La psicologa Maria Rita Parsi ci aiuta a comprendere le ragioni per cui chi riceve un beneficio non è sempre riconoscente, o addirittura arriva a provare ostilità per chi lo ha aiutato. Il prezioso volume della psicologa Maria Rita Parsi: “Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficato” (Mondadori, 2011), scritto sotto la spinta di sofferte vicende personali vissute dall’autrice, ci aiuta a comprendere più in profondità la sgradevole esperienza dell’ingratitudine, di cui spesso molti di noi sono stati vittima quando ci siamo prodigati per fare del bene a qualcuno – più o meno affettivamente vicino – in difficoltà.
Infatti in questi casi, invece di ricevere sincera riconoscenza, ci si trova di fronte ad un apparentemente inspiegabile vuoto di gratitudine, o ad un finto ringraziamento, se non addirittura ad una ostilità più o meno malcelata da parte di chi dovrebbe ringraziarci per l’aiuto ricevuto.
Così amaramente esordisce la scrittrice nella prefazione:
“Le azioni peggiori, le più grandi umiliazioni, i rifiuti, le calunnie, i più incredibili travisamenti della realtà mi sono stati inflitti da persone che, in un loro momento di grave disagio o conflitto o pena, avevo accolto senza riserve, sostenuto, riconosciuto, aiutato”.
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Il debito di riconoscenza
È possibile sempre attribuire questa ingratitudine alla insensibilità, l’egoismo, la supponenza, l’orgoglio, la mediocrità di chi si comporta in questo modo, o dobbiamo cercare di scavare un po’ di più nell’animo umano? Maria Rita Parsi ci accompagna in questo percorso partendo dalla riflessione che chi riceve un beneficio di qualsiasi natura (economica, affettiva, lavorativa, morale, culturale, spirituale, sanitaria) e tanto più vitale è lo stesso, viene a trovarsi in una condizione che automaticamente lo colloca nel ruolo di “debitore di riconoscenza” nei confronti di chi lo ha aiutato. Il beneficato è costretto ad ammettere a se stesso di essersi trovato in uno stato di personale incapacità ad affrontare un determinato frangente esistenziale, superato solo grazie alla provvidenziale mano ricevuta dal benefattore. Costui ha quindi dimostrato una oggettiva “superiorità” sul beneficato con il rischio di attivare in lui sopiti ma non risolti complessi di inferiorità, tali da fargli percepire come intollerabile quello che per altri è – tutt’al più – il “dolce peso” della gratitudine, sentimento a prima vista assolutamente “normale” ma che è, contemporaneamente, tanto nobile quanto esigente.
Il suo presupposto è infatti quello di aver sviluppato una sufficiente maturità e consapevolezza nel rapporto con se stessi e gli altri, la cui cartina di tornasole è proprio il donare e il ricevere.
“Infatti il beneficio mette il Beneficato nella condizione di sentirsi impotente o dipendente a tal punto da invidiare il potere che il Benefattore esercita. O può farlo sentire talmente inferiore rispetto a una capacità o a una possibilità di cui il Benefattore è dotato (…) da ricondurlo ad una condizione primaria, a una dipendenza da cui la sua stessa sopravvivenza è condizionata in modo così totale da mettere a rischio la sua stessa esistenza e, ancor più, le radici della sua precaria autostima”.
La distorsione del senso del bene ricevuto
Ecco perché si arriva a negare il dono ricevuto (era solo un suo dovere! Fa semplicemente parte dei suoi compiti, dell’etica della sua professione), banalizzarne l’importanza (e che avrà fatto mai? Non gli è costato niente! Ci ha messo un attimo!), dimenticarlo (ma quando? Ti sbagli, ricordi male!) o addirittura sentirlo come un peso insostenibile di cui liberarsi il più velocemente possibile convertendo il benefattore nella persona da evitare (ha un fare così sgradevole!), penalizzare (ho sentito certe cose sul suo conto! Non è tutto oro quello che luccica!) e finanche giungere a calunniare più o meno subdolamente, accollandogli magari l’estrema infamia del do ut des, e con interessi.
Il terribile potere dell’invidia
È il dubbio sul valore personale, sulle proprie risorse di affermazione in difetto del beneficio dispensato dall’altro a mettere in moto un sentimento potente quasi quanto l’amore: l’invidia, ma che – contrariamente al primo che sbandiera al mondo intero la sua esistenza – deve essere tenuto nascosto anche a se stessi, perché riconoscerlo significherebbe ammissione di inferiorità.
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“La parola invidia deriva dal latino invidere, e cioè, e indica l’atteggiamento risentito di chi guarda la bellezza, la felicità, la ricchezza, il successo di un altro e confrontandoli con il proprio stato prova un sentimento di rancore. Dunque è attraverso l’occhio che si compie la cattiva intenzione, il maleficio che può portare un danno anche grave a chi è l’oggetto di quello sguardo”.
Un inno di speranza per chi dona e per chi riceve
Quale insegnamento, quale aspetto positivo trovare per chi ha vissuto, magari pesantemente, questa dolorosa esperienza dell’ingratitudine? Innanzitutto la comprensione che la disponibilità a fare il bene inconsciamente contiene, e ciò è assolutamente umano, la richiesta di riceverne quantomeno il riconoscimento. E specularmente dover prendere atto che è una richiesta che non tutti, per le motivazioni illustrate, possono sostenere, o a cui si adempie solo per la necessità del momento ma che poi viene considerata insopportabile e non dovuta, tanto da innescare risentimento verso colui da cui si è ricevuto del bene.
L’autrice conclude la sua prefazione, nonostante l’amarezza del doversi confrontare con la realtà dell’ingratitudine, con questo splendido inno di speranza per chi dona e chi riceve:
“Così, generoso è chi, ricevendo, riesce a riconoscere ciò che ha ricevuto (…) Lodevole è, poi, il Beneficato grato che, riconoscendo il beneficio ricevuto, riconosce se stesso e la propria condizione. Questo gli conferisce identità e libertà. E generoso è il donatore che, quando dona, al contempo prende le distanze e si tutela dalle difficoltà che l’aver fatto il bene suscita nell’altro. E’ autenticamente persona umana colui che aspira al far bene perché ne avverte la Bellezza. E vibra ogni volta che il bene si compie, provando un’interna realizzazione che, come un’energia strutturante, connette insieme la sua mente, il suo corpo, il suo immaginario”.
Non dimenticando mai che nel corso della nostra vita tutti noi ci veniamo a trovare, anche se in momenti diversi, sia nel ruolo di chi è in grado di donare che in quello di chi deve chiedere.