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Che ne è della nostra coscienza se perdiamo il cielo stellato?

CIELO, UOMO, STELLE
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Canone Occidentale - pubblicato il 22/05/18
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La nostra frammentazione interiore è senza precedenti. Occorre ricominciare a vivere come monaci anche nelle nostre città frenetiche

«Non si può capire niente della civiltà moderna se, prima di tutto, non si riconosce che essa è una cospirazione universale contro qualsiasi forma di vita interiore»
George Bernanos

Le civiltà in cui viviamo dipendono da fattori che non sempre sappiamo prendere pienamente in considerazione. La cavalleria medievale finisce, non solo ma anche, per l’avvento di nuove tecniche di guerra che rendono obsoleto e vulnerabile lo scontro tra due cavalieri, ad esempio. Eppure finisce un mondo, un sistema di valori, un ordine sociale. Giusto perché la fanteria prende nuova importanza e stare a cavallo rigidamente ricoperti di metallo non è più tanto utile in battaglia. Ma anche, soprattutto, il contrario: l’avvento del cristianesimo ridisegna e alla fine soppianta il mondo classico, il monachesimo ridisegna il cristianesimo, alcuni santi ridisegnano il proprio tempo. Possiamo pensare ogni civiltà e cultura come il frutto di una tensione e un’integrazione tra gli elementi materiali e quelli spirituali.



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Frank Winkler

La basi materiali sono molteplici. Le città moderne nascondono sempre più radicalmente ogni elemento di natura non umanizzato: il cielo stellato, l’erba bagnata, il sole che sorge e tramonta all’orizzonte, il ghiaccio per terra, gli animali selvatici… e ci restituiscono un’illusione di natura sempre più artificiale e umanizzata. Animali domestici, cieli illuminati in piena notte, zone verdi allestite su progetto, alternanza di buio e luce fortemente falsata, cibo pronto sugli scaffali. Anche le zone tra una città e l’altra sono fortemente umanizzate: capannoni, coltivazioni, superstrade, lampioni, tralicci… se penso ai piccoli centri della Pianura Padana, ad esempio, mi pare che l’elemento naturale, con qualche albero e qualche zanzara in più, non sia però davvero più presente che in città.



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Come può questo paesaggio esteriore non avere ripercussioni interiori? Sia chiaro: non credo che l’uomo sia un elemento negativo per la natura, anzi credo che la sua presenza renda abitabile il mondo, ne faccia una casa, ma c’è una differenza abissale tra domare, faticare sulla natura, e invece voltarle le spalle, perdendo il senso della realtà. Non a caso il mondo contemporaneo, che è l’apice dell’artificiale e del virtuale, è anche quello più radicalmente illuso sulla bontà della natura e sulla negatività dell’uomo all’interno dei suoi meccanismi.

Non voglio riflettere sui bei tempi antichi e neppure invitare a consumare i prodotti del contadino a chilometri zero. Ma mi chiedo cosa viene a mancare della consapevolezza del mondo, nel nostro modo di percepire la realtà, senza un cielo stellato, senza boschi da attraversare, senza una natura a volte anche matrigna da affrontare, senza vedere il mare dal largo e il cielo dalla cima di una montagna. Cosa non possiamo più comprendere delle antiche favole popolari, ad esempio? O dell’Odissea, o dell’Antico Testamento? Addirittura quali elementi cosmologici della liturgia e della fede cattolica ci risultano sempre più opachi, proprio per la vita che conduciamo, sottratta a tali elementi?

E questo che effetti ha sul modo in cui percepiamo noi stessi, la nostra vita, i rapporti con gli altri e quello con Dio? Banalmente si potrebbe dire che una popolazione di pastori di 3.000 anni fa percepisce il Creatore del Cielo e della Terra in modo ben diverso da un cittadino di una qualunque metropoli del terzo millennio dopo Cristo. Ha proprio un’altra idea di cielo e terra. Eppure qualcosa di eterno, di universale, è posto dentro di noi, una relazione con il proprio corpo, con luce e buio, con suono e silenzio. Ci sono elementi semplici, come il fuoco di un roveto che arde, l’acqua di una sorgente che sgorga dalla roccia, un tralcio innestato sulle viti, che possono a parlare ancora e per sempre a tutti gli uomini.

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Ian Sane CC

La nostra frammentazione interiore è senza precedenti. Abbiamo bisogno, molto più dei primi Padri del Deserto, più di san Benedetto e san Romualdo, di tendere verso una ricomposizione interiore. Una vita che sappia ricomporre le nostre basi materiali in un’unita spirituale superiore. Non solo nei monasteri, anche nel mondo bisognerebbe imparare a vivere come monaci del nostro tempo, cercando tutto ciò che nutre l’uomo interiore, ciò che ci fortifica.



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Un contatto religioso con la natura che non sia turismo, un rapporto con il tempo che non sia compulsivo, la possibilità di arrivare a farsi un’opinione su fatti importanti solo dopo una lunga riflessione, coltivare rapporti umani che indichino l’alto. Conversare lentamente, leggere con attenzione, camminare nei boschi, pregare a lungo in silenzio. Adorare. Faticare, dormire, mangiare con gusto, digiunare con regolarità, saper godere di alcuni semplici piaceri e sapersene astenere. Narrare storie potenti. Rinunciare a una massa di informazioni che non ci riguardano e non ci servono e avere invece la massima cura della verità. Ancora una volta quaerere Deum.

L’intelligenza dei non credenti può essere eccelsa e quella dei credenti modesta. Ma la prima, superiore, può essere tanto grande quanto lo è un abisso, mentre la seconda è santa quanto un tabernacolo. Nella prima vive l’errore, nella seconda la verità. Nell’abisso vi abita con l’errore la morte; nel tabernacolo invece, con la Verità, la vita. Perciò, per quelle società che abbandonano il severo culto della Verità a favore dell’idolatria della ragione, non vi è speranza. Ai sofismi seguono le rivoluzioni e dietro i sofismi marciano i boia.
 
Juan Donoso Cortes

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