le comandasse; ma faccia in modo da non riportarne la minima macchia di colpa, perché questa né Dio né l’obbedienza la vuole. Perciò le stia a cuore la continua orazione, ed anche in mezzo agli esercizi corporali veda di non tralasciarla. Sia che mangi o beva, sia che parli o tratti con secolari, o faccia qualunque altra cosa, sempre vada desiderando Dio e unendo a Lui l’affetto del cuore. Ciò è molto necessario per la solitudine interiore, la quale richiede che l’anima non abbia alcun pensiero che non sia indirizzato a Dio, e se ne resti nell’oblio di tutte le cose che sono e passano in questa breve e misera vita. In nessuna maniera brami di sapere altro, ma soltanto come meglio potrà servire a Dio e osservare gli obblighi del suo Istituto .
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I consigli, dicevamo, sono rivolti a un religioso – non un sacerdote ma un fratello converso, come si desume dal titolo “Vostra carità” (forse fra Martino dell’Assunzione) – ma possono ben giovare, mutatis mutandis, a chiunque si trovi in situazioni di avversità morali, di aridità o impantanamento spirituale. L’insegnamento che si può ricavare da S. Giovanni, secondo l’intelligente applicazione che ne fa Francesco, è che tali avversità non si supereranno mai nel raggiungimento di un benessere individualistico, di uno starsene tranquilli in disparte da “anima bella”, ma nel sentire nell’intimo del cuore che il gemito della propria anima che anela a Dio è, in fondo, lo stesso “gemito che deriva anche dalla contemplazione del mondo degli uomini, è un appello alla pienezza di fronte ai bisogni insoddisfatti dei nostri fratelli più poveri, davanti alla mancanza di senso della vita dei più giovani, alla solitudine degli anziani, ai soprusi contro l’ambiente. È un gemito che cerca di organizzarsi per incidere sugli eventi di una nazione, di una città; non come pressione o esercizio di potere, ma come servizio. Il grido del nostro popolo ci deve colpire, come Mosè, al quale Dio rivelò la sofferenza del suo popolo nell’incontro presso il roveto ardente (cfr Es 3,9)”.
Queste affermazioni ci hanno piacevolmente colpito in quanto è originale ed audace il loro accostamento a un’operetta ascetica che era cominciata, ricordandolo come primo punto al religioso che deve raggiungere la perfezione, che “anche se il mondo sprofondasse, non vi faccia caso e non ci pensi, se vuole mantenere la quiete dell’anima; ricordi la moglie di Lot, che diventò duro sasso per essersi voltata alle grida disperate di coloro che stavano morendo” (n° 2). Parole che, se intese in maniera letteralistica e decontestualizzata, non renderebbero conto della profondità e dei fecondi risvolti del pensiero di S. Giovanni della Croce. Ne cogliamo invece appieno il valore soltanto se le commisuriamo con il resto della sua opera, e specialmente con quello stupendo inno cosmico che è l’Orazione dell’anima innamorata:
Miei sono i cieli e mia la terra, miei sono gli uomini, i giusti sono miei e miei i peccatori. Gli angeli sono miei e la Madre di Dio, tutte le cose sono mie. Lo stesso Dio è mio e per me, poiché Cristo è mio e tutto per me [2].
Solo allora comprendiamo come Francesco colga il cuore pulsante dei consigli dati da S. Giovanni della Croce: l’innamoramento di Cristo e di tutto quanto è Suo. Solo allora il mondo non sarà più visto come oggetto da conquistare o da fuggire (il che è lo stesso), ma come soggetto da servire; solo allora l’anima non sarà più vista come isola, ma come sposa che deve portare in sè tutta l’umanità a Lui.
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Ed è quest’innamoramento verace che irrimediabilmente si perde, argomenta Francesco, se si dissociano i due gemiti dell’anima e del mondo, se si separa la propria ricerca di Dio dalla ricerca altrui, la propria salvezza dalla salvezza della propria comunità, la propria spiritualità dalla propria fecondità apostolica: il risultato è l’inevitabile ripiegamento su se stessi, è che
troviamo sacerdoti, consacrati e consacrate, tristi. La tristezza spirituale è una malattia. Tristi perché non sanno… Tristi perché non trovano l’amore, perché non sono innamorati: innamorati del Signore. Hanno lasciato da parte una vita di matrimonio, di famiglia, e hanno voluto seguire il Signore. Ma adesso sembra che si siano stancati… E scende la tristezza.
E alle suore:
Per favore, siate madri! Siate madri, perché voi siete icona della Chiesa e della Madonna. E ogni persona che vi vede, possa vedere la mamma Chiesa e la mamma Maria. Non dimenticate questo. E la mamma Chiesa non è “zitellona”. La mamma Chiesa non chiacchiera: ama, serve, fa crescere. La vostra vicinanza è essere madre: icona della Chiesa e icona della Madonna.
Come antidoto a questa isterilente tristezza, non troviamo allora niente di meglio che riportare un altro recente discorso del Papa, in cui stavolta è ricorso non a S. Giovanni della Croce ma a quella che è riconosciuta essere come la sua più eminente discepola e attualizzatrice [3], S. Teresa di Gesù Bambino, colei che fu monaca di clausura e che ora è patrona universale delle missioni. Si tratta dell’Udienza Generale dello scorso 5 settembre, incentrata su come intendere rettamente la custodia del santo riposo richiesta dal terzo comandamento:
Quando diventa bella la vita? Quando si inizia a pensare bene di essa, qualunque sia la nostra storia. Quando si fa strada il dono di un dubbio: quello che tutto sia grazia[4], e quel santo pensiero sgretola il muro interiore dell’insoddisfazione inaugurando il riposo autentico. La vita diventa bella quando si apre il cuore alla Provvidenza e si scopre vero quello che dice il Salmo: «Solo in Dio riposa l’anima mia» (62,2). È bella, questa frase del Salmo: «Solo in Dio riposa l’anima mia».
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Così, ci insegnano i maestri citati dal Santo Padre, scopriamo che fra l”anima che anela a Dio del Salmo 63 e l’anima che riposa in Dio del Salmo 62, fra la santa inquietudine e l’autentico riposo, fra il desiderio per Dio e gemito per il prossimo, fra la mistica e il servizio, fra il “tutto” e la “grazia”, non c’è opposizione, ma compenetrazione.
Ed è questo uno dei segreti più cari al Carmelo.
(…)
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