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Sentite montare la rabbia? Passatela al crogiolo della santità

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Edifa - pubblicato il 02/12/20
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Se la reprimete, esploderà, se non la incanalate, si trasformerà in odio. Ma se mettete la rabbia sotto la protezione di Dio, diventerà una forza al servizio della vita e della giustiziadi Antoine Pasquier

Che cosa abbiamo fatto al Buon Dio per meritarci questo? Ormai non c’è un cartellone pubblicitario, un libro, una scuola che non offra sessioni di meditazione e yoga per “incanalare” la rabbia e rendere la nostra vita tranquilla come un encefalogramma piatto. “Incrociate le gambe, fate un respiro profondo, pensate a voi stessi come a un piccolo fiore… Ma, caspita, ci lasceranno far montare il sangue alla testa se ci va, di “andare su tutte le furie”, e “uscire fuori dai gangheri”?

Iniziamo questo articolo sulla rabbia con un grande e vibrante “basta”: l’Occidente non ha aspettato che l’Asia, con navi da carico piene, esportasse le sue tecniche Zen per imparare a capire e gestire la nostra collera. Seneca, Aristotele, Plutarco, Cicerone, Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino, Montaigne… Tutti loro hanno dissertato, discusso, detestato, tanto quanto hanno difeso, questa passione. L’hanno anche dissezionata, nel senso letterale del termine.

Gli antichi credevano che la rabbia risiedesse nel profondo delle nostre viscere, tra il fegato e l’intestino. La collera viene dal latino ira (ire), il cui omonimo hira significa viscere, budella, interiora. Chi non ha mai sentito questo improvviso e acuto ardore interiore prenderlo nelle viscere, rovesciarli lo stomaco e sgorgare impetuosamente dalla bocca? “È viscerale”, si dice. Sì, davvero, la collera è il grido delle nostre viscere. Non c’è da stupirsi quindi che ci sia solo una elle di differenza tra collera e colera, letteralmente “vomitare la sua bile”. L’arrabbiato e il bilioso sono la stessa persona. “Mi fai salire la bile!”, si diceva una volta. L’analogia con il liquido giallo-verde amaro prodotto dal nostro fegato e conservato nella nostra cistifellea è molto istruttiva se ci prendiamo la briga di aprire un buon vecchio libro di biologia. Nel nostro corpo, la bile ha una doppia funzione: evacua i nostri scarti e funge da detersivo nello stomaco. Insomma, ci pulisce da cima a fondo, meglio di una idropulitrice, come la nostra rabbia.


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L’effetto pentola a pressione

Non è difficile da identificare, bastano due minuti; questo è il tempo massimo di cui avrete bisogno per ricordarvi l’ultima volta che “il sangue ci è montato alla testa” a voi come ad altri. La nostra rabbia raramente passa inosservata, ha bisogno di mostrarsi, nel vero senso del termine, per esistere, altrimenti sarebbe inutile. La gioia, la paura, la tristezza possono essere interiori, impercettibili. La rabbia non lo è, anche quando è dentro, prima o poi esce: è l’effetto pentola a pressione.

Il suo marchio di fabbrica è quello di ferire lo spirito. Chi non ricorda un nonno arrabbiato che rimette delle anime piagnucolose al loro posto? O quel collega che “ha visto rosso” in mezzo a un open space? I muri stanno ancora tremando… I nostri “cari angioletti” sono specializzati in questo genere di cose. È risaputo, i bambini amano l’ira. Hanno sempre a portata di mano una buona ragione per fare baccano: la mattina, prima di andare a scuola, la sera, prima di andare a dormire, in chiesa la domenica quando tutti fanno silenzio…

Questa espressione della rabbia è necessaria, è uno sfogo per i nostri stati d’animo, le nostre frustrazioni, i nostri desideri, le nostre delusioni… Insomma, tutti noi abbiamo bisogno di “svuotare il sacco”… di bile! “Permette a ciascuno di noi di definire i propri limiti e la propria identità. Dice “no” a ciò che non ci va bene, spiega la psicoterapeuta Isabelle Filliozat. È la fonte della fiducia in sé stessi”.

Inseparabile dalla ragione

Non tutte nostre arrabbiature sono buone. Non dobbiamo confondere con la rabbia spinta dalla necessità di rimediare a un’ingiustizia, con un impeto d’ira, che è una reazione emotiva violenta e senza ragione valida. Aristotele fu uno dei primi ad individuare i criteri per una giusta rabbia. “Non è la rabbia in sé che è morale o immorale, ma l’uso che se ne fa”, afferma. La rabbia è inseparabile dalla ragione, senza di essa, questa passione impazzirebbe, e anche noi. San Gregorio insiste su questo punto: “Non deve mai deviare dalla ragione, e deve seguirla come uno schiavo sempre pronto ad obbedire”. San Tommaso d’Aquino non dice altro: “È lodevole arrabbiarsi secondo ragione.”

Un esercizio molto difficile, continua Aristotele, l’obbiettivo perciò consiste nel valutare le condizioni in cui la collera pretende esercitarsi. “Sta alla persona giudicarne l’adeguatezza, l’intensità, la frequenza; decidere se, per esempio, ci si arrabbia al momento giusto, per validi motivi, contro persone che lo meritano, per fini e in circostanze convenienti.” Quando sappiamo che ci vogliono “dodici millesimi di secondo per reagire emotivamente” e “il doppio del tempo per valutare la situazione da un punto di vista razionale”, il margine di tempo per arginare la nostra rabbia è considerevole…

Anche se fosse per una giusta causa, la nostra ira sarebbe comunque colpevole se cadesse in una o nell’altra di queste due insidie: l’eccesso e il lassismo. Eccessiva, la nostra rabbia è viziata se provoca litigi, indignazione, se la si cerca per attirare l’attenzione su sé stessi, se porta alla bestemmia o alla contumelia (parola o azione volta a colpire l’autostima di una persona). È in questo senso che è considerata come uno dei sette peccati capitali. Al contrario, “chi non si arrabbia, quando è necessario, pecca, afferma San Giovanni Crisostomo. Perché la pazienza, se è irragionevole, semina il vizio, favorisce la negligenza e invita al male non solo i malvagi, ma anche i bravi”.

Quando la collera diventa un servizio a sé stessi e agli altri

La nostra ragione non sarà sempre sufficiente per dominare la nostra irascibilità. La nostra rabbia dovrà anche essere passata attraverso il fuoco dello Spirito e della fede per essere liberata dalle sue impurità. Questo è ciò che la pensatrice protestante Lytta Basset chiama la santa rabbia. “La santa rabbia è una sana rabbia”, spiega nel suo libro Santa collera, cioè il giusto combattimento per la vita altrui e per la nostra.

Può essere, per esempio, dire: “Mi rifiuto” in una determinata circostanza; oppure mantenere una scelta o un progetto considerato giusto e necessario per il bene comune. Orientata verso la giustizia, questa san(t)a rabbia “fa accedere l’essere umano al suo nucleo duro, a quel seme indistruttibile della Vita che è dentro di lui: qualcosa che resiste nella sua profondità, e questo qualcosa è in relazione con il Dio santo”. L’ira diventa un servizio per sé stessi e per gli altri, non una sevizia.

Ma questa conversione della rabbia, potenzialmente distruttiva, in questa forza vitale, è possibile solo se accettiamo di abbandonarci, e la nostra collera con essa, nelle mani del nostro Creatore, e di rinunciare a qualsiasi desiderio di vendetta. “La santa rabbia non è l’appropriazione dell’ira di Dio che ci fa credere che abbiamo una missione divina verso gli altri”, avverte Lytta Basset. Inoltre, è inconcepibile confondere la nostra collera a quella del Giudizio Universale, il Dies irae o giorno dell’ira, quando Dio renderà la Sua giustizia.

Il confronto, piuttosto che l’indifferenza

“Dio non è turbato da nessuna passione, ci dice sant’Agostino. L’ira di Dio non è per Lui un turbamento dell’anima, ma il giudizio che infligge una punizione al peccato”. Una santa ira è un’ira che è stata depositata in Colui che non rinuncia mai a che la giustizia sia resa…. Se ha rinunciato ad appropriarsi dell’ira di Dio, è perché ha acconsentito di passare la spada: sarà il Signore a giudicare il Suo popolo.” Non noi. San Paolo ci incoraggia: “Non giudicate voi stessi, ma lasciate che l’ira di Dio operi. Poiché la Scrittura dice: ‘Sono Io che rendo giustizia e renderò ad ogni uomo ciò che gli è dovuto, dice il Signore'” (Romani 12, 19).

Passare al crogiolo della santità la propria rabbia significa anche rifiutarsi di rompere il rapporto con gli altri, è preferire il confronto all’indifferenza. “Se mi arrabbio con mio fratello, è perché credo un minimo nella sua umanità, cioè nella sua capacità di camminare”, scrive Lytta Basset. Questo legame che si mantiene, anche nella tempesta, è l’unico che porta al perdono. “Che il sole non tramonti sulla tua rabbia”, scrive San Paolo (Ef 4, 26). Piuttosto che una tecnica per tornare alla calma, la nostra epoca farebbe meglio ad insegnare un’etica, quella della mansuetudine, vero “moderatore” della nostra rabbia.

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