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Quale uso del denaro?

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PATRICIA DE MELO MOREIRA

Finesettimana.org - pubblicato il 11/07/16

intervista al gesuita Etienne Perrot

di Jean-Marc Salvanès*

Prima di indagare sulla conoscenza e sulla comprensione della filantropia in Francia, abbiamo chiesto a Etienne Perrot di farci conoscere il suo punto di vista teologico e spirituale sulla ricchezza e sul suo uso. Qualcosa di più complesso, ma anche di più esigente di quanto non appaia a prima vista.

A che cosa serve la ricchezza nella tradizione della Dottrina Sociale della Chiesa?

Nella Dottrina Sociale della Chiesa, la ricchezza è destinata al bene comune, cioè alla partecipazione di tutti al bene di ciascuno. Ciascuno non è mai concepito in maniera individualistica, ma è necessariamente una persona, cioè un essere in relazione non solo interindividuale, ma anche in relazione con la collettività di cui fa parte. Per cui abbiamo, accanto alla giustizia commutativa (inter-individuale) e alla giustizia distributiva (quella che la Direzione collettiva deve a ognuno dei membri), anche la giustizia detta “legale” che comprende tutti i doveri di ciascuno verso la collettività di cui fa parte (pagare le tasse, “consigliare il principe” – oggi si direbbe votare, difendere la patria, insomma tutti i doveri civici).

E la ricchezza individuale?

L’idea di ricchezza individuale non appartiene né al vocabolario né al pensiero della Dottrina Sociale della Chiesa. Ogni appropriazione personale è gravata da un’ipoteca sociale. La proprietà privata (“anche dei mezzi di produzione” precisa Mater et Magistra di Giovanni XXIII) è un diritto naturale (cioè che non dipende dalla legislazione umana). Ma si tratta sempre, nella Dottrina Sociale della Chiesa, della natura sociale dell’essere umano (e non della concezione liberale trascritta nel Codice Napoleonico, che fa dell’individuo un piccolo sovrano senza conti da rendere).

In questo contesto, di che cosa è segno il denaro?

Il denaro è sempre il segno del lavoro; ma nelle società monetarizzate, il lavoro è valutato dal mercato; cosa contestata dalla Dottrina Sociale della Chiesa – contrariamente all’interpretazione tendenziosa che ne fa Frederick Hayek. Hayek interpreta erroneamente la nozione cattolica di “valutazione comune” come se si trattasse della valutazione da parte del mercato. Questo punto è fortemente sottolineato fin dalla prima enciclica sociale, Rerum Novarum nel 1891. Che si tratti di giusto prezzo o di giusto salario, la tradizione cattolica si riferisce alla “valutazione comune”, cioè alla valutazione da parte della comunità e nella comunità. Ora, lo specifico di una comunità è che ciascuno vi è ammesso con le sue qualità e i suoi bisogni – anche familiari; e vi contribuisce anche con le sue capacità. Non si tratta quindi della valutazione da parte del mercato che è solo un mezzo per rivelare le rarità e ciò che coloro che hanno denaro sono disposti a pagare. Per di più, quando il mercato è concorrenziale, funziona a favore dell’esclusione, cioè all’opposto dell’inclusione propria ad ogni comunità.

Ma allora, arricchirsi è un obiettivo lodevole?

Arricchirsi per chi? Per che cosa? Per quando? Sono necessarie tutte queste motivazioni per un giusto uso del denaro. Per essere degno dell’essere umano, l’arricchimento deve essere un obiettivo che abbia senso; cioè che sia in armonia con i valori, i sentimenti e l’immaginario di colui o colei che lo usa.

Il fatto di poter contribuire più di altri al bene comune, dà dei diritti o dei vantaggi? E inversamente, il fatto di contribuire solo in maniera molto modesta diminuisce i diritti? Perché?

Ognuno contribuisce al bene comune secondo la sua situazione, le sue capacità e i suoi mezzi, anche monetari. Contribuire di più al bene comune dà solo il diritto dato a ciascuno di ottenere i mezzi per servire al meglio (più efficacemente, perché l’efficacia non è moralmente facoltativa). Non si potrebbe parlare veramente di “vantaggi”, perché ognuno deve poter trovare nel suo contributo al bene comune la piena realizzazione a cui aspira – fermo restando che questa realizzazione è specifica di ciascuno e non può essere paragonata, in quanto ognuno è un essere singolare su un itinerario particolare.

L’espressione secondo la quale si è sempre solo “usufruttuari dei propri beni” le sembra descrivere bene la relazione che si è invitati ad avere con il denaro?

La nozione di usufrutto è lacunosa; essa connota una sorta di rendita senza contropartita. Mi sembra che una formulazione migliore sia quella di Calvino: “Que chacun pense qu’il est le dépensier de Dieu dans tout ce qu’il possède” (“Che ognuno pensi di essere l’amministratore di Dio in tutto ciò che possiede”). Nel XVI secolo, “le dépensier” era l ‘intendente incaricato di far fruttare la proprietà del Proprietario nello spirito voluto dal proprietario. Il vantaggio di questa formulazione è che essa indica il senso: dirige ogni avere verso il bene comune, che consiste nel far in modo che ognuno possa contribuire al meglio, secondo le proprie qualità, alla realizzazione di tutti gli altri (e non semplicemente della maggioranza, ma di tutti gli altri, cioè di coloro che sono ai margini, gli emarginati della società).

Quale consiglio dà a coloro che riflettono sull’uso del loro denaro?

Di sottomettere il potere del denaro all’autorità della coscienza. Per questo, rispondere a tre domande: 1) precisare l’obiettivo (che è portatore di senso per me e per tutti coloro che subiranno le conseguenze del mio gesto); 2) adeguare i mezzi in maniera proporzionata (lo spreco è non solo controproducente ma moralmente ingiustificabile); 3) condividere i rischi con il collettivo di cui si fa parte (la famiglia, l’impresa, l’associazione, il paese).

Quindi non c’è né un buon uso né un cattivo uso del denaro?

No, nella misura in cui le decisioni, di spesa come di acquisizione, sono considerate secondo il criterio di ciò che sembra giusto: per chi? per quando? Chi ne sopporterà il costo, le conseguenze, la dipendenza? Non c’è alcun uso particolare della ricchezza personale da privilegiare. Il primato della coscienza personale (ponderata e illuminata) è stato posto molto esplicitamente da san Tommaso d’Aquino nella sua Summa teologica (prima parte della Seconda Parte, questione 19, articolo 5).

Pagare delle tasse elevate dispensa dal donare?

Nella tradizione musulmana, la decima comprendeva tutte le tasse. Nella tradizione ebraica, il dono deve essere almeno uguale alla decima (10% del guadagno) ma, secondo il rabbino Riveline, inferiore al 20% (perché la ricchezza è una responsabilità di cui non dobbiamo sbarazzarci con il pretesto di povertà volontaria). Nella tradizione cattolica sensibile nei confronti di coloro che sono ai margini estremi, le tasse non possono giustificare l’assenza di dono. (Infatti l’Amministrazione funziona secondo categorie che necessariamente non tengono conto delle situazioni singolari di ciascuno).

Bisogna intendere che il ricco, una volta assolti i suoi obblighi verso la società, non deve rendere conto a nessuno dell’uso della sua ricchezza?

La domanda è mal formulata. Messa così, bisogna rispondere di no. Perché render conto alla società significa considerare solo una dimensione della persona umana. Sarebbe come ridurre ogni giustizia alla giustizia legale. Ma la persona umana è anche in relazione con il prossimo – colui a cui è vicino o a cui si fa vicino. Questa relazione con il prossimo è espressa da ciò che la Dottrina Sociale della Chiesa ha spesso sottolineato con il nome di “corpi intermediari” (la famiglia, i sindacati, le associazioni). Siamo lontani dalla filosofia liberale che lascia l’individuo solo di fronte allo Stato (foss’anche lo Stato previdenziale).

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Étienne Perrot, economista, specialista dei fenomeni di rendita e dei fenomeni di corruzione, gesuita. Ultime opere pubblicate: Le discernement managérial (DDB 2013), Exercices spirituels pour managers (DDB 2014) tradotto: “Esercizi spirituali per manager”, (Castelvecchi, 2016)

*articolo originale su temoignagechretien.fr del 9 luglio

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