“Non me lo immagino con la barba bianca”. La fede del cantautore è una continua ricerca tra domande e qualche delusione
La ricerca e la voglia di dialogare con Dio continua. Non si è fermata neppure dopo quasi quarant’anni di attività discografica. La “prognosi” Luciano Ligabue non l’ha ancora sciolta: non si è ancora espresso definitivamente sulla sua fede, sul rapporto con il Signore, su cosa sia Dio per lui.
Lorenzo Galliani in “Hai un momento, Dio? Ligabue tra rock e cielo” (Ancora editrice) racconta questa sorta di cammino iniziatico, ancora in itinere, che la rockstar italiana sta compiendo.
“Credo in Dio senza barba bianca”
Durante un’intervista al programma Le Iene, Ligabue si era espresso così:
D: Credi in Dio? Ligabue: Credo in un Dio che non ha la barba bianca.
Un Dio che non ha la barba bianca, ma che sarà pur qualcosa o qualcuno. C’è il desiderio di comunicare con un «oltre»
D: Dici mai le preghiere? Ligabue: Qualche volta sì. […]
D: Per che cosa preghi? Ligabue: In genere per la salute della mia famiglia.
(le risposte sono al minuto 05:27)
“Forse assomiglia molto a Gesù”
Nella canzone Almeno credo, Ligabue dice: «Credo che ci voglia un dio/ ed anche un bar…».
«Credo in una forma personale di buon senso – risponde il cantautore a G. Mattei in “Anima mia. Rock, pop & Dio” – che mi piacerebbe fosse utilizzata da tutti: capire cioè i valori che davvero contano. Mi dà fastidio l’indifferenza, la rassegnazione. In maniera personale, non proprio cattolica, credo nel Padre Eterno. Sento forte il bisogno di un confidente al di là di questo mondo mortale. Forse assomiglia molto a Gesù Cristo, del resto non riuscirei a dargli un’altra faccia. Spero solo che trovi un momento anche per me».
«Credo», «sento», «spero». Tanta ricerca, poche certezze. Ma d’altra parte – sottolinea sempre Galliani in “Hai un momento, Dio?” – come ricorda sempre la canzone Almeno credo, in questa vita «nessuno c’ha il libretto d’istruzioni».
“Vivere è un atto di fede”
Se questo dio – o chi per lui – sembra nascosto nei cieli, in realtà anche la vita stessa, che pure abbiamo sotto gli occhi, è densa di mistero. O, per usare le parole del rocker emiliano, «vivere è un atto di fede, mica un complimento» (così recita la canzone “Atto di fede” del 2010). Versi nei quali è proposto uno sguardo positivo nei confronti dell’esistenza umana.
«Lo so – affermava Ligabue nel libro “La vita non è in rima” (a cura di Antonelli) perché l’ho verificato: avere fiducia nella vita permette alla vita stessa di essere più degna di essere vissuta. Anche se quell’atto di fede nei confronti dell’universo non è così facile. Fra le convinzioni che ho c’è ancora quella per cui si raccoglie ciò che si semina. Ho una forte componente spirituale e credo moltissimo nel bisogno di credere. Ho bisogno anche di pensare che il credere nobiliti la vita. Mi relaziono con un’entità a cui non do per forza una faccia».
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“Hai un momento, Dio?”
La voglia, la richiesta di avviare un dialogo con Dio è “celebrata” in una canzone in particolare. “Hai un momento, Dio“.
La canzone, contenuta nell’album Buon compleanno Elvis del 1995, immagina la possibilità di un dialogo a tu per tu con Dio, in un clima molto informale. Al punto che la prima domanda che Ligabue gli rivolge non è proprio sui massimi sistemi: «Chi prende l’Inter?». C’è l’urgenza di una relazione («Hai un momento Dio?/ No, perché sono qua/ Insomma ci sarei anche io»), urgenza comune a tanti uomini («Lo so che fila c’è/ ma tu hai un attimo per me?») che si trovano a non avere risposta («Perché ho qualche cosa in cui credere/ perché non riesco mica a ricordare bene che cos’è»).
Una condizione di disagio
Liga mostra una condizione di disagio, anche se tradotta in rime quasi gioiose, perchè un dialogo con Dio non ce l’ha. Perché un dialogo presuppone che siano entrambi i soggetti a parlare, non uno soltanto. Nel suo romanzo, “La neve se ne frega”, scrive:
Ho l’impressione che noi quando preghiamo ci rivolgiamo come a un muro, non abbiamo risposte. È anche possibile che la colpa sia mia, che cioè le risposte ci siano, ma io non riesco a comprenderle. Non smetto mai di ricercare.
In “Hai un momento, Dio?”, invece Ligabue fa un passo ulteriore, offrendo l’immagine di un Dio che indossa un gilet, a rendere la sua presenza ancora più «terrena».
In “Hai un momento, Dio?” volevo dire quanto fosse necessario per me poter avere un dialogo con un Dio di cui non dover avere per forza timore. Quindi raffigurarselo addirittura all’interno di un bar, con addosso un bel gilet. Ovviamente voleva essere una cosa paradossale e leggera, non dico provocatoria: in qualche modo l’idea di umanizzarlo così tanto secondo me gli portava dei punti (Luciano Ligabue, “La vita non è in rima”)
Un Dio che si diverte
In Quando canterai la tua canzone, emerge il desiderio di «avere almeno due o tre cose certe/ e avere un Dio che si diverte».
Beh, visto cosa succede quaggiù, nel teatrino delle umane sorti, è bello pensare che, almeno, Dio si possa divertire. Capisco che quando si gioca un po’ su certi concetti si rischia di offendere qualche sensibilità. Però, se è davvero vero che siamo fatti a sua immagine e somiglianza, mi piace pensare che lui abbia parecchie delle doti cosiddette «umane» (Luciano Ligabue, “La vita non è in rima”).
“E’ un dialogo interiore”
In una intervista a Galliani, l’autore di “Hai un momento, Dio?“, la rockstar evidenzia: «Il dialogo con Dio è un dialogo interiore, mi viene da dire che vada di pari passo con i cambiamenti interni prodotti inevitabilmente dall’esperienza esistenziale di ognuno di noi».
Se Dio è centrale nella vita e nella ricerca musicale di Ligabue, in più di un’occasione non ha nascoste critiche alla Chiesa.
Critiche verso una Chiesa “punitiva”
La principale riguarda l’atteggiamento a suo avviso “punitivo” nei confronti dei fedeli.
«Sono stato sia cattolico sia comunista, oggi non saprei come definirmi, ma queste dottrine sono legate al senso di colpa e al senso del dovere. Per evitare guasti sociali, producono molti guasti nelle vite individuali», diceva in un articolo su Panorama (2002).
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I sacramenti
Troviamo in Liga affermazioni molto dure anche sui sacramenti:
C’è qualcosa che mi allontana dall’idea di un dio ed è la religione praticata dagli uomini. È difficile avere a che fare con una religione punitiva che ti obbliga a confessarti, a mangiare il corpo di Cristo e a berne il sangue. Non è questo il modo per me di avvicinarmi a Dio e di soddisfare la voglia che io ho di avere un contatto con un essere superiore (Ansa, 23 aprile 2002).
Ognuno la vive a modo suo. Di certo, per i cattolici l’Eucarestia non assomiglia certo a un atto di cannibalismo e la religione abbracciata non viene percepita come punitiva. Altrimenti sarebbero i primi a levare le tende.
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Le 5 parole “cristiane” di Ligabue
D’altro sul piano valoriale sono diversi i principi che accomunano la dottrina cattolica al cantautore di Correggio. Galliani ne ha raccolto cinque.
Per primo la gratitudine. «Mi dichiaro fortunato, senza pudore. Ho conosciuto anche dolori profondi, ma sono cose della vita che toccano tutti. Non posso pretendere di esserne indenne. Il sentimento della gratitudine è poco frequentato, dovrebbe essere più esteso. Ringraziare fa star bene chi riceve ma anche chi è grato. Scalda il cuore», (Massimo Cotto, Luciano Ligabue. “Urlando contro il cielo”)
La seconda parola chiave è responsabilità. Un concetto che, ad esempio, viene espresso in Vita da mediano.
«La vita è un piacere ma anche qualcosa che un po’ ci si deve guadagnare con il sudore e con la volontà. Io credo che la gente consapevole difficilmente pensa di essere benedetta da genio o talento e che, se vuole produrre qualcosa, deve farlo faticando» (Riccardo Bertoncelli, Vivere a orecchio).
La terza parola è equilibrio. Perché, dice il Liga, il successo può far sentire bene, ma non è il fine ultimo della felicità.
Ligabue non si mette mai al centro. Essere famoso e acclamato non autorizza nessuno a sentirsi più importante degli altri. «Non dovete badare al cantante», afferma nell’omonima canzone, «tutta gente che viene e che va». E ancora: «Non dovete badare al cantante/ quello lì che si crede una star/ Quello lì che si crede uno che lasci il segno/ e invece una volta passato chi si volterà?».
Le “periferie”
La quarta parola è sguardo. Le storie raccontate dalla rockstar sono spesso sguardi di provincia, periferie nascoste da portare alla luce. Ad esempio, la sua prima canzone composta (e mai incisa), a fine anni Settanta, si chiamava Cento lampioni e parlava di una prostituta che voleva smettere. Sembra quasi che questo scenario faccia eco alle “periferie esistenziali” richiamate spesso da Papa Francesco.
La quinta ed ultima parola è realismo. Ligabue non ha costruito su di sé alcun personaggio, né tanto meno quello del cocker maledetto.
Trovo sempre più noiosa l’idea di questo ribellismo trasgressore ad ogni costo, questo cliché del rocker che ha schifo del mondo che lo circonda, che vuole distruggere e distruggersi, che vive di risse, grandi gesta sessuali, grandi approcci con la droga, fino al gesto estremo, quello che ti mette nell’Olimpo dei più grandi per sempre (Riccardo Bertoncelli, Vivere a orecchio).
Il Liga non ha mai inneggiato allo sballo. Più di tanti altri artisti, però, si è soffermato sugli effetti devastanti delle droghe pesanti. Senza sparare sentenze, ma neppure senza nascondersi dietro un dito.
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