E inizia a non mangiare o, quando lo fa, a vomitare. Sono 300 mila siti “pro-ana”: le vittime sono 600 mila bambini, tra gli 8 e i 14 anniLa storia che ha portato, di nuovo, alla ribalta questa odiosa malattia, l’anoressia, è quella di Carolina. La quindicenne di Ivrea caduta nella spirale dell’anoressia e della bulimia anche grazie a una delle tante blogger che imperversano in rete e nelle chat e che forniscono continui, insistenti consigli, dritte e frasi “motivazionali” per continuare a perdere peso. Come ad esempio: “ricordati che sei grassa”. Oppure cose del tipo: “Se non vuoi insospettire i tuoi siediti con loro a tavola e mangia tranquillamente. Ti dirò a che ora e come vomitare”.
Una scaletta per vomitare a casa e a scuola. E altre cose. Sistematiche, dritte all’obiettivo. Essere magra. Più magra, ancora di più.
Lo raccontava la madre, Cristina, oggi a Skytg24.
Ne parla anche La Stampa. Denuncia caso e tristissimo trend lo stesso Avvenire.
I numeri sono spaventosi: trecentomila siti e blog pro anoressia. E più di mezzo milione di vittime.
“a soffrirne in Italia sono più di 3 milioni di persone, il 20% delle quali sono bambini dagli 8 ai 14 anni. Oltre 8.500 i nuovi casi ogni anno: per il 95% si tratta di donne, ma il fenomeno è in crescita anche tra gli uomini. Problemi che passano inosservati, almeno all’inizio, ma che sono la prima causa di morte nei giovani tra 12 e 25 anni subito dopo gli incidenti stradali”,
riporta il giornale della CEI.
Il contatto coi siti è il primo girone perché poi si scende, in uno più tenebroso dove la nefasta guida può esercitare il suo controllo a stretto giro di chat: WhatsApp è l’ambiente per eccellenza.
Nel racconto di Carolina e della sua mamma ci sono fatti e dettagli davvero drammatici, ma anche molte note positive.
Punti di ancoraggio solidi che hanno permesso alla ragazza di incamminarsi decisa per la sua risalita: la mamma stessa e il coraggio di denunciare la ragazza, una diciannovenne di Porto Recanati che appare lei stessa vittima eppure ha la trista responsabilità di volere pervicacemente trascinare altre nella sua infelicità (mi distruggo io devi, distruggerti anche tu. Sembra dire. Non posso essere spensierata io, allora pure tu devi smettere di esserlo. Controllo me stessa, ora voglio controllare anche voi). Ora è indagata per istigazione al suicidio e lesioni gravissime dalla Procura di Ivrea. Questo svela l’equazione: imporsi di non mangiare e di vomitare è come suicidarsi.
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E prima ancora l’attenzione delle amiche che si accorgono della vertiginosa perdita di peso di Carolina e le sottraggono il cellulare per scoprire cosa le stesse succedendo.
Famiglia, amicizia, desiderio di guarire. Ecco cosa ha risollevato questa Carolina. Ma cosa la aveva affossata?
Le prese in giro dei compagni. Qualcosa di relativo al suo aspetto. Non sei bella, non lo sei abbastanza. Sei strana. Chissà, cose così. Con quella squisita cattiveria che si può vedere sfoggiare proprio dai ragazzini.
Ma è davvero quella la causa? O non è forse, di più, la scarsa resistenza alle frustrazioni? La mancanza di struttura in parte correlata all’età, in parte imposta invece dal clima, passata con la sbobba di regime?
Il diktat commerciale che dice a noi adulti e a loro giovanissimi che occorre essere magri e senza imperfezioni? E insieme a questo la sindrome del “chiedo a Google come si fa”?
Se provo io ad inserire queste chiavi, il primo completamento automatico della ricerca dice proprio… “a dimagrire”.
Carolina lo dice: non mi sono opposta subito a quei bulletti, non li ho mandati a quel paese e ho iniziato a desiderare di essere bella in fretta. Per togliere ogni pretesto a quelli e a tutti gli altri eventuali di vederla non abbastanza bella.
Si è accorta, grazie a Dio e ai suoi angeli custodi, che stava rischiando grosso e ha deciso di uscirne. Si lascia aiutare. Ma la mamma avverte, alla fine dell’intervista rilasciata a La Stampa:
“Mia figlia è stata fortunata, è riuscita con la sua volontà e con il nostro appoggio ad uscirne. Ma ci sono altri genitori che, purtroppo, se ne sono accorti troppo tardi e ora hanno i figli in clinica che pesano 30-35 chili. Credetemi: con l’anoressia non si scherza. Si muore, ecco. Non si trova una nuova felicità».
Nei nostri lunghi ricoveri in Neuropsichiatria Infantile abbiamo visto casi davvero tristi, degni di grande compassione.
La storia che più ci ha sorpreso è quella di una bimba. Sette anni. Non mangiava assolutamente nulla da giorni. I medici erano riusciti a nutrirla con sondino naso-gastrico assicurandole che si trattasse solo di vitamine e sali minerali: nessuna caloria, le dicevano.
Sette anni! E, ci dissero i paramedici, non era affatto un caso isolato.
Vedevamo tanto dolore, in quel reparto. Un dolore complesso, inafferrabile a volte, ma intenso. Ragazze belle, curate, occhi grandi, capelli lucenti che si tagliavano cosce, braccia, pancia.
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Anche loro seguivano profili Facebook o chat dedicate.
Si contagiavano davvero, l’una con l’altra. Una bellissima ragazza passata per quelle stanze solo per salutare una paziente aveva scoperto il suo autolesionismo e ne era stata attratta; iniziò di lì a pochi giorni a fare lo stesso sul suo corpo, bellissimo, sano.
Un’altra veniva da una città lontana centinaia di chilometri ed era ricoverata da tre mesi.
“Ora sta molto meglio” mi diceva la mamma esausta e tenace.
La sentivo andare avanti e indietro per il corridoio azzurro e stretto per ore. Girava col suo carrellino che portava la sacca della flebo. Ma lei non camminava, no. Lei bruciava calorie. Le razionarono presto anche i minuti da dedicare a questa attività. Che pianti, che urla, che rabbia animale quando la forzavano al riposo. Era una furia, dovevano bloccarla in due, tre. E pesava pochissimo.
Alcuni fuggivano il giorno prima della dimissione. E una volta ritrovati ricominciavano daccapo: altri venti, venticinque giorni di ricovero.
Qualcuno finiva nella stanza con il controllo delle telecamere e la chiusura di sicurezza.
Tutto il reparto era blindato. Finestre bloccate. Porta bloccata che veniva aperta solo ad adulti e su intervento diretto del personale.
I genitori, costretti ad essere presenti, almeno uno, 24 ore su 24, ne uscivano stremati. La pausa sigaretta era come un miraggio.
Ci si scambiavano sguardi, parole di conforto. Ci si aiutava, un po’.
Ah, il dolore di queste mamme che vedevano le loro figlie, ancora bambine o ragazze da poco, infliggere pene assurde al loro bel corpo, quello partorito da loro: pulito, curato, sbaciucchiato, curato, vestito, vezzeggiato da loro nei primi magici anni. Certo spesso le sofferenze stavano proprio lì, nei primi anni. Abbandoni, separazioni. Violenze. Oppure no, sembrava non esserci nulla di particolare. O forse troppo spazio, troppo nulla da riempire? Non lo so. Certo, il cuore umano è misterioso. Il nostro animo un dedalo di strade, precipizi, vette improvvise. Abbiamo bisogno di cose grandi. Abbiamo sete di totalità. Fame, una fame di Dio, certamente. Eppure dall’anoressia non si esce in un Amen.
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Che dobbiamo fare? Seguire, ma non troppo. Aiutare, senza sostituirci. Allenare i nostri figli e tutti i giovani affidati al giudizio. Nutrire la loro autocompassione, permettere loro di sbagliare.
Pregare. Costruire monasteri, erigere cattedrali.
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