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Lily Ebert:”Ad Auschwitz non c’erano fiori, se no li avremmo mangiati”

LILY EBERT, AUSCHWITZ, TIKTOK

Lily Ebert | Tiktok - Szymon Kaczmarczyk | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 17/08/21

Lily Ebert ha 97 anni ed è sopravvissuta all'Olocausto, lo racconta su Tik Tok rispondendo alle domande di più di un milione di followers.

L’ossimoro è una figura retorica quasi impossibile, eppure molto reale. Si tratta di accostare due termini opposti e lasciare che il loro contrasto parli. La storia di Lily Ebert non è un solo ossimoro, ma tanti. Ha 97 anni e ha 1 milione e 200 mila followers su Tiktok. Parla lenta in un social veloce. Porta sulla piattaforma dei balletti il peso della storia di una sopravissuta ad Auschwitz.

L’ossimoro ancora più incredibile? Sono i giovani a chiederle i video che fa, riempiendola di domande.

Una bambina di fronte al dottor Mengele

C’è da imparare molto da quest’anziana di origini ungheresi che racconta l’Olocausto al pubblico giovanissimo di Tiktok. Fa come le montagna che va da Maometto, inverte il senso di marcia più logico. Ci lamentiamo dell’indifferenza delle nuove generazioni, puntiamo il dito contro di loro e l’abuso di social e virtualità. Vorremmo che fossero ancora quelli che vanno a studiare la Storia sui libri.

C’è da aspettarsi che qualcuno aprirà perfino dei libri, dopo aver ascoltato la voce di Lily. L’innesco di un interessamento autentico parte da sempre da una testimonianza viva che ci coinvolge e mai da un astratto “Devi sapere cosa è accaduto nei campi di concentramento”.

Lily Ebert era una giovane ragazza (aveva circa l’età di quelli che oggi passano ore su Tiktok e Twitch) quando entrò ad Auschwitz nel luglio del 1944. Si trovò di fronte a quello che era definito “l’angelo della morte”, il Dottor Mengele. Il destino di ogni deportato dipendeva dal suo sguardo, o lavoro o camera a gas. Della famiglia Ebert solo Lily non fu mandata alla camera a gas.

Era l’angelo della morte. Ha condannato a morte mia madre Bela e mia sorella minore Berta.

Tiktok costringe alla sintesi. In questo caso l’effetto è di una potenza deflagrante: basta una frase a suscitare un pugno, una spinta, un atto di compassione che si mette in moto. Sono tantissimi i ragazzi che inondano Lily di domande, proprio a partire da questi ricordi ridotti all’osso.

L’angelo nel tacco della scarpa

I segni sono un’altra chiave di ingresso potente nelle storie personali. Ciascuno di noi saprebbe dire un momento in cui un dettaglio della realtà è diventato compagno di un messaggio più grande delle circostanze stesse, segno – appunto – di un orizzonte più grande.

C’è un ciondolo che Lily Ebert porta con sé da quando è stata prigioniera ad Auschwitz, è d’oro e porta impressa la sagoma di un angelo. Lo indossava sua madre e lo nascose nel tacco di una scarpa entrando nel campo di concentramento. I deportati venivano per prima cosa spogliati per essere sottoposti alla visita che decideva il loro destino di vita o morte. Dopo questa sentenza nulla restava a loro se non le scarpe, e la madre di Lily scambiò le sue con quelle della figlia. Fu l’ultima cosa che fece prima di andare alla camera a gas. Nessuno trovò quel ciondolo, che accompagnò Lily dentro Auschwitz e per il resto della sua vita. Una presenza nascosta, un abbraccio che è sopravvissuto all’inferno crudele dei nazisti.

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Questo segno ha molto da dirci. Non fu una consapevolezza piena quella della madre della signora Ebert, chi arrivava al campo di concentramento non aveva realmente idea di quel che gli sarebbe accaduto. Ogni passo o gesto era un inoltrarsi in un buio peggiore di un incubo, ma questo i sopravvissuti lo hanno capito a posteriori. E per quanto lontani anni luce da questo abominio della storia, anche noi facciamo passi quotidiani che si inoltrano verso eventi che non ci sono subito chiari. Ed è lì che siamo in compagnia di una Provvidenza che semina segni, ci accompagna con intuzioni che vanno al di là del nostro discernimento. Così è stato per quel ciondolo nascosto nel tacco di una scarpa.

I fiori non crescono ad Auschwitz

Quanti libri sono stati scritti sull’Olocausto? Quanti film? Quante testimonianze? Eppure non è una storia che si è finito di raccontare. L’aspetto più forte dei brevissimi video di Lily Ebert è l’emergere di dettagli piccoli, odori e rumori che ci resituiscono una tragica scena viva. Rispondere alle domande dei ragazzini su Tiktok, qualcuno potrebbe storcere il naso … l’Olocausto non può essere dato in pasto al gioco e alla leggerezza di un social network.

Eppure proprio le curiosità semplici dei giovanissimi – niente analisi storiche e sofismi – ci portano dentro le camerate, i recinti, il quotidiano dell’orrore. Lily, nella zona di Auschwitz crescevano i fiori? – chiede un follower.

No. Ma una cosa è sicura. Se ci fossero stati fiori li avremmo mangiati.

Liliana Segre lo ha testimoniato più volte, non c’è spazio per un ritratto tenero dei deportati. I sentimenti buoni spariscono dal cuore delle vittime, quando le vittime hanno la pressante necessità di pensare solo a sopravvivere. L’immaginazione muore e gli occhi imparano a guardare ogni cosa alla luce del bisogno essenziale. Forse in un nostro film mentale avremmo immaginato un deportato che guarda un fiore nel campo con una lacrima agli occhi. Ci piomba addosso un disagio insostenibile nell’immaginsare la realtà, un deportato che -potendo – avrebbe sbranato fiori, erba, radici.

Non ci hanno disumanizzati

Eppure c’è un’abissale voragine che separa la vittima dal carnefice. Per quanto nel momento della sofferenza ci sia spazio solo per la scabra essenzialità di una vita ridotta all’osso, per le vittime questo terreno arido è un letargo in cui l’umanità assopita non avvizzisce.

Lo stesso non si può dire di chi pianifica il male a tavolino e lo traduce in un consapevole gesto di sterminio. L’umano sopravvive nel deserto della prova, ma scompare dal deserto di anime votate a una scelta consapevole di prevaricazione e tortura. L’ho detto in modo complicato. Ancora una volta la cifra della sintesi vince sulla dissertazione.

Lily, pensi che i Nazisti siano riusciti a disumanizzarti ad Auschwitz? – domanda un certo Jacob.

No. Ho detto ha me stessa che io avevo una dignità, loro no. Erano loro a non essere umani.

Piantare questa chiarezza nel regno esuberante e leggero di Tiktok è un bell’azzardo. Ma una certa parabola ci insegna che ci sono molti tipi di terreno in cui gettare i semi. E forse non abbiamo classificato troppo in fretta certe zone virtuali come campi di rovi, inadatti alla semina.

Se il frutto è questa cascata di domande spontanee, possiamo ricrederci ed esserne lieti. Come è emerso in altri casi il binomio ragazzi-social networks non è solo vizioso, ma può essere molto virtuoso. Challenge è la parola, a volte terribile, che associamo alle rete. Non esistono solo sfide di morte, o gesti estremi. Tutto sta nel renderli strumenti che innescano l’umanità di chi li usa, la partecipazione attiva, quel senso di empatia che ci appartiene ogni volta che una testimonianza viva c’interroga.

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