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L’utero in affitto? Non è un lavoro come gli altri

indian surrogate mother

(c) indiansurrogatemothers.com

Lucandrea Massaro - Aleteia - pubblicato il 02/11/15

Diversi saggi analizzano il fenomeno, mentre le femministe francesi dicono no alla "gpa" in nome della dignità delle donne

Un nuovo e interessante lavoro scientifico è stato pubblicato sul tema della maternità surrogata e dell’utero in affitto in paesi poveri come l’India, dove le donne possono guadagnare in meno di un anno quanto i mariti non riescono a portare a casa in decenni. A riportare la notizia è Avvenire (31 ottobre) a firma di Assuntina Morresi, che illustra l’interessantissimo libro di Amrita Pande, docente di Sociologia presso l’Università di Città del Capo (Sudafrica). L’espressione originale – “Wombs in labor”, (Columbia University Press, 252 pagine) –, con l’uso della parola labor intesa sia come lavoro che come travaglio del parto, racchiude in sé il succo dell’opera: uno studio del fenomeno dell’utero in affitto, visto con gli occhi delle donne che diventano madri surrogate, e che lo vivono come lavoro.

Questo testo nasce dall’indagine svolta in India dalla Pande fra il 2006 e il 2011, quando intervistò 52 madri surrogate, mariti e parenti, 12 coppie committenti, tre dottori, tre intermediarie che reclutano donne per la surroga, tre direttrici di ostelli dove vivono le donne incinte, e diverse infermiere.

Un libro che racconta di un mondo essenzialmente al femminile, dove si spiega come le donne, per lo più povere e analfabete, vengano “addestrate” al fine di mettere il proprio corpo a disposizione di ricche coppie – in larga maggioranza occidentali – sia etero che gay, allo scopo di fare figli, gli stessi figli che la povertà e una propaganda ossessiva da parte del governo scoraggia dal fare perché la povertà stessa è l’unica dote che un bambino può portare.

«Più bambini hai, più diventi povera, non lo capisci? Ma adesso vale il rovescio. Vedi, sono alla quarta gravidanza (la prima surrogata dopo tre figli propri, ndr) e questo farà felice tutta la mia famiglia», dice Varsha, una delle intervistate. E Rita: «Mia madre convinceva le donne del suo villaggio a sterilizzarsi, o a usare altre forme di contraccettivi (a lungo termine, ndr). Lei accompagnava in città, per operarsi, le donne povere del villaggio. Ma ora che le ingaggia per la surroga passa molto più tempo a portarle alla clinica della signora. Adesso le cose sono diverse. Le madri del nostro tempo possono fare buon uso dei nostri corpi e delle nostre gravidanze. Possiamo guadagnare molto facendo bambini».

Esse comprendono bene di essere pagate per mettere a disposizione il proprio apparato riproduttivo,

e percepiscono nettamente la gravità dello sfruttamento commerciale del proprio corpo, anche quando le famiglie condividono le loro scelte. Ma l’estraneità degli uomini viene vissuta anche come una rivalsa nei confronti di un mondo patriarcale che vede e tratta le donne in secolare subalternità, confinandole nei lavori domestici o in quelli più umili e mal pagati.

Come viene spiegato dall’articolo:

La ‘buona surrogata’ non è semplicemente una donna così disperata economicamente da firmare un contratto di gravidanza conto terzi, ma una figura costruita in un lungo percorso di formazione. La surrogata perfetta deve essere «poco costosa, docile, altruista, e in grado di nutrire», e per questo risultato hanno un ruolo fondamentale le mediatrici, le direttrici degli ostelli e le ostetriche, principalmente durante e mediante la lunga convivenza delle madri surrogate negli ostelli, durante i mesi di gravidanza, perché ognuna deve imparare a sentirsi sia una donna lavoratrice che una madre che si riproduce.

L’unico dottore uomo intervistato spiega serenamente:

«Nelle donatrici di ovociti consideriamo l’età della donna, la sua intelligenza, il suo aspetto, l’educazione, la famiglia di provenienza…. Per le surrogate noi siamo invece interessati alle caratteristiche dell’utero. Noi rassicuriamo le surrogate, spiegando che non hanno alcuna relazione genetica con il bambino, ma che loro sono solo uteri. Dobbiamo fare loro lunghe consulenze prima che siano pronte a essere surrogate. Ed è proprio per questa consulenza che poi non abbiamo problemi con surrogate che non vogliono consegnare il bambino. Le nostre surrogate non sono come quelle americane, che fanno finta di affezionarsi per prendersi qualche dollaro in più. Questa è una delle ragioni principali per cui abbiamo così tanti clienti internazionali».

Convinte di essere solo uteri, da non chiedere più niente. In fondo, cosa ha da chiedere per sé, un utero?

Il discorso della Pande trova conferme in altri lavori scientifici, come quello di Melinda Cooper e Catherin Waldby Biolavoro globale” edito in italiano da Derive Approdi. Una esperta di biopolitica l’altra sociologa, hanno esplorato le caratteristiche e le condizioni di quello che appare sempre più e più chiaramente come un nuovo ambito del capitalismo, quello che coinvolge gli uteri in affitto: un mercato sempre più florido nel mondo. L’analisi di Cooper e Waldby invece di esplorare la condizione e l’universo mentale ed emozionale delle donne sfruttate, getta uno sguardo altrettanto lucido e rivelatore sull’aspetto “lavoristico” ed economico di questa nuova avventura industriale che è la medicina procreativa. Come tutti i mercati, esso è regolato dalle leggi della concorrenza e della estrazione di valore dal lavoro degli individui, da parte di strutture aziendali organizzate. Se non fosse che l’ambito lavorativo che è qui in questione mostra caratteristiche decisamente sui generis: si tratta infatti del”lavoro del travaglio”, o “lavoro riproduttivo” come scrivono Cooper e Waldby. La legge del profitto impone di massimizzare il guadagno attraverso il risparmio sui costi fissi, che in questo caso sono i corpi: così, gli uteri disponibili ad essere affittati finiscono per essere quelli delle donne delle fasce sociali più svantaggiate, o provenienti da Paesi in via di sviluppo. Ma logiche e pratiche analoghe si possono riscontrare nel sistema delle banche del seme, o in quello delle cellule staminali. Le nuove tecnologie, infatti, hanno portato la medicina riproduttiva e rigenerativa a diventare un settore di sviluppo industriale fondamentale al capitalismo. Il punto di vista, in questo caso, è quello marxista, ma in questo caso esso suggerisce che lo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo” ha raggiunto nuove vette nella postmodernità. E’ importante che analisi critiche arrivino anche “da sinistra” e – sebbene non sempre arrivino alle stesse conclusioni – esse permettono di avere una più approfondita comprensione dei nuovi fenomeni che stanno cambiando tutta l’etica occidentale così come l’abbiamo conosciuta.

Un discorso da sinistra che viene sostenuto con grande forza da intellettuali come Sylviane Agacinski, una delle femministe più celebri di Francia. Saggista di spicco, ha fondato il Collegio internazionale di filosofia con Jacques Derrida, insegnando poi a lungo all’Ecole des hautes études en sciences sociales. Intervistata da Avvenirelo scorso 29 ottobre da Daniele Zappalà, spiega come il prossimo 2 febbraio si incontreranno per l’Assise per Abolizione universale della maternità surrogata («Assises pour l’Abolition universelle de la Gpa», ndr). Vi parteciperanno ricercatori, parlamentari francesi ed europei e associazioni femministe.

Secondo lei, quali sono i principali rischi legati a questa pratica?
Non abbiamo a che fare con gesti individuali motivati dall’altruismo, ma con un mercato procreativo globalizzato nel quale i ventri sono affittati. È stupefacente, e contrario ai diritti della persona e al rispetto del suo corpo, il fatto che si osi trattare una donna come un mezzo di produzione di bambini. Per di più, l’uso delle donne come madri surrogate poggia su relazioni economiche sempre diseguali: i clienti, che appartengono alle classi sociali più agiate e ai Paesi più ricchi, comprano i servizi delle popolazioni più povere su un mercato neo-colonialista. Inoltre, ordinare un bambino e saldarne il prezzo alla nascita significa trattarlo come un prodotto fabbricato e non come una persona umana. Ma si tratta giuridicamente di una persona e non di una cosa.

Secondo la Agacinski spiega con fermezza che:

La Corte europea dei diritti dell’uomo tenta di forzare la Francia a trascrivere lo stato civile accertato all’estero in nome di un presunto interesse del bambino. Ma se gli Stati europei cedessero su questo punto incoraggerebbero cinicamente i propri cittadini a viaggiare per far uso di donne all’estero. Legittimerebbero la pratica, e in tal modo la loro legislazione nazionale non resisterebbe a lungo.

Al punto di arrivare a punire le persone coinvolte:

Sì, occorre punire. Innanzitutto i professionisti che creano il mercato: avvocati, medici, agenti e intermediari. Poi, i clienti.

Il mondo femminista europeo sul tema non sta zitto, salvo forse in Italia dove però qualcosa si muove, pur tra molte controversie e diversi punti non condivisibili.

Nel frattempo in questi giorni la notizia, positiva, di una decisione del governo indiano che intende escludere le coppie straniere dalla maternità surrogata. “un settore – spiega il dispaccio dell’Ansa – che è in piena espansione nel Paese asiatico grazie ai bassi costi. In un ‘affidavit‘ presentato alla Corte Suprema, ha detto che ‘non appoggia la maternità surrogata a fini commerciali’ e che la pratica ‘deve essere limitata a coppie indiane sposate con problemi di fertilità e non agli stranieri'” (29 ottobre).

Ora però serve una moratoria internazionale di questa pratica. L’utero in affitto non è una conquista di civiltà, bensì barbarie.

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