In seguito alla nascita del secondogenito ebbe a che fare con la neonatologia e la terapia intensiva. Capì quanto fossero decisive certe attrezzature e cominciò a provvedere lui stessoNon è Santa Claus e nemmeno la Befana ma a Natale riceve un sacco di lettere. Di persone che gli vogliono bene e lo ringraziano per un dono, quindi, già ricevuto. Dice che sono le cose più gratificanti vissute in tutta la sua carriera. Ezio Greggio lo conosciamo tutti, da parecchio. Se sappiamo ancora a memoria certi tormentoni del Drive in allora non siamo più ragazzi. Perché a quarant’anni suonati non si è ragazzi. E nemmeno a sessanta inoltrati, come quelli che conta Ezio, nato in provincia di Biella nel 1954. E’ autore, giornalista, scrittore, comico, conduttore televisivo. Lui, come tanti di noi, è anche genitore, di figli ormai grandi: ha avuto due maschi, Giacomo e Gabriele (dalla moglie dalla quale è ormai separato da tempo).
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Siamo nel ’94. Il secondo, appena nato, viene portato in terapia intensiva neonatale per un problema non troppo grave ma che poteva esporlo a determinati rischi. Su il Corriere.it nella sezione Buone Notizie parlano di una probabile ingestione accidentale di liquido amniotico, una di quelle possibilità che durante l’evento sempre un po’ imprevedibile del parto possono presentarsi. Di fatto Gabriele, che ora ha più di vent’anni, è stato il biglietto di ingresso per suo padre nel mondo della neonatologia e in particolare dell’assistenza ai prematuri.
Aveva dalla sua la predisposizione amorosa che di solito i padri sviluppano alla nascita di un figlio e la capacità di estenderla per analogia ai figli non suoi. Cosa nient’affatto scontata. Aveva anche la consapevolezza di disporre di notorietà, mezzi e e risorse non comuni e forse già la viveva come responsabilità. Fatto sta che, vedendo quanto fossero piccoli, fragili ma soprattutto preziose quelle vite incipienti venute a respirare aria quando ancora non erano pronte, ha pensato di adoperarsi perché sempre meno futuri ragazzi di vent’anni rischiassero di morire per mancanza di strumenti e attrezzature adeguate. A commuoverlo non solo quegli uccellini fuori dal nido della mamma ma anche la dedizione di infermieri e medici. Capisce che la disponibilità immediata di una incubatrice o di una culla per il trasporto neonatale o la loro inaccessibilità fanno una tragica differenza. Significa dei Marco, delle Lucie, dei Giovanni, delle Matilde in meno per tutti. Persone gelate ancora in boccio, che cosa orribile.
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E allora in fondo con l’egoismo più sano che ci sia decide di non privare sè e il mondo di tante piccole vite. Fonda l’Associazione Ezio Greggio e con quella, i proventi dei suoi libri, l’aiuto di altre associazioni inizia ad acquistare e donare culle.
Riferisce il Corriere:
Un’incubatrice costa dai 40 ai 60 mila euro a seconda del modello. Greggio creò una associazione destinando allo scopo i diritti d’autore dei suoi numerosi libri. Trovò dei partner come la Nazionale magistrati e un’altra squadra che si chiamava «Un calcio al bisogno» entrambe curate dal magistrato Piero Calabrò. In oltre 20 anni sono state donate a 70 ospedali italiani incubatrici da trasporto, da reparto, respiratori, ossimetri, apparecchi per il controllo dell’udito. Queste apparecchiature hanno aiutato i reparti a salvare circa 15.000 bambini prematuri.
E da allora le storie di bambini salvati grazie alle culle donate dalla sua associazione non si contano. Ma contano tutte, di sicuro. L’efficienza tecnica in questi casi ha un che di poetico, di lirico. Reparti che funzionano, macchinari disponibili, trasporti fatti d’urgenza ma con la maggior sicurezza possibile. Ci sono storie, dietro e dentro ogni culla. Come questa, ad esempio: un bimbo prematuro doveva essere trasportato dalla Marche all’ospedale San Matteo di Pavia. L’ambulanza nel viaggio incappa in un incidente: autista e infermiere rimangono feriti. Il bimbo non fa una piega perché la sua incubatrice aveva attivato le batterie e ha continuato a garantire al suo prezioso carico calore, ossigeno, umidità e monitoraggio. Arriva una seconda ambulanza che trasferisce il piccolo che arriva a destinazione dove possono occuparsi di lui. Quel bambino oggi ha vent’anni e chissà che non continui a segnare la sua vita questa doppia razione di grazia e gratuità ricevuta, che non insegni a lui e ai tanti che toccherà che essere vivi e custodirsi gli uni gli altri è una grande e bella impresa.
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Anche solo cercando in rete potrete imbattervi in storie di figli salvati da quelle benedette macchine. Ecco cosa ho letto su un forum legato alla maternità:
“Volevo farvi sapere, per chi non lo sa già, che Ezio Greggio ha creato da qualche anno una fondazione che dona soldi agli ospedali per l’acquisto di macchinari per i reparti di Terapia Intensiva Neonatale.
Io lo so perché Federico nei primissimi giorni di vita era attaccato a un respiratore donato da Ezio Greggio.
In reparto c’erano anche altri macchinari e monitor donati dalla sua fondazione.
Purtroppo i macchinari a disposizioni nei reparti sono ancora pochi, spesso ci sono tanti bambini ricoverati e non ci sono abbastanza monitor e apparecchi per la respirazione.
Ho visto bambini venire staccati dal monitor perché altri bimbi ne avevano più bisogno.
A Federico per alcuni giorni hanno messo dei nasini per respirare invece che una mascherina soltanto perché erano le mascherine erano terminate…” (da AlFemminile.com)
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Abbiamo bisogno di questi baluardi, di questi avamposti di bene, di questi cavalieri più o meno senza macchia che menino fendenti oppure fondino associazioni in difesa dei piccoli. In questi tempi, conoscere e diffondere queste storie è tutt’altro che decorativo. Si tratta di ritirare su le fondamenta: i piccoli, i bambini fragili, quelli ammalati, gli indifesi si difendono. Gli uomini forti, le donne capaci, i ragazzi in gamba, i nonni coraggiosi, difendono i piccoli. Perdonatemi, non riesco a fare altro che pensare ad Alfie Evans sul quale incombe una sentenza di morte -nonostante la mobilitazione di tanti- come è successo a Charlie Gard, a Isaiah Haastrup e chissà a quanti altri.