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Don Patriciello: cari consacrati, il tesoro da donare non siamo noi, è Gesù

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Padre Maurizio Patriciello - pubblicato il 10/01/23

Il tesoro che abbiamo da donare al mondo non siamo noi, i nostri discorsi, le nostre astuzie pastorali. L’unico, vero, incommensurabile tesoro è lui: Gesù.

Nel giardino della Chiesa, ognuno ha diritto alla propria personalità, alla propria spiritualità, ai propri carismi, vissuti, però, sempre e solamente in comunione con i successori degli apostoli e di Pietro. 

Ma qual è il fine che dovranno perseguire coloro che hanno scelto di vivere una vita che tanti, oggi, fanno fatica a comprendere? Quando il mondo cerca di emarginarli, ignorarli, calunniarli, o, addirittura, perseguitarli, chi darà loro la forza della perseveranza? Come faranno a non smarrirsi nella foschia di questa vita che tanto attrae e inganna con le sue lusinghe? La stella. Non dovranno perdere di vista la stella.

I consacrati, a qualsiasi livello, dalla portinaia del monastero di clausura al segretario di Stato della Santa Sede, allo stesso Sommo Pontefice, dovranno ricordare, a ogni ora del giorno, di essere al servizio di un Dio che è disceso dal cielo “ per noi uomini e per la nostra salvezza”. Smarrita, o sbiadita, questa fondamentale verità, la Chiesa si svilisce in qualcosa di solo umano. Gli uomini non sono angeli, ma uomini, con i loro pregi e i loro difetti. I credenti, a cominciare dai santi, sanno bene che il desiderio della perfezione deve fare i conti con la propria umanità. 

La vita di fede è una battaglia. Le battaglie si combattono con coraggio. Non ci s’innamora delle battaglie; esse fanno paura, perché possono essere vinte ma anche perse. In battaglia si va con mezzi e strumenti adatti, in buona salute, e, soprattutto, spinti da un ideale che mette le ali ai piedi al combattente. In caso contrario, la tua battaglia si tramuterà in una disfatta più o meno clamorosa. Le battaglie spirituali non sono da meno. 

Al contrario. 

Gesù scelse dodici giovanotti “perché stessero con lui e per mandarli a predicare”. Nemmeno costoro, che oggi veneriamo come santi, furono immuni dalle miserie che incombono su di noi e ci fanno soffrire. La caccia ai primi posti – nella società civile e nella stessa Chiesa – non deve sorprendere. È umano essere accarezzati dal desiderio di avanzare nella carriera, di apparire, di essere qualcuno. È umano ma non divino. 

Nella visione della fede, “umano” sta a dire che in quella agognata ascesa verso il potere – fosse anche un potere “spirituale” – , Gesù non c’entra niente. E se Gesù non c’entra niente, la nostra fatica risulta non solo inutile ma dannosa. Pochissime volte, nel vangelo, il Maestro sembra perdere la pazienza: quando gli toccano i bambini e quando gli profanano il tempio. E con Pietro quando – poverino! – tenterà di impedirgli di andare a morire in croce. Il suo accorato appello altro non era che una dichiarazione di amore. Eppure il Signore non apprezza quel consiglio, indurisce il volto, diventa severissimo. E gli ordina di allontanarsi da lui. 

Ma perché? Di quale orrendo crimine si era macchiato l’antico pescatore? La motivazione dovrebbe far tremare i polsi a me e a tutti coloro che si sono messi alla Sua sequela: “ Tu non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini”. Tutto qui? Niente di grave, dunque? Il futuro primo papa viene rimproverato per aver voluto troppo bene al Maestro? Si, un bene fuori luogo, evidentemente, che, in quel momento, rappresenta la più subdola e pericolosa delle tentazioni. 

Quelle parole, accorate e vere, avrebbero potuto distoglierlo dalla sua missione. Lui è disceso dal cielo “ per noi uomini e per la nostra salvezza”. E chiede alla Sua Chiesa di aiutarlo a realizzare questo sogno. Non altro. Pietro capisce, annuisce, tace, trema. Soffre, piange, incassa la lezione. Quell’amaro e provvidenziale “ rimprovero” lo accompagnerà per il resto della vita, fino al martirio. Quelle parole sono la stella che dovrà guidare il nostro cammino di credenti, laici, consacrati, preti, vescovi, cardinali. Quelle parole, Francesco, successore di Pietro, sente rimbombare nelle orecchie e nel cuore. 

Il tesoro che abbiamo da donare al mondo non siamo noi, i nostri discorsi, le nostre astuzie pastorali. L’unico, vero, incommensurabile tesoro è lui, Gesù. Mai perdere di vista la stella, dunque. I Magi per averlo fatto finirono nelle grinfie di Erode. Quando finalmente la rividero brillare, provarono una grandissima gioia. E seguendola giusero alla meta. 

Repetita iuvant. “Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo”. Non per le galassie, non per le stelle e i buchi neri. Incidiamo questa verità sugli stipiti delle nostre porte, delle nostre chiese, dei nostri animi. Se ci stiamo giocando la vita nella Chiesa, è solo per collaborare con Gesù nell’unica missione che gli sta veramente a cuore. Per l’umanità di oggi e per quella che verrà. Nei secoli dei secoli.

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