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È proprio una ferita a renderci preziosi come l’oro

KINTSUGI, TAZZA, ORO
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Annalisa Teggi - Capriole cosmiche - pubblicato il 30/04/18
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L’arte giapponese del kintsugi c’insegna che i punti deboli non vanno nascosti, ma resi preziosi. Così siamo noi: forgiati dal dolore in modo amabile e irripetibile

Statisticamente nell’astuccio dei miei figli quello che si esaurisce sempre in un batter d’occhio è la colla. Ne compri una scorta gigantesca pensando che basti per tutto l’anno, dopo un mese bisogna comprarne altra. Quando c’è qualcuno al lavoro, la colla serve sempre: perché ci sono lembi di cose distanti da avvicinare, pagine strappate da ricomporre. La colla è indispensabile, per tenere insieme e per rimarginare.
Sono rimasta colpita nello scoprire il kintsugi o kintsukuroi, l’arte giapponese di riparare un oggetto rotto usando come colla l’oro e l’argento. Anziché nascondere il trauma che l’oggetto ha subito, lo si enfatizza impreziosendolo. Un post molto bello nel blog elinepal descrive il valore di quest’arte, un modo di rendere visibile la preziosità del dolore. Non solo, anche l’unicità preziosa del dolore. Un oggetto, cadendo, si frantuma o si sbecca in un modo particolarissimo; dunque, una volta riparato mettendo in evidenza le linee di frattura con l’oro, avrà l’aspetto unico e irripetibile di quell’evento particolarissimo che lo ha segnato.



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Spontaneamente noi vorremmo che – nel tempo – un dolore o una ferita diventassero trasparenti. Cioè, che si rimarginassero in modo da non lasciare il nostro fianco visibilmente traumatizzato. Insomma, una volta sanguinato profusamente, ci auguriamo che una qualche super-colla come il SuperAttack possa rinsaldare ciò che si è spezzato e ci renda di nuovo intatti e apparentemente perfetti. Nascondere i punti della nostra vulnerabilità è un istinto difensivo nei confronti degli altri, ma anche nei confronti di noi stessi: pensiamo che una superficie liscia e incorrotta sia sinonimo di forza e saldezza.
Il kintsugi fa vedere l’opposto. La saldezza viene da ciò che salda, cioè dallo spazio della ferita stessa. L’oro ripara e brilla; può riparare un vaso di coccio che si è frantumato, rendendolo così più prezioso di quello che era in principio. Questo è interessante, perché è un’ipotesi più radicale e vigorosa di “quel che non ti uccide ti rende più forte”. Usare l’oro per riparare, lasciando al contempo visibile una frattura, significa buttare lì l’ipotesi che la parte preziosa di noi è quella che ha attraversato la contraddizione, che si è impantanata nella debolezza. La nostra fibra resta povero coccio, impreziositosi e forgiatosi della sua unicità proprio dentro l’esperienza del dolore.

Per qualcuno ostentare le proprie cicatrici è un atto di pura vanità, ma può essere invece l’atto di umiltà gioiosa di chi fa memoria di una ricchezza incontrata (misteriosamente) in un punto buio della vita. Può anche essere il desiderio caparbio di chiamare per nome quell’imprevedibile potenza che attraversa la vita, ti fa a pezzi eppure ti forgia come un prezioso pezzo unico. Ma perché questa artigianale riparazione avvenga, occorre non sopprimere il bisogno di unità che c’è al fondo della nostra persona. E non è scontato, considerando che gran parte dell’arte moderna e contemporanea ha raccontato l’uomo come una derelitta figura frammentata.



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Il poeta caraibico Derek Walcott ricevette il premio Nobel per la Letteratura nel 1992 per quel capolavoro che è il suo poema epico Omeros. Mentre nelle grandi metropoli occidentali la poesia del ‘900 sembrava destinata a cantare solo la tragedia di uomini perduti o ridotti a scheletri, dalle Antille è giunta la voce di questo poeta che ha edificato un grande castello poetico, usando la sabbia fragile della sua terra e le solide fondamenta di Omero e Dante.
Walcott, pelle mulatta e occhi di ghiaccio, ha impresso nel suo stesso viso l’identità incerta e difficile del suo arcipelago, passato attraverso i colpi ferali del colonialismo e tuttora drammaticamente segnato da povertà e instabilità politica e sociale. Spesso, nei nostri quieti e inamidati salotti letterari, si parla di letteratura come se fosse solo un perfetto oggetto da esposizione da tenere in un museo, cioè lontano dalla pulsante realtà.
Invece, in uno dei passaggi più significativi del discorso che tenne in occasione della consegna del premio Nobel, Walcott usò proprio l’esempio del vaso rotto per parlare dell’amore poetico più umano che esista:

Rompi un vaso, e l’amore di chi si mette a riassemblare i pezzi è più forte dell’amore che dava per scontata la simmetria di quell’oggetto quando era intero. La colla che attacca i pezzi, è il sigillo della sua forma originale. E’ un simile amore che rimette insieme i nostri frammenti africani e asiatici, quell’oggetto dal profondo valore affettivo frantumatosi che, una volta restaurato, mostra le sue bianche cicatrici. Questo ricomporne i frantumi rappresenta la preoccupazione e il dolore delle Antille, e se i pezzi sono disparati, non combinano, contengono più dolore dell’oggetto originale, di quelle icone e sacri vasi dati per scontati nei loro luoghi ancestrali”. (da Le Antille, frammenti di una memoria epica)



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