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Missionario in sedia a rotelle: “Credevo che un sacerdote dovesse essere in piena forma” (FOTO)

ksiądz Andrzej Bafeltowski, niepełnosprawny misjonarz z Ukrainy

fot. archiwum prywatne ks. Andrzeja Bafeltowskiego

Aleteia Polonia - pubblicato il 18/12/22

P. Andrzej Bafeltowski è un pallottino che dopo l'ordinazione nel 1991 è partito per l'Ucraina, dove ha avuto un incidente automobilistico che lo ha lasciato con gravi disabilità

Padre Andrzej Bafeltowski sognava di essere missionario fuori dalla sua Polonia natale, ed è stato mandato in Ucraina. Lì ha avuto un incidente automobilistico che ha cambiato molte cose nella sua vita, come spiega in questa intervista rilasciata ad Aleteia.

È sempre stato vicino a Dio?

Assolutamente no. Ho avuto una formazione religiosa standard – Battesimo, Prima Comunione, cresima –, ma la mia fede era rimasta lì.

Ero un ragazzo piuttosto ribelle. Non assistevo alle lezioni di religione, a volte per decenza andavo alla Messa di mezzanotte.

I miei amici lamentavano il mio anticlericalismo, e alla fine mi hanno invitato alla catechesi neocatecumenale, durante la quale i laici dovevano parlare di Dio.

Ascoltando quelle catechesi ho sperimentato la conversione e sono entrato nella comunità che si stava creando. Mi sono confessato per la prima volta dopo molto tempo.

E hai iniziato a pensare a una vocazione?

In quella comunità c’era anche una ragazza che non era stata battezzata da bambina e voleva ricevere il Battesimo. È nata un’amicizia, anche un’infatuazione…

Mi ha chiesto di essere il suo padrino. Dopo quell’evento ho iniziato a chiedermi se avrei dovuto sposare la mia figlioccia.

In quel periodo, però, ho conosciuto dei sacerdoti meravigliosi che evangelizzavano in tutto il mondo come catechisti itineranti.

Ho assistito a un incontro per giovani presieduta da un gesuita, Alfred Cholewiński, e ho ascoltato una domanda: “Sei pronto a lasciare tutto e a entrare in seminario come sacerdote?” Ho detto di sì, che ero pronto.

Ho avuto una conversazione seria con quella ragazza, ci sono state lacrime, ma anche comprensione reciproca.

Perché ha scelto la congregazione pallottina?

Qualcuno mi ha dato un libro su San Vincenzo Pallotti, e la sua biografia mi ha commosso.

Pallotti è stato un sacerdote del XIX secolo a Roma, in un’epoca in cui l’apostolato era riservato unicamente al Papa. E ha detto che chiunque può essere un apostolo! È stato rivoluzionario nella sua epoca.

Nel noviziato ho attraversato varie crisi. A volte mi sembrava di non essere adatto a questo cammino, di non poter lavorare su me stesso.

In quei momenti, il mio saggio maestro dei novizi diceva: “Ovviamente puoi andartene se lo vuoi, ma prima pensaci due settimane”. E quel tempo era sempre sufficiente perché la crisi passasse.

«Dio ti guida attraverso ciò che succede»

Com’è finito in una missione in Ucraina?

Quando stavo terminando gli studi, all’epoca della perestrojka, si sono aperte le frontiere all’Est.

I Pallottini si sono recati in Ucraina, in Kazakistan, nel profondo della Russia, e riportavano storie straordinarie: che c’erano cattolici inviati lì fin dall’epoca estalinista, che mancavano sacerdoti, che quando ne arrivava uno doveva nascondersi e confessarsi, battezzare e celebrare la Messa in abiti civili… erano cose che colpivano.

Al mio quinto anno ho preso una decisione e ho presentato una richiesta al Provinciale, dicendo che avrei voluto lavorare in Unione Sovietica.

Stavo imparando il russo, e visto che il corso di lingue era affidato a un giovane professore, i seminaristi ci partecipavano volentieri.

Sognavo di andare lontano, in Kazakistan… Ma Dio ci guida attraverso gli eventi.

Quando sono stato ordinato, il Provinciale ha annunciato: “Andrai in Ucraina, a Żytomierz. Lì ci sono necessità maggiori”. Non ero entusiasta, ma sono stato d’accordo.

Com’era la realtà allora?

Ho superato la frontiera il 24 agosto 1991, e quel giorno l’Ucraina ha dichiarato la sua indipendenza. Sono finito nell’unica parrocchia cattolica della città e dei dintorni, con una popolazione di 300.000 anime. Ed eravamo solo in tre: il parroco e due vicari.

C’era molto lavoro, Battesimi, matrimoni, funerali… Sempre più persone volevano tornare alle proprie radici cattoliche.

Non conoscevamo bene la lingua. Abbiamo tradotto le formule liturgiche, ad esempio i preparativi delle nozze, dal polacco all’ucraino. È stato un periodo intenso ma bellissimo.

È lì che c’è stato un importante punto di inflessione nella tua vita: un incidente automobilistico.

Avevo assunto la direzione della parrocchia di un piccolo paese come primo sacerdote dopo 70 anni dalla rivoluzione.

I comunisti avevano abbattuto entrambe le torri della chiesa e l’avevano trasformata in un cinema. La gente mi ha portato un secchio perché sul posto non c’era nemmeno un bagno.

Tutto aveva bisogno di essere restaurato, ma io ero giovane, avevo 31 anni, ed ero pieno di energia.

Un giorno è arrivata la notizia che c’era un po’ di denaro per il restauro in un paese lontano.

Siamo andati tutti e tre, e abbiamo preso anche elettrodomestici, un televisore e una cucina elettrica.

Mentre tornavamo mi sentivo stanco, e ho chiesto al mio compagno di sostituirmi al volante. Mi sono appisolato e quando mi sono risvegliato ero già in ospedale.

Strade sconnesse, frenate brusche… Qualcosa, probabilmente la stufa o la televisione, mi ha colpito alla nuca.

Quando ho aperto gli occhi ho provato dolore, ho cercato di mettere la mano in tasca e mi sono reso conto che non riuscivo a muovere il braccio. Ero completamente paralizzato.

Mi hanno subito portato all’ospedale provinciale per operarmi alle vertebre cervicali.

Hanno fatto quello che potevano. Era il 1993, nell’ospedale non c’era niente, neanche bende. Nella stanza c’erano dieci pazienti in otto letti, alcuni ne ospitavano due.

I Pallottini sono venuti a trovarmi, e le infermiere hanno detto loro: “Portatelo via, qui non sopravvivrà”.

Ti hanno portato via dall’Ucraina?

Mi hanno portato in Polonia in aereo. Mi hanno steso su una porta, l’hanno rimossa dal telaio e mi hanno avvolto in un lenzuolo. 

A quanto pare, quando un medico di un ospedale di Varsavia ha visto le mie condizioni ha detto che per me era meglio morire.

È saltato fuori che durante il trasferimento c’erano stati degli spostamenti della colonna, e ho dovuto stare sei settimane steso su una barella per stabilizzarla.

È iniziato un lungo cammino di riabilitazione, ho dovuto imparare di nuovo a fare tutto. All’inizio riuscivo a stare seduto su una sedia a rotelle solo per un’ora, e poi svenivo. Come mangiare se non riuscivo a sostenere un cucchiaio? Me lo hanno legato alla mano…

Non hai pensato che ti eri offerto a Dio e Lui ti dava tutto questo?

Ero giovane, atletico, e quindi pensavo che sarei tornato in forma.

Non ho neanche pensato di restare in Polonia: dopo la riabilitazione sarei tornato in Ucraina.

Solo conoscendo altre persone disabili mi sono reso conto che anche la mia lesione era grave e che dovevo imparare a conviverci.

Ricordo un momento in cui ero ancora molto debole e riuscivo a muovermi solo nella stanza. Sono caduto sulla schiena e non riuscivo non solo a rialzarmi, ma neanche a girarmi.

E allora sono rimasto lì, guardando il soffitto e pensando: “Signore Dio, che sarà di me…” Ma a un certo punto è apparso qualcuno, mi hanno messo su una sedia a rotelle e stavo bene.

Quanto ti metti i calzini andiamo a fare colazione

All’improvviso ti sei quindi ritrovato in una situazione di dipendenza dagli altri…

I candidati ai Pallottini in Ucraina, che mi ricordavano dai tempi di Żytomierz, sono stati di grande aiuto.

Avevano bisogno di qualcuno che li capisse un po’, e mi hanno aiutato davvero. Hanno organizzato turni di notte tra loro per prendersi cura di me, e hanno imparato gli esercizi di riabilitazione. Mi sono sentito molto curato.

Mi chiedevo come potessi continuare a lavorare come sacerdote; mi sembrava che un sacerdote dovesse essere in piena forma. 

Gli Ucraini me lo hanno suggerito: dopo tutto, un sacerdote può ascoltare Coinfessioni sulla sedia a rotelle.

Come sei tornato ad essere autonomo?

Un momento importante è stato il campo di riabilitazione attiva diretto da persone disabili sulla sedia a rotelle.

Sono arrivato lì con delle guardie del corpo: mia madre, una fisioterapista, due seminaristi per aiutare… E i leader hanno detto: “Non servono, resta qui da solo”.

Per me è stata una secchiata d’acqua fredda, perché fino a quel momento ero stato circondato da un gruppo di custodi.

Quando mi sono svegliato al mattino, è arrivato un volontario e ha detto: “Ecco i calzini. Quando te li metti andiamo a fare colazione”.

Ci ho lottato per due ore, la colazione era stata portata via da tempo, ma grazie a quell’approccio ho imparato a stare sulla sedia e rotelle, a nuotare e poi anche a guidare la macchina.

Servi chi ti circonda

Sei ancora missionario. Come vedi la tua chiamata oggi?

Mi sento ancora pronto per la missione! Ho dovuto rimanere in Polonia perché in Ucraina non c’erano le condizioni adatte al mio caso, anche se ho provato a tornare.

Due anni dopo l’incidente ci sono andato per essere padre spirituale dei candidati all’ordine.

Mi hanno allestito una stanza nel garage perché potessi spingere una sedia a rotelle, ma la sala da pranzo era al piano di sopra e la cappella era nella soffitta. I postulanti dovevano portarmi su e giù.

Ho visto che nello spirito sono ansioso di stare lì, ma il corpo ha i suoi limiti.

Oggi posso servire chi è più vicino. Parlo con i bambini dopo gli incidenti all’ospedale STOCER di Konstancin, dove sono cappellano, e confesso i partecipanti ai pasti nel Centro di Animazione della Missione, lavoro nella biblioteca pallottina…

Resto collegato al Cammino Neocatecumenale e celebro l’Eucaristia per le comunità. Nel cuore, però, ho ancora il desiderio di tornare in Ucraina.

Parli con persone che si trovano in una situazione simile alla tua del significato di questa sofferenza?

Sì, ma non è semplice né ovvio. Una volta, in un incontro con i disabili, ho iniziato a parlare della sofferenza, e una bambina in sedia a rotelle si è messa a piangere e ha gridato: “Come possiamo dire che Dio è misericordioso? Io volevo avere una famiglia normale e sono paralizzata…». 

Le argomentazioni che avevo preparato sono crollate, e tutto quello che ho potuto spiegarle è stata la mia esperienza di Dio in queste difficoltà.

Pensi che la guerra in Ucraina abbia senso?

Dio a volte permette prove difficili nella storia, comprese le guerre. E questo è un tempo di conversione per tutti noi.

Quando è scoppiata la guerra, a febbraio, ho cercato di aiutare quanti erano fuggiti in Polonia. 

Abbiamo celebrato Messe in ucraino, ho cercato di aiutare e di stare accanto alle famiglie che venivano qui. 

Probabilmente la cosa più importante è accompagnare l’altro nella sofferenza perché non perda la speranza.

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