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Il “populismo” di Bergoglio che spiega bene il suo agire politico

WEB3 CARDINAL JORGE MARIA BERGOGLIO BISHOP POPE FRANCIS MASS Casa Rosada CC

Casa Rosada | CC

Lucandrea Massaro - Nipoti di Maritain - pubblicato il 18/07/17

Prima di diventare Papa, l'arcivescovo di Buenos Aires dava alle stampe: “Noi come cittadini noi come popolo”

Papa Francesco è un populista. Bergoglio non credo si scandalizzerebbe di questa etichetta. C’è una visione “buona” di questo aggettivo nell’America Latina. Il prete cresciuto durante la dittatura e alla guida di una diocesi dove ricchezza e povertà erano separati da pochi isolati sa cosa vuol dire stare nel popolo, in mezzo ai loro bisogni, alle loro ansie, alle loro speranze. Come chiunque abbia ascoltato il pontefice senza pregiudizio, sa che il Papa fa il Papa e lo fa a tempo pieno: parla di riconciliazione, di pace, di fratellanza, di umiltà, di peccato e peccatori. Questo vale anche per la politica, una attività considerata da Paolo VI (forse il vero modello di questo pontificato) “la più alta forma di carità”. Questa vocazione al Bene Comune, centrale nella dottrina sociale della Chiesa ma spesso declinata genericamente, in Bergoglio è una vocazione alla polis, alla politica e alla cittadinanza anche se – non senza molte ragioni – con diffidenza rispetto alla vulgata liberale (e poi liberista). Il pamphlet di Jorge Mario Bergoglio“Noi come cittadini noi come popolo” (Jaca Book 2013) è forse l’ultimo (o uno degli ultimissimi) interventi organici del futuro Papa prima di arrivare a Roma, ed è profetico oltre a delineare una serie di problematiche oggettivamente simili tra la sua Argentina e la nostra Italia. In Bergoglio c’è il primato del popolo come soggetto storico, dalle venature mitiche che deve trovare spazio nella società senza doversi restringere alla mera accezione di cittadino nell’accezione liberal-borghese imperante. Per Bergoglio anzi la cittadinanza è un valore forte solo se declinata come personalismo, recuperando con intelligenza l’origine etimologica del termine: citatorium, cioè “il chiamato (al bene comune)”, pronto a prendere il suo posto nella società, ad assumere un munus, un obbligo, un incarico. Cioè nella dimensione relazionale esiste un popolo dentro una società, fatta di diritti ma soprattutto di obblighi di reciprocità, di solidarietà. In questa relazione è l’élites che deve non solo guidare, ma farsi prossima al popolo, non solleticandone gli istinti, ma comprendendone l’ethos profondo, la specificità e avendo cura degli interessi della patria.

La diagnosi del divorzio tra governanti e popolo, tra élite e popolo, figura nela maggior parte dei lavori di analisi sulla nostra evoluzione storica. Ma continuiamo a dimenticarla nonostante le ripetizioni. I governanti molte volte si formano in ambienti con visioni lontane dalle esigenze del popolo e a questa divaricazione culturale si è aggiunto il fattore economico, diventato il principale obiettivo delle classi dirigenti. […] Tanti potranno spiegarci quanto sia difficile governare un paesi in tempi di grandi cambiamenti e in un contesto globale nel quale molte decisioni sono fuori dalla portata dei nostri governanti. Ma, per quanto dipende da noi, dobbiamo smettere di puntare il dito su chi ci sta di fianco o dietro; perché ciò che abbiamo finito di lasciare – di fianco, dietro e in definitiva al di fuori di tutto – è un numero importante di nostri fratelli (pag 31)

Una élites che si sentisse estranea al popolo e alla nazione finirebbe per separarsi dal popolo o, come dice l’economista francese Jean Paul Fitoussi, “sono le élite che odiano i popoli. A tal punto da cambiare, o ignorare, le decisioni espresse dal popolo” (Linkiesta, 20 maggio). E’ partendo forse da questa inversione dei ruoli che il contributo del Papa risulta interessante. Se i mass media occidentali parlano esclusivamente di rabbia nei termini di “invidia sociale” (componente che sicuramente esiste) quando raccontano il populismo e non mettono mai a fuoco le responsabilità delle leadership economiche, politiche e culturali, è evidente che non uscirà mai dalla crisi della democrazia che stiamo vivendo in questi anni. Crisi che per Bergoglio è un problema, segno che la democrazia è definitivamente entrata nel dna della Chiesa, e che – forse – si tratta di trovare gli strumenti per incorporarla dentro di essa. Non a caso il Pontefice parla costantemente di discussione, di parlare con franchezza, parresia, dentro le chiese, e le assise dei prelati, la discussione e la disputa sono essenziali per qualunque processo democratico. L’elezione dei vescovi (o degli abati) in età antica e quella del Pontefice dal medio evo in avanti, assumono una connotati innovativi rispetto al periodo romano o a quello altomedievale incentrati sull’autocrazia. Ma è un discorso lungo, che tuttavia tiene insieme la necessità per la Chiesa di trovare un linguaggio (ben prima che uno statuto) utile all’evangelizzazione del XXI secolo. La cura d’anime e il benessere sociale non sono mai slegate nel pensiero cattolico, si è infelici tanto sotto il tiranno che nella dittatura del consumismo, in entrambi i casi la Chiesa stessa soffre assieme al proprio gregge sia della fame di cibo, che della sete di senso.

La realizzazione di un progetto di sviluppo integrale per tutti, che privilegi la lotta contro la disuguaglianza e la povertà, è un tema che è opportuno affrontare in tempi di celebrazioni centenarie [ricordiamo che i testi raccolti nel volumetto sono stati scritti in occasione dei 200 anni della fondazione dell’Argentina, NdA] […] La riuscita di una cultura dell’incontro che privilegi il dialogo come metodo, la ricerca condivisa di consensi, di accordi, di ciò che unisce invece di ciò che divide e contrappone, è un cammino che dobbiamo percorrere. Per questo dobbiamo privilegiare il tempo rispetto allo spazio, il tutto, rispetto alla parte, la realtà rispetto all’idea astratta e l’unità rispetto al conflitto (pag 73-74)

Per Bergoglio questa determinazione è incardinata nella volontà popolare, ed è il popolo che deve farsi soggetto storico, senza divisioni di classe, o di parte. In questo senso viene certamente in mente il cattolicesimo democratico e la sua eredità migliore. Il popolarismo inteso mai come partito o parte, ma come interprete del sentimento nazionale. Nei vecchi partiti democristiani europei (specialmente quello italiano e quello tedesco) questa sensibilità era centrale, i capi dei partiti non erano affatto divisi dal popolo, pur non avendo con essi la stessa dimensione materiale, ma avendo una cultura umanistica incentrata su di esso e da esso dipendente. Ecco un compito – la formazione del laicato pronto per la politica – che la Chiesa italiana (per restare al nostro caso) deve prendersi in carico di fare in questo abbozzo di “Terza Repubblica” che si aprirà da qui a nove mesi. Quanto (e in cosa) simile alla Prima dipenderà dalle scelte di tutti i soggetti, Chiesa compresa. Iniziare a far circolare questo testo, potrebbe essere un primo passo.

QUI L’ORIGINALE

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