Sedici anni dopo l’inchiesta sui preti pedofili a Boston, Michael Rezendes firma per il Boston Globe una nuova inchiesta, virtualmente capace di sollevare sulla “Chiesa di Francesco” una tempesta simile a quelle agitate sotto i suoi predecessori
Per i meglio informati si tratta di una tempesta annunciata, e del resto nessuno può ancora valutare il clamore e gli effetti che sortirà: sta di fatto che pochi giorni fa si è levato da Boston un ciclone che ambisce implicitamente a mettersi nella scia di quello del 2001. Quello sui casi di pedofilia nel clero locale, che valse al Boston Globe il Premio Pulitzer di pubblico servizio nel 2003, e che nel 2015 divenne un film di Tom McCarthy, premiato nel 2016 con gli Oscar della migliore sceneggiatura originale e del miglior film.
È difatti la medesima testata statunitense a pubblicare, in due parti uscite rispettivamente il 16 e il 17 agosto ultimo scorso, una corposa inchiesta sulle donne e sugli uomini nati da relazioni sessuali illecite del clero cattolico: i casi su cui si basa l’analisi del Globe sono una decina, ma anche grazie a uno di questi, che vedremo, è semplice risalire a dozzine e dozzine di altre storie; non c’è motivo, del resto, di negare che il fenomeno, benché sommerso e silenzioso, possa riguardare persone per numeri ancora più importanti. A firmare il dossier è Michael Rezendes, uno dei principali membri dello staff che stilò il report del 2001 (quello interpretato da Mark Ruffalo nel film di McCarthy, NdA).
Il tempismo
Il dossier annuncia di star portando alla luce “un’invisibile legione di sofferenti”: nessuno può fare stime anche solo approssimative, ma – osserva la redazione del Boston Globe – se si può arrotondare a 400mila unità il numero dei sacerdoti cattolici attualmente vivi al mondo, non bisogna aver troppo timore di pensare che i loro figli attualmente vivi, per quanto possano rappresentare casi eccezionali, siano facilmente più di qualche centinaio nel mondo. Stando ad una stima contenuta nel libro A Secret World, di A.W. Richard Sipe, citato nell’inchiesta,
circa il 30 % del clero cattolico vive relazioni sessuali regolari oppure occasionali con donne, mentre circa una metà vive il celibato.
Così Rezendes introduce il tema generale:
I figli e le figlie dei preti vengono spesso su senza l’amore e il sostegno dei loro padri, e spesso subiscono pressioni e vengono indotti alla vergogna perché tengano segreta l’esistenza di quella relazione [da cui sono nati, N.d.T.]. Sono le sfortunate vittime di una Chiesa che ha, per circa 900 anni, proibito ai preti di sposarsi o di fare sesso, ma non ha mai stabilito regole su cosa un prete o un vescovo debba fare quando un prelato diventa padre di un bimbo. Allo stesso modo la Chiesa non si cura di provvedere formalmente al fabbisogno – emozionale e finanziario – delle madri coinvolte, o dei loro figli, consentendo ai preti che diventano genitori di trattare il proprio segreto come una crisi da gestire e non come una vita da allevare.
La prima e l’ultima frase sono purtroppo le più incontestabili: esprimono uno stato di cose tanto più doloroso quanto meno suscettibile di essere sanato con un singolo intervento (particolare o complessivo che sia), e ambisco a spiegare più avanti perché. La considerazione di mezzo, invece, è inficiata da un grave errore – la Chiesa ha costantemente promosso una e una sola prassi, in tali casi –, e se tale errore si motiva in parte col fatto che il reporter non è cattolico (e dunque conosce poco e male la storia e il diritto della Chiesa), esso pregiudica nondimeno la corretta comprensione di alcune dinamiche. Anche di questo mi auguro di riuscire a rendere conto passando in rassegna il comunque utile lavoro del Boston Globe.
Che il dossier sia sospetto di pregiudizio anti-cattolico, del resto, emerge in modo piuttosto chiaro da passaggi come questo:
In Irlanda, Messico, Polonia, Paraguay e altri Paesi, in città americane grandi e piccole – e virtualmente ovunque la Chiesa sia presente – i figli dei preti formano una legione invisibile di segregazione e abbandono […].
Tale sospetto si rafforza quando ci si soffermi a considerare la bizzarra tempistica scelta per il lancio: la metà di agosto, quando tutti sono in vacanza e nessuno legge i giornali, non è un buon momento per piazzare una bomba mediatica. A meno che non sia in vista qualche importante scadenza, che potrà permettere al sistema mediatico di ripartire nell’ormai imminente anno sociale con una polemica montata su vasta scala. Di tale polemica probabilmente il Boston Globe si candida a detonatore, poiché dallo stesso Rezendes leggiamo:
Tre anni fa, in uno scottante rapporto sugli abusi sessuali del clero, il Comitato Onu per i Diritti dei Bambini osservava allarmato che dei preti cattolici stavano costringendo le donne a convincere i figli a restare nell’ombra in cambio di sostegno finanziario.
Il Comitato Onu chiese al Vaticano di «stabilire il numero dei figli messi al mondo da preti cattolici, scoprire dove si trovano e prendere tutte le misure necessarie per assicurare che i diritti di quei bambini a conoscere i loro genitori e a ricevere le loro cure siano rispettati». Il Comitato ha chiesto al Vaticano una risposta entro la scadenza del prossimo primo settembre.
È quindi piuttosto probabile che tra una decina di giorni i media torneranno a dare grande risalto a quest’interrogazione del Comitato Onu, alimentando poi il battage – contando sul “silenzio della Chiesa”, che a torto o a ragione essi sembrano dare per scontato – con le vicende di questo nuovo “caso Spotlight”.
Le storie
Come più volte Rezendes richiama nel testo (c’è pure il dossier dedicato – cui presumibilmente attingeranno largamente i media a settembre), sono dieci le storie indagate e raccontate nel dettaglio dal Boston Globe. Quelle che però vengono riportate, più o meno concisamente, nelle due parti dello story fondamentale sono cinque:
Jim Graham
Jim Graham è un uomo che scopre in età avanzata la verità sulle proprie origini: la zia glie la rivela quando ormai sia il padre sia la madre sono morti.
Se una vita può avere un momento di cristallizzazione, per Jim Graham questo poteva essere arrivato in quell’incontro del 1993, quando scoprì che suo padre potrebbe essere stato un prete cattolico, e non John Graham, l’uomo distante che lo aveva tirato su quasi senza degnarlo di una parola gentile o di conforto.
Il Boston Globe si è molto interessato alla vicenda di Graham, sostenendo le richieste di Jim presso la Curia Generalizia degli Oblati e incalzando le istituzioni ecclesiastiche. Si premurano di riferire che «le richieste consegnate a mezzo posta ed email sono rimaste senza risposta».
Chiara Villar
Quella di Chiara Villar è una delle due vicende su cui Rezendes si sofferma maggiormente, nell’articolo ad alta diffusione: si tratta di una giovane donna che rivela i conflitti di fronte a un rapporto negato e rinnegato, i sensi di colpa maturati all’ombra di un padre amatissimo e sfuggente.
Tutto quello che ho sempre voluto era che mi portasse fuori a prendere un gelato e dicesse: “Sono così fiero di mia figlia!”», dice Chiara Villar, una 36enne dei dintorni di Toronto, la quale ha saputo che suo padre era un prete fin da quando era una ragazzina, ma a cui era stato detto di rivolgersi a lui, fuori casa, come a uno “zio”. «Mi stupivo del fatto che non potesse essere mio padre, quindi ho cominciato a caricare me stessa del senso di colpa».
Di lei Rezendes scrive:
Tra i figli e le figlie di preti intervistati dal Globe, nessuno ha cercato di conquistare l’amore del padre più di Chiara Villar.
Una storia decisamente diversa da come sarebbe facile immaginarla:
Il peso della segregazione non gravò mai sulla vita scolastica di Villar, nella scuola cattolica del posto. In effetti era una studentessa modello e la reginetta del ballo. Stando alle apparenze, andava tutto alla grande.
No, non andava alla grande. Sentendosi colpevole e indegna dell’amore di suo padre, la ragazza si puniva in diversi modi, tra cui dei tagli.
«Ho cominciato ad accumulare senso di colpa. Ho cominciato a considerare se in fondo valesse la pena che io vivessi. Ho cominciato a tagliarmi perché amavo così tanto quell’uomo…», racconta.
I dettagli riportati dal Boston Globe sono vividi e restituiscono con dovizia di foto e filmati la storia di una ricerca iniziata da sempre e mai compiuta. Una storia simile a tante altre “normali”, tutto sommato, malgrado il caso eccezionale: mille e mille figlie crescono tra conflitti inestricabili con la figura paterna, anche senza aver dovuto vivere nell’alienante scissione tra il pubblico e il privato. Purtroppo anche la storia di Chiara Villar si riempirà di amarezza sul finale: più dell’amore potrà l’alzheimer. Ai primi sintomi del morbo i famigliari del sacerdote lo hanno portato in una casa di cura dedicata, peraltro senza informare la figlia, che con la sola forza dell’amore ostinato ha rintracciato il genitore. Tardi, perché non l’avrebbe più riconosciuta fino alla morte.
Emily Perry
Forse la più conflittuale delle storie, come si evince dai pur radi cenni che Rezendes riporta nel main story:
Emily Perry venne a sapere dal fratello che venne a sapere da un servizio in tv: nel ’73 la madre morì di overdose da sonniferi (e il padre la lasciò morire).
Dunque la presa di coscienza avviene con le peggiori modalità immaginabili, lasciando intravedere una cornice di degrado in cui a nessuno farebbe piacere ritrovare le proprie origini. Questo ha complicato non poco la ricognizione col padre:
«La prima volta che sono andata in chiesa dopo che la storia era venuta fuori e avevo scoperto che quello era stato mio padre mi ha veramente turbata», racconta Perry, che aveva 31 anni e stava vivendo a Stoughton quando apprese la verità. Era il 2002. «Giravo nella chiesa e dicevo: “Cavolo, e questo per te è più importante di tua figlia o della donna che ti ha dato i tuoi figli?”».
Vincent Doyle
Questo giovane irlandese è senza dubbio la chiave di volta del dossier, il personaggio che garantisce complessità al report e lo strappa al mero strillo scandalistico. Di Doyle si parla soprattutto nella seconda parte dello story, mentre nella prima ci si limita ad annotare:
Vincent Doyle, figlio di un prete e fondatore di Coping International, un sito web che offre supporto ai figli dei preti, annota che se anche un mero 1% dei 400mila preti del mondo hanno messo al mondo un figlio ci sarebbero almeno 4mila figlie e figlie di preti che potrebbero aver bisogno di assistenza morale e materiale dalla Chiesa.
La reazione suscitata dal sito fu sensibile: Doyle fu contattato da dozzine di persone da tutto il mondo, che gli raccontavano di aver sofferto (psicologicamente o materialmente) nel crescere senza la figura paterna.
Il 17 agosto, invece, Michael Rezendes ha raccontato al mondo la più complessa vicenda di Vincent Doyle, figlio naturale di un prete irlandese di cui si crede padrino e che a 28 anni di età scopre essere il suo padre biologico. Il giovane irlandese, che aveva sempre avvertito un qualche misterioso legame col sacerdozio cattolico (e che per un anno andò pure a operare un discernimento vocazionale presso un seminario spagnolo) perse il prete/padrino nel 1995, per via di un cancro ai polmoni: solo nel 2011, trovando presso la madre delle vecchie poesie del padrino, comprese la verità, che cioè il prete era suo padre.
Nondimeno, l’idea di sfruttare le risorse del web per raccogliere una comunità non gli venne immediatamente: era necessario ancora un incontro.
Dopo aver saputo che J.J. (così chiamava il rev. John J. Doyle) era suo padre, e dopo aver conosciuto una donna figlia anche lei di un prete cattolico, gli si impose una domanda: quanti figli di preti esistono al mondo?
Bisogna dire (e Rezendes ha il merito di sottolinearlo adeguatamente) che tra i primi a incoraggiare il giovane Doyle – nella sua ricerca personale e nel suo intento di costruire un network che restituisca luce e voce ai figli dei preti – va annoverato mons. Diarmuid Martin, arcivescovo di Dublino e presidente della Conferenza Episcopale Irlandese. Il prelato accompagnò fin da subito l’incoraggiamento col sostegno economico, e questa collaborazione produsse importanti effetti che dirò più avanti. Intanto qualche anno dopo, cioè qualche anno fa, Doyle incontrò Papa Francesco: nel giugno 2014, infatti, Doyle si presentò in piazza san Pietro, riuscì a essere presentato a Papa Francesco, a dirgli “soy el hijo de un cura católico” e a consegnargli una lettera (in spagnolo): «Sì, sì, I will read», avrebbe detto il Santo Padre. «Ha tempo fino a Lunedì», avrebbe risposto Doyle (il che concedeva al Santo Padre cinque giornate piene – le udienze pubbliche si tengono di mercoledì). Rezendes puntualizza più volte che da quel giorno il giovane non avrebbe più ricevuto comunicazioni dal Vaticano.
Sarah Thomas
La storia di Sarah Thomas è quella di una donna che scopre a 12 anni di essere figlia di un prete: s’illude allora che comunque quell’uomo saprà amarla, mentre per tutta l’infanzia e la giovinezza non avrà che riprove (anche dolorosamente evidenti) della di lui freddezza nei suoi riguardi.
«Penso di essermi sempre sentita in colpa, credevo che fosse tutta colpa mia, che sono arrivata a sconvolgere la sua vita con la mia nascita, perché ero una tale seccatura che dovevo essere nascosta» – ha detto al Globe.
Il padre avrebbe insistito con la madre perché tenesse segreta la sua identità, minacciandola anche di smettere di passarle soldi per il sostentamento della figlia. A far da contrasto a tale torbido comportamento emerge, a questo punto del racconto, la bella figura del cardinal Vincent Nichols, presidente della Conferenza episcopale d’Inghilterra e Galles, che nel 2016 incontrò Sarah in compagnia di Doyle. Contrariamente ai timori della donna, l’incontro fu molto empatico, e fu seguito da una vibrante lettera del prelato. Il Boston Globe ne riporta un passaggio emblematico:
Esprimo il mio profondo rammarico per quanto è conseguito da quell’errore di giudizio [quello di ritenere il padre della donna adeguato al ministero sacerdotale, N.d.T.], particolarmente per il senso di repulsione di cui Lei [cioè la stessa Sarah Thomas, N.d.T.] ha fatto esperienza per molti anni.
La donna rispose pregando il Cardinale di non prendere provvedimenti contro suo padre, il quale a suo dire «è comunque stato un bravo prete». Il Cardinale ha ottemperato alla sua richiesta.
La sintesi e l’errore
Le cinque storie sopra sintetizzate vengono esposte a più riprese, nello story di Rezendes, e con spezzoni che talvolta richiamano fatti e concetti già espressi. Il giudizio conclusivo sulle vicende narrate è il seguente:
Molti altri vengono distrutti dalla cruda verità, e i loro sentimenti di disillusione e abbandono possono condurre a vite frammentate da relazioni instabili, abuso di sostanze, pensieri suicidi.
Dunque il Boston Globe ribadisce la valutazione già anticipata lo stesso 16 agosto. Insieme ad essa, torna a ripetere il medesimo errore già sopra esposto:
Benché i preti siano diventati molte e molte volte genitori, nella lunga storia del celibato ecclesiastico, la legge canonica tace quanto alla responsabilità del vescovo quando uno dei suoi preti ha un figlio.
Rezendes cerca di spiegarsi meglio:
Alcuni preti, nei casi esaminati dal Globe, si sono assunti seriamente le proprie responsabilità. Sono stati padri devoti, perlomeno in privato. Alcuni hanno promesso alle donne che hanno dato alla luce i loro figli che avrebbero lasciato il sacerdozio, per quanto poi pochi lo abbiano fatto. Altri ancora consolavano le donne assicurando loro che era solo una questione di tempo prima che la Chiesa derubricasse l’obbligo del celibato – cosa che papa dopo papa, Francesco incluso, nessuno ha voluto fare.
Ma pure nei casi in cui il prete ha cercato di essere un buon padre, la tensione tra le esigenze della fede e quelle della famiglia può essere dilaniante. La madre di Chiara Villar, alla fine, smise di credere che il padre di Chiara avrebbe mantenuto la sua promessa di abbandonare il sacerdozio; finì che sposò un altro uomo.
L’inchiesta offre al reporter un campione, ancorché limitato, per tracciare una statistica comunque indicativa:
Su 10 casi considerati attentamente dal Globe, solo in due di essi le madri ricorsero al tribunale per ottenere gli alimenti per il figlio, mentre le altre lasciarono che fossero i preti a decidere quanto passare loro, e non trovarono grande aiuto.
Altri sei non ricevettero alcun supporto dai padri. Quanto ai preti che pagavano, in alcuni casi lo facevano a condizione che la faccenda rimanesse segreta.
Ora, ribadendo a scanso di equivoci il nostro giudizio di condanna di quegli atteggiamenti che poc’anzi definimmo “opachi”, bisogna però che spieghiamo in cosa consista l’errore, e del resto queste formulazioni di Rezendes si prestano meglio delle altre a esemplificarlo. È vero che il Codice di Diritto Canonico presenta un vuoto normativo in materia, cioè che non considera positivamente il caso che un membro del clero abbia un figlio dopo la propria ordinazione, e questa cosa ha certamente il suo peso; ma non bisogna prendere nessuno dei due Codici del XX secolo per “una summa di diritto canonico”: il corpus è immensamente più vasto, anzi proprio l’impossibilità di dominarlo attualmente tutto ha suggerito di ricorrere a dei moderni Codices. Perché invece la disciplina della Chiesa antica insegna costantemente (e concordemente fino al Concilio Quinisesto – detto “Trullano” – del 692) che l’ordinazione di uomini sposati esige il loro impegno nella continenza, e che – viceversa – il venir meno a questa condizione comporta ipso iure il decadimento dallo stato clericale.
Questo lo attestano anzitutto i canoni del Concilio di Elvira (il canone 33, per la precisione), il quale emblematicamente resta nella storia della Chiesa il primo concilio locale di cui si conservino gli atti. Ma lo attesta anche la letteratura patristica, e per bocca di vescovi figli di vescovi, nati prima dell’ordinazione del genitore e che per di più (è il caso di Gregorio Nazianzeno) rendono testimonianza della preferenza popolare per i sacerdoti celibatari. Visto che parliamo delle regole e delle infrazioni alla stessa (per le quali anzi la stessa è stata posta), ricordiamo quella lettera di Epifanio di Salamina in cui si legge:
Ora tu mi chiederai di certo di quei posti dove ci sono preti, diaconi e suddiaconi che ancora fanno figli. Questa cosa avviene in modo non conforme ai canoni, ma per il semplice fatto che da un lato alcuni prendono le cose alla leggera e dall’altro che in rapporto alla moltitudine dei fedeli non ci sono ministri a sufficienza.
Quarto secolo pieno, età d’oro della patristica. C’è di che riflettere. E proprio per venire incontro a quella contraddizione i padri del già ricordato concilio Quinisesto di Costantinopoli restrinsero l’obbligo del celibato al solo ordine dell’episcopato. Tale è appunto la prassi nelle Chiese ortodosse fino al giorno d’oggi. Il Concilio tridentino, a sua volta, permise pro bono pacis che alcune chiese sotto la giurisdizione latina mutuassero la disciplina canonica orientale quanto a sacerdozio e matrimonio.
Ma non si deve dimenticare che se Elvira è in Spagna, neanche vent’anni dopo (e comunque prima del grande concilio Niceno) si riunì a Neo-Cesarea – dunque nell’attuale Turchia – un concilio locale che fissava la medesima disciplina. Lo stesso avverrà nel Concilio di Toledo del 400, in quello di Orange del 441, in quello di Agde del 506, in quello di Arles del 524 e in quello di Orléans del 538. Ed era un’epoca in cui l’organizzazione ecclesiale era ben lungi dal tanto (anche a torto) deprecato centralismo romano del secondo millennio: vuol dire che il sentire ecclesiale diffuso raccoglieva nella via del celibato, pur in mezzo alle contraddizioni date dalla fragilità umana, le indicazioni neotestamentarie che di per sé non indicavano (né indicano) una preclusione del diritto divino rivelato al sacerdozio uxorato.
Dunque non possiamo a ragione accusare la Chiesa di non indicare una prassi: lo stesso Boston Globe documenta, invece, che la prassi attuale (cioè quella delle dimissioni dallo stato clericale) è conforme a quella costantemente insegnata e applicata dalla Chiesa.
Si deve infine osservare, quanto alle donne coinvolte, che a differenza dei loro figli esse sapevano benissimo di star intraprendendo una relazione clandestina con un uomo non libero. Le situazioni che risultano sono chiaramente penose per tutti e a nessuno si vuole negare la giusta compassione umana, ma in senso stretto quelle donne non possono accampare maggiori pretese di quelle che si avventurano in una storia con un uomo sposato. Altro discorso va fatto per i figli, perché certamente non possiamo riconoscere alla lettera di Giustiniano del 530 il carisma di interprete autentica della Tradizione ecclesiastica, quando spietatamente l’imperatore afferma che «sono bastardi e su di loro deve ricadere il disonore dei padri che in quel modo li hanno generati».
Ma appunto: se si deve parlare dei figli dei preti – discorso certamente importante e che per quanto sia doloroso è altresì doveroso affrontare – si ha l’impressione che l’inchiesta del Globe punti direttamente ad attaccare lo stesso istituto del celibato ecclesiastico. Il quale sarebbe salito sul banco degli imputati per la pedofilia sedici anni fa e ci torna oggi per l’incontinenza di uomini che non hanno tenuto fede alle loro promesse. Si capisce che Rezendes segnali con qualche stupore l’impostazione di Doyle, che da parte sua dice di amare la Chiesa, e anzi di aver intrapreso la strada di Coping International perché: «Non mi piacer il fatto che la mia fede venga usata per tenere segregati i figli dei preti».
E ancora afferma: «Impersono nel mio corpo l’esatto opposto di ciò che è stato promulgato dalla Chiesa per secoli». Una cosa che lo avrebbe riempito di rabbia, di rancore.
E tuttavia – chiosa con un certo stupore Rezendes – Doyle evita di battere sul tasto del celibato ecclesiastico, anche se molti di quanti lo contattano affermerebbero di ravvisare in esso la radice di tutti i loro mali.
Quindi il figlio del prete distingue:
Se ora entrasse dalla porta il Papa e dicesse che adesso ci liberiamo del celibato, direi “benissimo!”. Ma la cosa non avrebbe a che fare con ciò che trattiamo noi, che è cosa fare per i figli dei preti ora e nel prossimo futuro.