L'appello di Papa Francesco nell'ultima esortazione apostolica passa anche attraverso gli occhi d'agnello di Maria Gabriella Sagheddu: una giovane sarda trappista di inizio Novecento che chiede il permesso alla madre superiora di offrire la propria vita per l'unità dei cristiani. Non solo slancio eroico ma totale obbedienza e un tratto inconfondibile, un indizio che diventa prova schiacciante: la gioia
di F. Iacopo Iadarola ocd
L’ultima esortazione apostolica di Papa Francesco sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, more solito, lascia spiazzati. Confidando in altri per il compito di contestualizzare e approfondire opportunamente questa preziosa tessera nel mosaico del magistero pontificio, vorrei condividere in questo articolo quanto di intimamente carmelitano risuona nell’appello di Francesco. E non mi sto riferendo tanto alle preponderanti citazioni di autori carmelitani – almeno una dozzina[1] – quanto a quello che mi sembra essere il leitmotiv di tutto il documento, al di là delle esplicite citazioni: l’idea che la santità coincida in primo luogo, prima ancora di prendere in considerazione percorsi etici, ascetici e di perfezione, con l’offerta totale di sé. E che “cos’è un’esistenza carmelitana? Offerta di tutto il proprio essere al Dio di Gesù Cristo, affinché Egli usi e consumi quest’essere secondo il suo amoroso beneplacito per l’opera della redenzione. Si deve riconoscere in essa la vera identità dell’amore del prossimo con l’amore di Dio”[2].
Ora, a suggerirci come chiave di lettura di questo documento l’offerta della propria vita, in maniera fin troppo dichiarata, è il primo esempio di santità che Papa Francesco espone a bruciapelo, nei primissimi numeri del documento:
I santi che già sono giunti alla presenza di Dio mantengono con noi legami d’amore e di comunione. Lo attesta il libro dell’Apocalisse quando parla dei martiri che intercedono: «Vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso. E gridarono a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia?”»(6,9-10) […] Nei processi di beatificazione e canonizzazione si prendono in considerazione i segni di eroicità nell’esercizio delle virtù, il sacrificio della vita nel martirio e anche i casi nei quali si sia verificata un’offerta della propria vita per gli altri, mantenuta fino alla morte. Questa donazione esprime un’imitazione esemplare di Cristo, ed è degna dell’ammirazione dei fedeli. Ricordiamo, ad esempio, la beata Maria Gabriella Sagheddu, che ha offerto la sua vita per l’unità dei cristiani (GE 4-5).
Molti si sarebbero aspettati che Papa Francesco, in una esortazione sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, avrebbe indicato in primis qualche laico o laica segnalatasi in qualche recente vicenda di attualità, e invece ci siamo ritrovati di fronte una monaca trappista morta nel 1939. E moltissimi saranno andati a far ricerche su questa semisconosciuta beata[3], Maria Gabriella Sagheddu, pastorella sarda dagli occhi di agnella, immortalata in una foto, poco prima di entrare in monastero, in cui brilla un sorriso tanto dolce quanto furbo: la furbizia di chi sa di aver scovato una scorciatoia per farsi santa e giungere fra le braccia dell’Amato. Un’anima semplice, pura, in nulla eccezionale se non nel suo pronto sì, a vent’anni, alla vocazione con cui il Signore la chiamò a divenire Sua sposa.
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