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Cosa intende il Papa quando parla di digiunare «dalle cattive abitudini»?

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Maria Sbytova/ Shutterstock.com

Toscana Oggi - pubblicato il 03/04/17

Ho sentito che il Papa ha invitato i giovani a digiunare, in Quaresima, «non solo dai pasti, ma soprattutto dalle cattive abitudini». Mi sembra un modo molto interessante di vivere oggi il digiuno: ci sono tante cose alle quali ci farebbe bene (non solo ai giovani) rinunciare, dai telefonini, a internet, alla tv… La Quaresima potrebbe essere il momento per imparare a usare meglio, senza sprecarlo, un bene che oggi è prezioso quanto il cibo?

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Risponde don Gianni Cioli, docente di Teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia centrale

Le considerazioni del lettore sono del tutto condivisibili. La Quaresima, come ci suggerisce il Papa, potrebbe essere l’occasione per diventare più liberi da tante dipendenze che ci condizionano negativamente. Inoltre, sì – come aggiunge, se ben ho capito, il nostro lettore – potrebbe essere di conseguenza «il momento per imparare a usare meglio» il tempo, «un bene che oggi è prezioso quanto il cibo».

Queste considerazioni non devono però condurci in alcun modo a perdere di vista l’importanza del digiuno dai pasti come è stato concepito dalla tradizione della Chiesa e che viene richiesto ai cristiani in particolare in occasione del mercoledì delle ceneri e del venerdì santo.

A questo proposito vorrei proporre alcune considerazioni a partire dal noto passo del Vangelo di Matteo dedicato al digiuno: «Allora gli si avvicinarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: “Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?”. E Gesù disse loro: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno”» (Mt 9,14-15).

In questo brano emerge che il digiuno cristiano ha significato come segno di una mancanza e quindi di un desiderio. Il bisogno di fare digiuno è il segno della mancanza dello Sposo.

I discepoli hanno fatto drammaticamente l’esperienza di questa mancanza quando Gesù è stato arrestato e ucciso sulla croce. Il digiuno cristiano è innanzitutto memoria di questo.

Certo, dopo la risurrezione egli ha detto loro «io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Ma egli è presente e assente al contempo. Proprio quando i discepoli di Emmaus riconoscono Gesù mentre spezza il pane egli sparisce dalla loro vista (cf. Lc 24,31).

Anche noi, come i discepoli dopo l’Ascensione, abbiamo la compagnia del Signore. Pur non potendo godere della sua presenza fisica, abbiamo la sua parola, abbiamo l’eucaristia che è la sua presenza reale, abbiamo lo Spirito Santo. Tutte queste realtà sono sufficientemente forti da farci stare uniti al Signore e al tempo stesso possono essere abbastanza deboli da permetterci di sentirci lontani o di rimanere lontani da lui. La felicità umana perfetta sarà vedere il Signore faccia a faccia, ma finché viviamo su questa terra lo percepiamo soltanto in maniera velata. Il digiuno allora è distaccarsi dalle cose per ricordare e desiderare il Signore più intensamente. In questo desiderio intenso c’è già un’anticipazione reale dell’incontro con lui. Questo forse è il significato profondo del digiuno in preparazione alla comunione che, a mio avviso, andrebbe riscoperto.

Questo aspetto del digiuno cristiano lo chiamerei «digiuno come preghiera». Esso mira a produrre nella persona un vuoto che l’aiuti a percepire la nostalgia del Signore e la disponga a lasciarsi riempire da lui.

Un altro aspetto che la tradizione cristiana ha sempre considerato è quello del digiuno come carità verso il prossimo: il sapersi privare di qualcosa di nostro per essere concretamente solidali con chi è nel bisogno. Anche questo per il cristiano è un modo per cercare e per ritrovare il Signore. Infatti, come sappiamo, il Signore si è identificato con i poveri (Cf. Mt 25,31-46).

C’è ancora un altro aspetto, collegato ai precedenti, ed è quello del digiuno come penitenza, cioè come memoria della morte del Signore per i nostri peccati e come volontaria presa di distanza dal peccato attraverso la temporanea rinuncia a un bene essenziale qual è il cibo. Il peccato in effetti ci separa dal Signore; ci toglie lo Sposo. Se spesso sentiamo il Signore tanto lontano, nonostante che egli abbia promesso di essere sempre con noi, è perché forse ci siamo allontanati da lui. Se è vero che la felicità perfetta non esiste su questa terra è vero però anche che il peccato esaspera la nostra infelicità. In fondo il peccato è la ricerca disperata della felicità là dove non la si può trovare.

Rinunciare temporaneamente alla gioia del cibo, che è un bene fondamentale, ci aiuta a considerare la fondamentale ambiguità di ogni bene materiale e a ricordare che solo nel Signore possiamo trovare la felicità vera e definitiva: «non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4; cf. Dt 8,3).

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