Don Vincent Nagle, Cappellano della Fondazione Maddalena Grassi, accompagna i malati nella fase finale della loro vita e racconta la sua esperienza. "Imparare a fare compagnia non è automatico. In cosa consiste? Come fare compagnia a una persona così?".
di don Vincent Nagle* (Cappellano della Fondazione Maddalena Grassi)
Milano, San Carlo alla Ca’ Granda, venerdì 16 marzo 2018
Lavoro per la fondazione Maddalena Grassi, non lavoro per la Chiesa, sono dipendente di una ditta privata però devo fare comunque il prete e come piace a me: in prima linea. La Fondazione Maddalena Grassi è una fondazione di cura sanitaria nata 26 anni fa da un gruppo di persone cristiane che lavoravano nel settore sanitario (medici, infermieri, amministratori, terapisti) che hanno pensato che attraverso l’esperienza cristiana forte che loro vivevano avevano un modo di fare medicina per cui trovavano poco spazio nelle strutture in cui erano già impegnati.
Volevano poter fare cura medica facendo compagnia al malato, invece che fare solo un lavoro, rispondere solo alla malattia, alla ferita, invece di andare a risolvere il problema volevano poter andare ad accompagnare la persona malata anche, soprattutto se vuoi, attraverso le loro competenze. Quindi hanno cominciato a fare una caritativa, un volontariato, in cui andavano verso le persone più vulnerabili, le persone più isolate, le persone più disperate, persone con malattie da cui non sarebbero guarite, persone gravemente malate che non avevano nessuna prospettiva medica di recupero. Hanno cominciato proprio nel momento in cui c’è stato l’apice del dramma dell’AIDS, una malattia del sistema immunitario, che colpisce soprattutto persone tossicodipendenti o prostitute o prostituti, cioè una popolazione diciamo fuori dal sistema della vita, senza una rete di amicizie, una rete di persone famigliari, senza una rete sociale capace di sostenerli e accompagnarli. Persone gravemente malate senza prospettiva di guarigione. È cominciata come una caritativa: poche persone che andavano verso poche persone per qualche ora alla settimana e adesso abbiamo quasi 260/280 dipendenti e abbiamo in cura 900 persone (oltre a un centinaio di altre persone, anche loro inguaribili, curate in un’altra struttura, sempre afferente a noi). Di queste persone, più di 800 sono a domicilio, in famiglia, in casa, tante sono le persone non accompagnate da famiglia o da compagni stretti, altri invece lo sono. Abbiamo diverse strutture, alcune in grado di accogliere persone in stato vegetativo permanente o di accogliere e accompagnare persone con gravi malattie psichiatriche, strutture che ospitano persone ad uno stadio molto avanzato dell’AIDS, abbiamo 3 hospice (struttura che accoglie persone che vanno verso la parte finale del loro percorso di malattia e di vita, dove ricevono le cure palliative).
Poco fa sono arrivato da una struttura, non nostra – dato che sono dentro questo campo tante persone mi chiamano, anche non della Maddalena Grassi, e cerco di dire sì quando è possibile – e sono andato a visitare una ragazza che non ha nessuna storia di fede o di Chiesa, praticamente nessuna storia di famiglia, ha 35 anni ed è stata messa in un hospice lunedì. E’ una persona che non accetta minimamente che si stia avvicinando alla morte però ha fatto una osservazione molto giusta: diceva che lì ti fanno stare bene, puoi mangiare quello che vuoi, non ti danno nessun menu dicendoti che è per la tua salute…no no, e io le ho detto “sì, chiaro, nell’ospedale stavano cercando di farti guarire e quindi, come si fa con chi è nel mezzo di una lotta, ti mettono sotto ogni tortura pur di avere l’esito, adesso nessuno vuole metterti sotto nessuna tortura, lato positivo” (lei ha tutte le intenzione di tornare a casa sua, vedremo, non credo). Però sono molto grato a Dio di avermela fatta incontrare, sono molto molto contento, c’è molta strada da fare per lei, però… E di questa strada ora vi vorrei parlare.
Quindi io lavoro così, lavoro con persone gravemente malate (e le loro famiglie), di malattie da cui non guariranno se non con un intervento diretto del soprannaturale, che non è escluso però non è previsto. Come ho detto, quasi tutti sono in casa. La questione è come avvicinarsi a persone in queste condizioni e come aiutarle e perché aiutare persone così, non è automatico, nessuna di queste domande ha una risposta automatica: perché avvicinarsi e come aiutarle.
Anni fa, quando ero prete negli Stati Uniti, per 10 anni ho fatto il cappellano in ospedale (quindi non sono nuovo a questo ambiente) e non so quanti preti nel corso di quei dieci anni in cui mi presentavo “io sono cappellano, lavoro in ospedale, ecc…”, quanti preti mi hanno detto seccamente: “meglio te che me, io non potrei mai fare quel lavoro lì. Meno male che hai detto di sì tu, io non potrei farlo”, e non dicevo niente ma anche io dicevo tra me e me: “…e nemmeno io!” a volte. E capivo perfettamente quello che loro volevano esprimere con grande franchezza, onestà e sincerità (tra l’altro anche davanti al grande compito di Parroco credo di dover dire “meglio te che me, Jacques” – [don Jacques: “confermo…”]. Capivo e capisco queste osservazioni perché non è automatico e non è una questione legata al dire “sono una persona buona – per quanto uno faccia finta di essere più o meno buona – sono una persona generosa, voglio aiutare l’altro, ho un sentimento di compassione e sento molto struggimento e pietà per chi soffre ‘o povero, povero…’ perché sono una persona buona, con dei buoni valori, buoni principi e perciò mi faccio vicino per aiutare qualcuno che è in queste condizioni”. Non funziona così, non c’è nulla di automatico in questo. Ci vuole un passo, un passo significativo. Qual è questo passo? Questo passo è imparare (e dico imparare, perché è una cosa che va imparata), imparare a fare compagnia. Imparare a fare compagnia, come ho già detto, non è automatico. In cosa consiste? Come fare compagnia a una persona così?
Come ho detto non è automatico: oggi avevo paura entrando nella stanza di questa donna. L’avevo vista un mese e mezzo fa, era ancora a casa, le avevo regalato una bellissima statua della Madonna che avevo comprato per parecchi soldi a Medjugorje. Sono entrato nella sua stanza oggi nell’hospice e ad un certo punto ho guardato e ho detto: “non hai portato la Madonna?” e lei “no, l’ho rotta, l’ho distrutta, l’ho buttata contro il muro e l’ho calpestata con i piedi. Ero così arrabbiata! È così ingiusto che io debba morire!”. Le ho detto che ha fatto benissimo, Lei ce la fa, è tosta la Madonna! E se devi prendertela con qualcuno, lei e suo figlio sono tosti, non aver paura, fallo pure! Cioè in altre parole… “non farlo con me per favore!”. Perché uno ha fifa!
Due o tre giorni fa mi hanno chiamato da una persona che ha un gravissimo male ai polmoni che lo fa respirare sempre di meno e soffoca ogni giorno di più, si sente sull’orlo della disperazione di ora in ora, morirà entro un anno più o meno e la tortura sarà incrementata ogni giorno e lui voleva capire perché non togliersi la vita adesso. Io avevo fifa, ho sempre fifa, non ho la risposta, non ho la soluzione, non ho la parola che scioglie il nodo (faccio riferimento alla preghiera che piace a Papa Francesco, che ama pregare la Madonna che scioglie i nodi, chi scioglie i nodi è lei ma io no…). Allora come avvicinarsi? Non è una cosa da dare per scontata.
Parlavo settimana scorsa ad una facoltà di medicina e c’erano trecento medici, metà studenti metà già in campo, il tema della mia lezione (ho parlato con loro per due ore) era: per voi che siete addestrati a risolvere problemi grossissimi, difficili, complicatissimi, per voi che siete educati, allenati ad avvicinarvi per risolvere problemi che nessun’altro può risolvere, per voi che sul campo del lavoro siete giudicati per poter o meno risolvere i problemi (i vostri datori di lavoro stanno misurando questo, non stanno misurando altro), che vantaggio ci potrebbe mai essere ad avvicinarvi alla persona anche quando non si è in grado di risolvere il problema? Che vantaggio ci potrebbe essere per te nel guardare oltre alla malattia, oltre alla ferita, oltre al problema e guardare negli occhi senza la pretesa di essere colui che scioglie i nodi a quella persona e vedere in modo nudo la sua angoscia, la sua paura e il suo dolore? Che vantaggio ci potrebbe mai essere per te? E quindi faccio a voi la stessa domanda. Perché avvicinarsi vuole assolutamente dire questo: guardare in faccia, senza risposta, senza obiezioni, lasciandosi aperto alla paura, all’angoscia, al dolore dell’altro. Come farlo e che vantaggio ci potrebbe mai essere per te? È una cosa tutt’altro che automatica. Anche uno con buonissime intenzioni, ottime intenzioni, uno di famiglia, di casa, amorosamente e profondamente legato fa fatica, molta fatica.
Ricordo una volta, quando ero cappellano in ospedale, c’era un uomo anziano che entrava e usciva dall’ospedale finché è morto, un uomo anziano, già in pensione che per cinquant’anni era stato il pastore protestante più importante di quella città (non ricordo più, forse di 75.000-100.000 abitanti), era una città piuttosto protestante e lui era stato fin dalla gioventù il punto di riferimento più importante della comunità protestante e perciò anche di tutta la città. Un uomo che ha vissuto una vita veramente valida. E io, come cappellano cattolico di questo ospedale, senza nessuna pretesa di fare alcun ministero nei suoi confronti (aveva tutti i pastori protestanti della città che lo avevano sott’occhio), passavo per rispetto, per presentarmi, per salutare, non di più e senza altra pretesa. Fra l’altro aveva attorno a lui la sua famiglia e questo è un altro segno che aveva vissuto una vita da uomo, aveva una famiglia splendida intorno a lui, persone belle, mature, generose, fedeli. Io entravo e mi avvicinavo a lui, perché è così che faccio, mi mettevo anche in ginocchio di fianco a lui perché era seduto su una sedia a rotelle e lo guardavo negli occhi. Lui, che soffriva, mi diceva i suoi lamenti, “nessuno mi capisce, io soffro, mi fa molto male, non riesco a respirare” (non so, non mi ricordo esattamente i lamenti) mi guardava in faccia mentre io gli prestavo attenzione, solo per portare rispetto per dire ecco io ci sono, ecco sono il prete ciao ciao. Lui comunque mi diceva queste cose, io lo ascoltavo e gli dicevo: “sì sì, vedo che stai soffrendo, vedo vedo, ci credo, mamma mia ci credo, oh davvero, capisco e se non capisco almeno ti credo, ti credo”. Facevo tre o quattro minuti al massimo così e poi uscivo “ciao, ciao”, non ero lì per fare chissà quale percorso con questa persona. Però ogni volta che facevo questo gesto notavo attorno a me nei famigliari – non so – una scossa, qualcosa non andava, una reazione forse non esplicita ma anche io, che sono la persona meno sensibile che ha mai camminato sulla faccia della terra, anche io percepivo qualcosa però… “non è un problema mio, io non c’entro, ciao ciao”.
Dopo la quarta volta che passavo di lì, una delle figlie è uscita, mi è venuta dietro e mi ha detto: “grazie, grazie!”, “ma no, grazie di niente, è dovere! Tuo papà è una persona molto rispettabile, tutto bene”, “no ma grazie! Non sai quanto ci hai fatto capire, quanto ci hai insegnato!”…”Insegnato…io sono passato di lì tre o quattro minuti” “no no, tu non hai capito” e ha cominciato a piangere, poi ha ripreso controllo di sé, io un po’ avevo il terrore di avere fatto uno sbaglio da qualche parte (ho sempre il terrore di queste cose, perché le conseguenze dei miei sbagli sono forti..) e lei ha detto “no perché, non so, prima quando lui faceva tutti questi lamenti, ci diceva quanto soffriva, quanta paura aveva, quanto era frustrato dall’incapacità dell’ospedale, dei medici e nostra di aiutarlo e noi dicevamo «dai papà, su, non essere drammatico, dai non è poi così tragico, dai su papà», ma tu vieni dentro e lo ascolti, lo ascolti e lasci che lui esprima il suo sgomento, la sua paura, la sua angoscia” e dopo questo ha cominciato a piangere veramente a dirotto con grandi singhiozzi e ha detto: “noi l’abbiamo lasciato tutto solo, perché ci rifiutavamo di fargli questa compagnia”.
E perché non guardare in faccia in modo nudo l’angoscia, la paura e il dolore dell’altro? Tra l’altro, per favore, diamo una definizione a questa parola “angoscia”, che per me è estremamente importante (se posso indicherei anche una piccola lettura Curarsi e curare un discorso dell’ex arcivescovo cardinale Angelo Scola del 2016 a Medicina e Persona in cui parla del dramma dell’angoscia, è una lettura, come sempre per quelle di Scola, non necessariamente facile che però ripaga). Cos’è l’angoscia? È la percezione articolata o meno della fine, della morte, della mortalità, dell’incapacità di stare sulla terra, dell’annullamento della mia esistenza terrena. L’angoscia è questa percezione – articolata in modo chiaro o comunque, anche se non articolata, percepita e sentita – senza una chiara visione di un buon destino, senza poter afferrare qualcosa per cui vale la pena accettare questo fatto. Questa è l’angoscia. E l’angoscia è uno di quei sentimenti che, quando ti prende, è insopportabile. L’angoscia umanamente non è sopportabile, è una posizione che, come quella fibrosi nel polmone di questo povero uomo, ti soffoca, hai bisogno di aria, fai qualunque cosa pur di allontanarla.
E qual è la difficoltà di guardare in faccia l’angoscia dell’altro? Il problema di guardare in faccia l’angoscia dell’altro è il fatto che subito ti richiama alla tua angoscia. Svela subito, mette a nudo, la tua angoscia. La maggior parte di noi è così brava a non pensarci, a sopprimere, a nascondere, a non guardare, a non pensarci come se questa angoscia non ci fosse. Questa angoscia è un mare e la nostra esistenza quotidiana è solo una piccola isola galleggiante sopra questo mare (di angoscia), di terrore della morte. È insopportabile e quindi l’avvicinarsi, il lasciarci colpire, guardare in faccia l’angoscia dell’altro senza poter risolvere il problema in nessun modo: come si può e perché sarebbe a mio vantaggio il farlo? Sono convinto che quando le persone si tolgono la vita è l’angoscia che non sopportano, non è il dolore né il limite di non poter camminare più, vedere più, fare le cose di una volta, non è neanche la solitudine in sé e per sé ma è l’angoscia a essere insopportabile.
Io che accompagno centinaia e centinaia di persone in situazioni gravi posso dire che c’è un fattore comune tra queste persone, anche per il famoso dj Fabo – ero io il suo prete anche se lui si è tolto la vita (cosa che per me è stata veramente orrenda, io ho sofferto molto per questa cosa, come i miei compagni di casa sanno, li ho messi in imbarazzo per 5 mesi. Ricordo una volta al Mc Donald’s….non riuscivo a non piangere, ho passato tutta la cena solo a piangere, è stato molto imbarazzante per me…). Tutte queste persone che seguiamo, anche lui, anche dj Fabo, esprimono un unico desiderio: vogliono vivere ma non sanno vivere così, non con questa angoscia e neanche noi che forse non abbiamo le stesse prove, forse anche noi non sappiamo vivere così.