Nel mese di maggio sono moltissime le località che celebrano il loro particolare legame con la Madre di Dio. A Nettuno, in provincia di Roma, la presenza mariana (che precede e anzi sostiene quella di santa Maria Goretti) è legata a una rocambolesca vicenda che ha portato una Madonna a “scappare” da Ipswich su un battello quando per la furia iconoclasta seguita alla svolta anglicana di Enrico VIII la fuga in terra italiana fu la via che permise al Bambino di non finire in cenere. Difficile non cogliere assonanze con la triste vicenda di Alfie Evans…
Ero rientrato a casa dalla mia famiglia, dopo la trasferta a Liverpool, quasi rasserenato dagli spiragli di possibile apertura che si profilavano tra la famiglia Evans e l’Ospedale (la stessa diplomazia aveva consigliato a Thomas di percorrere quella via insidiosa, perché tutte le altre erano già state tentate e trovate interrotte). La notte del 27 aprile dormii per la prima volta con una certa serenità, dopo la pungente angoscia accumulata nella settimana: al risveglio, invece, la terribile doccia fredda – Alfie era morto, nella nottata e senza avvisaglie apparenti… non pochi elementi lasciavano presagire perfino che il bimbo fosse stato attivamente soppresso.
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Frastornato per tutto il giorno, tutto avrei fatto a sera tranne che andare a vedere un musical, ma cominciavano a Nettuno le “feste di maggio” e i miei genitori, in visita da me, desideravano vedere “La scelta di Maria”, lo spettacolo che in prima serata si sarebbe svolto sul sagrato del santuario gorettiano. E a tal proposito il profano poteva domandarsi intanto: «Ma Maria chi? La Madonna o la Goretti?». Bisogna dunque spiegare che il santuario di Santa Maria Goretti è lo stesso e il medesimo della Madonna delle Grazie. Esso era anzi luogo di culto carissimo alla stessa contadina oriunda marchigiana, la quale venendo dalle Ferriere mai trascurava di fare una visita alla Signora di Nettuno.
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Dunque si aprivano le festività mariane, e con una festa detta “dell’Approdo”, che commemora l’arrivo nel sedicesimo secolo della statua della Vergine venerata in questo santuario (quella stessa che la giovane Goretti veniva a venerare ogni volta che poteva): una storia – per chi non la conosca – simile a quella della Madonna di Bonaria, ma un poco più contestualizzata storicamente.
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Era infatti il 1550, e sui lidi nettunensi giunse una nave mercantile alla deriva.
Era diretta verso Napoli e batteva bandiera britannica: proveniva da un porto sul Tamigi e recava un manufatto originario di una chiesa di Ipswich, una “Maestà” (o Madonna con Bambino) scolpita in legno policromo. Erano trascorsi allora vent’anni dall’inizio della virata anti-romana di Enrico VIII, che dopo le sue vicende personali e dinastiche emanò l’Atto di supremazia (1534), con cui si proclamava “Papa e Re”, e l’Atto sui tradimenti (1534), che aboliva – fra l’altro – il versamento dell’Obolo di san Pietro. Nel 1535 la testa fedele (e santa) di Thomas More rotolava sul legno del patibolo a Tower Hill, proprio per effetto dei tre Atti del 1534 (il terzo era quello di successione). Tredici anni dopo sarebbe morto lo stesso sovrano poligamo, e nei suoi ultimi anni la farsa anglicana – dapprima una mera questione di giurisdizione e di soldi – avrebbe cominciato a prendere una deriva protestante e anti-cattolica molto forte, venata perfino da un’accesa iconoclastia. Ecco perché la brava gente di Ipswich, preferendo privarsi della propria Madonna piuttosto che vederla ardere dagli empi lacchè del sovrano, la mise su d’un cargo mercantile diretto a Napoli. Quando il viaggio era ormai terminato avvenne un naufragio che gettò nave ed equipaggio sulla spiaggia di Nettuno, e pare che in seguito i marinai non riuscissero a riprendere il largo fino a quando non ebbero lasciato la statua ai nettunesi, che li avevano soccorsi al loro fortunoso approdo.
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Insomma tornavo dall’Inghilterra a Nettuno proprio mentre si commemorava il simile viaggio che la Madonna delle Grazie fece per venire nella cittadina marittima: la storia la sapevo, per sommi capi, ma capirete che l’altra sera io l’abbia vista con tutt’altra prospettiva… Quella madre recava in grembo un Bambino dalle dimensioni simili a quelle di Alfie; lo portava dall’Inghilterra in Italia perché lì la sua esistenza era minacciata dal potere statale; si trattava infine di un potere così tracotante da diventare la caricatura di quello religioso, «mancando / della terra e del Ciel al santo dritto / con enorme delitto […]».
E mentre Enrico VIII stuprava il diritto divino nell’adulterio e quello naturale nell’omicidio di stato – giungendo a violentare l’immagine di Dio perfino nelle icone sacre – l’odierno “Sistema” statale del Regno Unito si accanisce con malvagità preternaturale contro l’immagine di Dio negli Innocenti. Così al mozartiano Da Ponte risponde lo shakespeariano fantasma del padre di Amleto: «O, horrible! O, horrible! Most horrible!» – i peccati contro Dio e contro l’uomo li scontano invariabilmente gli innocenti, in particolare i bambini.
Mi avevano detto di altre statue che nel XVI secolo subirono la medesima sorte della Maestà di Ipswich: questa anzi fu privilegiata, rispetto alle omologhe di Walsingham e Willesden, che finirono in cenere. Ma la storia si reiterò anche a Penrhys, a Woolpit e in centinaia di altri luoghi di pellegrinaggio: il numero delle “Madonne fuggiasche”, in termini assoluti, è storicamente incalcolabile, mentre si stima che il volume di avventure analoghe a quella della Madonna di Nettuno sia stato tale da alimentare, a latere, un fiorente mercato di “arte sacra di contrabbando” (per essere lealisti del re) o “di salvataggio” (per dirla devotamente). Insomma, non è possibile raccogliere qui tutti gli elementi, ma vi riporto di seguito due interviste: la prima con padre Giovanni Alberti, il passionista che si è dato la briga di fare una seria ricerca sulle fonti e di offrirne i risultati in un agile libro; la seconda con Lorenza Petriconi, co-titolare della scuola di danza che ha animato il musical (nonché regista, scenografa, costumista e coreografa).
G.M. Padre Alberti, nell’ultimo numero di La Stella del Mare [il mensile del santuario dal 1909, di cui il Passionista è direttore, N.d.R.] ha fatto inserire un inno di Temistocle Signori del 1905, col quale il sacerdote-poeta celebrava la venuta della Madonna “dai lidi britanni”. A questo medesimo tema lei ha dedicato un libro, edito due anni fa e ora riproposto in una nuova edizione, il cui titolo – “La Signora dei due mari” – riserva un posto importante al mare. Perché?
p. G.A. È stata un’intuizione di quelle che talvolta vengono scrivendo: volevo metterci dentro il mare. Il mare è un po’ il protagonista di questa storia: è il mare che “sceglie” anche dove far fermare la statua.
G.M. Quanto tempo ha dedicato a questa ricerca?
p. G.A. La storia si tramanda da tantissimo tempo… Più o meno, tutto è risaputo da tutti, però ho inteso approfondire e andare alle fonti ancora reperibili, qui e in Inghilterra, a Ipswich, dove ho trovato conferme di questa storia. In tutto ho impiegato due anni.
G.M. C’è quindi una memoria, ad Ipswich? Loro sanno che la “loro” Madonna è qui a Nettuno?
p. G.A. Ipswich è una città multietnica e multireligiosa: dire “Ipswich” significa dire una marmellata di popoli. Però all’interno di questa Ipswich cristiana, cattolica e anglicana, il fatto è risaputo. Tanto è vero che sono venuti qui, negli anni scorsi, quando ero rettore del Santuario [lo è stato per otto anni, N.d.R.]: in molte personalità del mondo anglicano sono venute qui, e abbiamo fatto anche molti simposi, perché la Madonna ispira anche l’ecumenismo col mondo anglicano. Lentamente, ma molte cose si stanno muovendo. C’è stato un servizio della BBC che ha anche parlato del fatto, ma pensiamo che la maggioranza della società sia all’oscuro della vicenda: certo, la sua conoscenza andrebbe promossa, ma ci sono tuttora dei reperti toponomastici nella città, ad esempio si trova una “Lady Lane” [“Via della Signora”, N.d.R.] lì dove sorgeva l’antico santuario. A oggi le due città sono gemellate, anche se purtroppo non se ne trova traccia sulla segnaletica cittadina…
Noi siamo andati lì, coltivando buoni rapporti con la municipalità e con le comunità cristiane locali, e anche gli anglicani sono venuti qui a visitare il Santuario.
G.M. Che rapporto hanno gli anglicani con questo reperto che volevano distruggere, e che li mette di fronte in modo ruvido a una pagina buia della loro storia?
p. G.A. Tra i rigagnoli del mondo anglicano si trovano anche fedeli molto legati alla Madonna; non sono tutti iconoclasti come cinquecento anni fa, anzi sono molto motivati a frequentare santuari, vanno anche a Lourdes, Fatima… In generale sono molto incuriositi e molto orgogliosi, perché poi hanno visto come viene vissuta qui questa Madonna. Hanno visto la processione di maggio e hanno visto come questo popolo accoglie e celebra la Madonna, e ne sono stracontenti. Il loro mondo è un mondo diverso: la maggioranza degli anglicani è prevenuta, quanto alla Madonna, però all’interno c’è un segmento favorevole. Abbiamo avuto l’onore di avere ospite qui un vescovo anglicano che fu ammesso nella comunione cattolica secondo la Anglicanorum Cœtibus di Benedetto XVI, e che dopo essere stato ordinato prete cattolico è diventato uno dei referenti dell’ordinariato cattolico anglicano voluto da Papa Ratzinger, che aiuta il passaggio di quanti dall’anglicanesimo vogliono tornare nella comunione romana.
G.M. E per quanto riguarda questo santuario come sfondo della vicenda di santa Maria Goretti? Insomma: quando gli anglicani sono venuti a vedere la loro Madonna hanno trovato che questo era anche il santuario che Marietta non perdeva occasione di visitare, venendo dalle Ferriere. Come giudicavano la cosa?
p. G.A. Molto favorevolmente! Loro le messe le celebravano sempre sull’altare di santa Maria Goretti. C’erano quattro-cinque vescovi, una ventina di sacerdoti, e celebravano sempre giù in cripta. Bisogna tener presente che la collocazione dell’anglicanesimo non è semplicemente riducibile a quella dei protestanti: per quanto riguarda la Chiesa, i sacramenti e il culto ai santi.
G.M. E com’è nata l’idea dello spettacolo?
p. G.A. Questo mi fa piacere dirlo chiaramente: siamo molto soddisfatti di aver contribuito a dare la luce al primo spettacolo commemorativo della vicenda fondata di questo Santuario. Verso Natale – erano quelli i giorni – da parte dell’associazione La Stella del Mare mi è stato richiesto se potessi stendere il copione per un eventuale spettacolo-musical da realizzare. Cosa che ho fatto, fornendo un canovaccio a Lorenza Petriconi, che su quello ha svolto un fantastico lavoro di revisione e di adattamento alle ragioni teatrali, in termini di spettacolo e comunicatività.
G.M. Quali sono i punti del libro che ha voluto privilegiare nello spettacolo?
p. G.A. La storia doveva esserci tutta, quindi il profilo storico andava conservato: Enrico VIII, il matrimonio da annullare e la crisi iconoclasta, certo… ma mi premeva soprattutto indicare una continuità nella storia: questa Madonna è la stessa che era veneratissima in Inghilterra, non è una statua che spunta fuori dal nulla. Abbiamo cercato di esaltare questo legame con l’Inghilterra: nel libro c’è un capitolo intero dedicato all’anglicanesimo, uno dedicato a Ipswich, e tutto questo è stato travasato anche nello spettacolo, in particolare in alcune scene.
G.M. Io con una rapida ricerca ho imparato che anche altre statue hanno vissuto percorsi analoghi: immagino lei si sia imbattuto ripetutamente in siffatte storie…
p. G.A. Sì, certo, erano tante da alimentare un vero e proprio mercato, e l’abbiamo anche detto nello spettacolo: quando si attizzarono i roghi per le immagini sacre, molti fecero prevalere la voce della fede, altri ascoltarono il richiamo degli affari. E quindi queste statue presero in buon numero la via del mare, girando tutto il Mediterraneo. Non si tratta di un segreto: nella biblioteca del Collegio Inglese in Roma c’è un volume che parla di queste fughe, perché l’Inghilterra era piena di statue della Vergine Maria… era un paese molto devoto – quello di Enrico VIII fu un vero e proprio schiaffo.
G.M. Mi hanno molto colpito, personalmente, le assonanze tra la vicenda di questa Madonna e l’anelito di Kate e Tom Evans a venire in Italia. Mi sono detto: «Non è la prima volta che l’immagine di Dio viene violata per uno strapotere dello Stato, in Inghilterra». Lei come l’ha vista?
p. G.A. Per noi l’Inghilterra è molto vicina, per tutti i motivi che abbiamo già detto (certo, ci sono di mezzo 500 anni e storie diverse). A Liverpool, poi, noi passionisti abbiamo un beato, viterbese come me, sepolto a Sutton, proprio nell’Arcidiocesi: Domenico Barberi portò i Passionisti in Inghilterra e ammise al battesimo cattolico Henry Newman… solo per dire quanto abbiamo avuto motivo di osservare da vicino lo scenario. L’Inghilterra è stata molto estremista, come sono gli inglesi in tante cose. Certo che il fatto di essere scristianizzati – il fatto che la fede cristiana non conti più nulla nella società, malgrado i tanti simboli rimasti in piedi – questo è un male comune a gran parte dell’Occidente: si sta creando un grande distacco, una ferita di cui bisogna prendere atto. L’anima dell’Inghilterra, al di là delle fazioni tra cattolici e anglicani e al di sotto dello strato illuministico, è profondamente cristiana: però la legislazione, la politica, l’economia hanno preso il sopravvento su tutto il resto. La Chiesa Anglicana è molto debole: sul caso di Alfie è intervenuto il Papa, che certamente ha la sua autorità, ma in Inghilterra questo è visto come un fatto di colore e al contempo un’ingerenza.
G.M. Dunque, Lorenza: sei ballerina e insegnante di danza, con tua sorella gemella hai un glorioso parterre di collaborazioni in Rai, in Mediaset e ai massimi vertici dello spettacolo italiano, ma non hai mai perso di vista Nettuno, la tua città. Poi la dedizione alla scuola, per cui pure da ragazza non ti sentivi portata, oggi questo musical: com’è venuta fuori l’idea?
L.P. Come hai notato [il riferimento è a una precedente conversazione, N.d.R.], la storia narrata dallo spettacolo ha scelto alcune semplificazioni, e per due motivi: anzitutto dovevamo arrivare al pubblico – giovani, vecchiette… – e doveva essere immediatamente comprensibile; in secondo luogo la fabula è davvero semplice – Enrico VIII si separa da Roma, c’è una crisi iconoclasta, gli abitanti di Ipswich vogliono salvare la loro statua e la mandano a Napoli, ma il cargo fa naufragio a Nettuno. Punto. C’è stata qualche semplificazione ma dai riscontri che abbiamo pare che la cosa abbia funzionato. Prendi anche la scena della locanda: bisognava rendere “scenografica” l’idea del viaggio, la decisione di imbarcare la statua. Come fare? Con tutte le precauzioni e la modestia del caso, sento però di dover dire che la Madonna stessa mi ha ispirata. Una notte – mentre ero in pensiero per quella scena, che avrei voluto al tempo stesso leggera ed efficace – mi sono svegliata dopo aver come visto in sogno, chiarissima come l’avete vista sulla ribalta, la scena della taverna. Tutto: parole, coreografie, costumi… mi sono svegliata di colpo e ho visto che era l’una. Mi sono seduta a scrivere e all’una e mezza avevo finito. Mi sono rimessa a dormire: la mattina dopo ho mostrato a padre Giovanni e a mia sorella quanto avevo scritto. Entrambi mi hanno detto: «Sì, funziona!». È nata davvero fatta e finita. E per noi è stato un onore che ci abbiano chiesto di mettere in scena la storia della nostra statua, della Madonna delle Grazie! Da principio ci spaventava, ma poi un passo dopo l’altro ce l’abbiamo fatta… Se ci hai fatto caso, si tratta di ragazzi giovanissimi, neanche un professionista: eppure non c’è stato un cambio sbagliato, malgrado lo spazio dietro il palcoscenico fosse pochissimo. Ci siamo sentiti davvero aiutati: l’unica paura era che non riuscissimo ad emozionare il pubblico. Non è scontato, che la cosa funzioni a tal punto: il rischio della banalità è sempre in agguato.
G.M. Certo, la semplificazione c’è. Se si pensa a come il vostro Enrico VIII riassuma quattro anni di crucci e di diplomazia in uno schizzo di trenta secondi… però la scena è d’impatto, funziona e arriva. Anche la naïveté della compagnia non dà così nell’occhio: l’idea della cornice narrativa col cantastorie, che riecheggia Notre Dame de Paris, funziona bene, la ragazza ha grande presenza scenica e tiene il palco in modo molto convincente. Sono proprio le coreografie che dànno l’idea di un’idea chiara, di un’ispirazione profonda: io sono rimasto colpito in particolare dalla coreografia del mare, nella quale ravvisavo una forza particolare. Che padre Giovanni mi dicesse prima “il protagonista è il mare” mi ha rimandato appunto a quella forte impressione datami dalla coreografia.
L.P. Ecco: nasce tutto da là! La prima scena che mi è venuta in mente è stata proprio la coreografia del mare. Anche l’idea della preghiera alla Madre, che è stata cantata da Florinda Trippa, bravissima, e i bambini col passo a due – ho voluto i bambini proprio dire la purezza della preghiera –… Pensa che è nato proprio tutto dal mare! L’embrione di tutto lo spettacolo è stato appunto il momento della preghiera: il mare è il protagonista, come diceva padre Giovanni, ma ancora di più è Lei la protagonista, la Madre che ha causato sì la tempesta, ma poi ha salvato tutto l’equipaggio. E a me piace pensare che alcuni di questi marinai avessero perso o abbandonato la fede, e che dopo il naufragio tutti siano tornati ad essere cattolici. Perciò ho voluto mettere al centro la preghiera alla Madre: le parole di Florinda – «Aiutaci tu, solo tu puoi salvarci!» – sono in realtà quelle dei cuori dei marinai.
G.M. A chi si devono i testi e la musica?
L.P. Ho fatto tutto io, confrontandomi con mia sorella e con padre Giovanni. Ho scelto perlopiù musiche epiche: la preghiera alla Madre è una cover di una canzone di Andrea Bocelli. C’erano poi Schubert, Albinoni e Chopin, che però mi piace considerare “senza tempo” proprio in quanto classici. Poi è chiaro che quando si è Riccardo Cocciante, e si ha la possibilità di scrivere le musiche originali per il proprio spettacolo, avendo chi sovvenzioni un tale lavoro, allora è tutto più semplice; quando tali possibilità mancano, bisogna fare il fuoco con la legna che si ha. Chissà, se questo spettacolo piacesse a qualcuno e si trovassero fondi da investire in tal senso… ma ci penserà la Madonna, se vuole. I classici li ho messi a pochi giorni dallo spettacolo, proprio perché le musiche epiche non davano quella pace che io cercavo e che volevo trasmettere. Mi lusinga che l’ispirazione sia arrivata, perché noi ci sentiamo tanto ispirati dalla Madonna.
G.M. Ecco, appunto: questa cosa è evidentissima, il rapporto con la Madonna è qualcosa che tu sembri sentire molto fortemente, ma spesso hai parlato di un “noi”. Che dire degli abitanti di Nettuno? Come vivono il legame con la “loro” Madonna?
L.P. È lo stesso: tutto si muove grazie a lei. Il nettunese che sia un nettunese doc vive per la Madonna…
G.M. Va bene, ti faccio la domanda cattiva da giornalista miscredente: quanto di questo è fede? quanto folclore? quanto coincidono e quanto si separano?
L.P. Bella domanda… allora, ti parlo di me perché solo per me posso parlare. Diciamo che c’è stata un’evoluzione: da più giovani è molto folclore e anche imposizione… Ma no, “imposizione” non è la parola giusta… è “abitudine”: ti ci portano i genitori, i nonni, te ne parlano, te la fanno vivere portandoti in processione, alle messe… e quindi la vivi un po’ come un automatismo. Crescendo vivi un momento in cui cedi al disincanto e dici: «Macché, queste sono tutte leggende e nessuno ci crede». Poi intorno ai vent’anni – con la crescita tua, personale – tocchi con mano che invece è tutto vero, che Lei c’è davvero, che veramente ti aiuta. E io penso che la mia esperienza sia quella della popolazione in generale: c’è tanto di vero e poco di folclore, anzi il folclore viene malvisto e allontanato. Te lo dico sinceramente: ci crediamo sul serio e ci battiamo per lei…
G.M. Questa storia è molto nettunese, ma ha anche una schietta ambizione universale…
L.P. Se vuoi la verità, no. Non nel senso che abbiamo ambizione di calcare chissà quali scene con questo spettacolo. Sì, padre Giovanni è entusiasta per il fatto che siamo i primi in cinquecento anni ad aver provato a fare qualcosa del genere. Poi sì, parecchi parroci ci hanno chiesto di portare in giro lo spettacolo; il presidente dell’Associazione “La Stella del Mare” – a cui va un ringraziamento tanto doveroso quanto sentito – anche lui crede nello spettacolo e nella nostra scuola: ci ha dato carta bianca e a lui si deve in ogni senso la realizzazione dello spettacolo. Quel che verrà accoglieremo, ma molto serenamente.
Se poi mi chiedi cosa abbia da dire questa storia oltre i confini della nostra città, allora rispondo che secondo me porta un messaggio di speranza, di fiducia e di amore che può ispirare chiunque. E la “nostra” Madonna, poi, è comunque l’unica e sola Madonna…
G.M. Allora chiudiamo con un pensiero per i napoletani, che dovevano ricevere la Madonna di Ipswich e che alla fine sono rimasti con un palmo di becco…
L.P. Eh, i napoletani… i napoletani… Difatti mi dico: «Questa storia non dovrà mai arrivare a Napoli!». Beh, alla fine loro hanno san Gennaro!