Ci sono personaggi nella storia che hanno manifestato così tanto “lo spirito” (foggiando quello del tempo e incarnando Quello eterno) da scoraggiare in partenza ogni pretesa di raccogliere, riepilogare, ricapitolare, compendiare la loro vita.
Tre ragioni dell’irriducibilità di Benedetto XVI a schemi dogmatici e/o storici
Benedetto XVI è stato certamente tra costoro, e a così alto livello che rischierebbe di risultare difettivo anche un semplice elenco puntato che mirasse a contenere le ragioni di questa estrema difficoltà di sintesi. Se dovessimo arrischiarci all’impudenza di una terna di queste motivazioni, scriveremmo forse questo:
- È nato e cresciuto nel paese che, lui giovanissimo, ha manifestato uno dei volti più oscuri di quello che il suo (e nostro) amato De Lubac avrebbe detto “umanesimo ateo”, e per questa ragione si è ritrovato fin dalla culla sul crinale della Storia.
- Pochissimi decenni dopo si è trovato a vivere da protagonista, benché non fosse ancora insignito dell’ordine sacro nel grado dell’episcopato, l’evento ecclesiale maggiore non solo del XX secolo, ma dell’intera epoca post-tridentina (scavalcando per importanza lo stesso Vaticano I).
- Con l’ultimo, sublime, atto di governo – la renuntiatio – ha riavviato dinamiche quasi dimenticate e i cui esiti sono ancora largamente immersi nella nebbia dell’avvenire.
Il primato paolino-petrino
In questo primo momento di distacco non vorremmo attardarci in considerazioni storiche o teologiche, ma – soprattutto a partire dall'ultimo dei tre punti elencati – ci piacerebbe ragionare di una questione estremamente pratica che si impone inderogabile al presente, ovvero quella dei funerali (che si terranno in Vaticano giovedì 5 gennaio 2023 alle 9:30 – presieduti da papa Francesco [aggiornamento]). Facciamo un passo indietro. Lasciava il ministero petrino per l’indebolirsi delle proprie energie personali, ma proprio per questo Benedetto XVI ci sorprendeva con la visione di una Chiesa estremamente dinamica e “giovane”:
Mi lascio aiutare da un’espressione di Romano Guardini, scritta proprio nell’anno in cui i Padri del Concilio Vaticano II approvavano la Costituzione Lumen Gentium, nel suo ultimo libro, con una dedica personale anche per me; perciò le parole di questo libro mi sono particolarmente care. Dice Guardini: La Chiesa “non è un’istituzione escogitata e costruita a tavolino…, ma una realtà vivente… Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire, come ogni essere vivente, trasformandosi… Eppure nella sua natura rimane sempre la stessa, e il suo cuore è Cristo”. È stata la nostra esperienza, ieri, mi sembra, in Piazza: vedere che la Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente dalla forza di Dio. Essa è nel mondo, ma non è del mondo: è di Dio, di Cristo, dello Spirito. Lo abbiamo visto ieri. Per questa è vera ed eloquente anche l’altra famosa espressione di Guardini: “La Chiesa si risveglia nelle anime”. La Chiesa vive, cresce e si risveglia nelle anime, che - come la Vergine Maria - accolgono la Parola di Dio e la concepiscono per opera dello Spirito Santo; offrono a Dio la propria carne e, proprio nella loro povertà e umiltà, diventano capaci di generare Cristo oggi nel mondo. Attraverso la Chiesa, il Mistero dell’Incarnazione rimane presente per sempre. Cristo continua a camminare attraverso i tempi e tutti i luoghi.
Queste sono le sue ultime parole magisteriali, la mattina del 28 febbraio 2013, quando nell’ultima mattinata da Papa salutava i Cardinali. Per due volte in queste righe Benedetto XVI affermò di aver esperito quella novità “ieri”, anzi accomunò a quell’esperienza, in un ineffabile plurale modestiæ, l’intero Collegio cardinalizio. Cos’era accaduto “ieri”? C’era stata l’ultima udienza, e chi scrive qui era presente «e ha visto e ne rende testimonianza» (cf. Gv 19,33). Benedetto XVI esordì dicendo:
Vi ringrazio di essere venuti così numerosi a questa mia ultima Udienza generale.
Grazie di cuore! Sono veramente commosso! E vedo la Chiesa viva! E penso che dobbiamo anche dire un grazie al Creatore per il tempo bello che ci dona adesso ancora nell’inverno.
Era sempre Benedetto e già s’intravedeva un barlume francescano, in questa gioia semplice di chi vede al contempo “una fine e un inizio” (l’espressione era ricorsa in un dialogo con Peter Seewald). Il Papa raccontava delle lettere che aveva ricevuto «nelle ultime settimane», ovvero dalla declaratio a quell’ultimo giorno di pontificato, fatidico e fatale:
Queste persone non mi scrivono come si scrive ad esempio ad un principe o ad un grande che non si conosce. Mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. Qui si può toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti. Sperimentare la Chiesa in questo modo e poter quasi toccare con le mani la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia, in un tempo in cui tanti parlano del suo declino. Ma vediamo come la Chiesa è viva oggi!
Cosa aveva visto, Benedetto XVI, in quell’esperienza a cui volle accomunare i Cardinali raccoltisi attorno a lui nell’ultimo giorno da Papa? È difficile che egli stesso sapesse molto più di quanto volle esprimere: risuonava nelle sue parole il giubilo di chi – dopo la tribolazione del discernimento – sente forte lo Spirito nelle proprie vele ed è confermato non solo nella propria decisione personale, bensì soprattutto nella gioiosa consapevolezza che essa non è una faccenda privata:
Sì, il Papa non è mai solo, ora lo sperimento ancora una volta in un modo così grande che tocca il cuore. Il Papa appartiene a tutti e tantissime persone si sentono molto vicine a lui. […]
Il “sempre” è anche un “per sempre” - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio.
Proprio a questo, nella mattina del 28 dicembre 2022, preparando il mondo al transito del venerato predecessore, Francesco si riferiva:
Vorrei chiedere a tutti voi una preghiera speciale, per il Papa emerito Benedetto, che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa. Ricordarlo – è molto ammalato – chiedendo al Signore che lo consoli, e lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa, fino alla fine.
Proprio nella “consacrazione conciliare” della nouvelle théologie (ché poi era soprattutto un “ressourcement”), il giovane Ratzinger si era distinto per la capacità di operare quel tornare-alle-fonti senza isterilirlo in passatismi archeologici, bensì innescando circoli ermeneutici virtuosi: la Tradizione è viva e vivace, come la Chiesa che Benedetto avrebbe descritto fino agli ultimi due giorni da Papa, e in essa c’era tutto lo spazio per ricercare e meglio comprendere gli sviluppi del passato… nonché quello per immaginare e preparare le piste del futuro. Senza neppure la paura di tornare sui propri passi, eventualmente.
Tra i pochi contatti personali che chi scrive qui ebbe con lui c’è il riscontro a un saggio preparato, all’indomani della sua rinuncia suprema, sulle ragioni di una delle sue prime rinunce – quella al titolo patriarcale, già nel primo annuario del pontificato –: Benedetto XVI ebbe la bontà e l’umiltà di dedicare a quello studio una breve lettera in cui lodava il lavoro svolto e umilmente si scusava del non potersi pronunciare ancora sul tema.
Lei capisce – scriveva il Papa da poco Emerito – che il tema dovrà ancora svilupparsi in futuro.
Ci pare di veder condensata in questa riga l’attitudine fondamentale di Benedetto XVI davanti alla Chiesa, alla Fede, allo stesso papato – la consapevolezza di essere, pur nella sua oggettiva grandezza (negli angusti termini della storia umana), un momento di un evento incomparabilmente più vasto ed articolato: egli ha sempre mosso le pedine che gli era dato di muovere agendo in piena coscienza, ma non per questo pretendeva di porre un sigillo e/o un’ultima parola sugli eventi ecclesiali.
Un ritorno sul “papato allargato”?
Ciò valeva evidentemente per le proprie disposizioni, come è stato chiaro con la vicenda del Summorum pontificum, documento sostanzialmente rettificato dal successore sotto i suoi occhi. Cento e mille volte sia Benedetto sia Francesco avranno ripensato a quelle ultime parole del 28 febbraio 2013:
E tra voi, tra il Collegio Cardinalizio, c’è anche il futuro Papa al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza.
Benedetto scelse quel che gli parve essere il meglio per la Chiesa, ma la sua “grande Speranza” veniva proprio dalla consapevolezza del fatto che lo Spirito dal quale si sapeva guidato avrebbe guidato la Chiesa, secondo la promessa del suo divino Fondatore, «alla verità tutta intera» (Gv 16,13).
Tutto ciò vale a maggior ragione per le proprie disposizioni che hanno investito la sua persona, a cominciare dall’istituto canonico del papato emerito:
[Benedetto XVI] ha aperto una porta, ed è la porta dei papi emeriti: cosa succederà non possiamo dirlo, Dio lo sa, ma la porta ora è aperta.
Saremmo banali e superficiali se riducessimo la portata di queste parole alla curiosità pruriginosa “si dimetterà pure Francesco?”: con il papato emerito si è invece aperto – scrivemmo proprio su queste colonne – “uno Holzweg” del diritto canonico positivo.
Quando si definiranno i margini di questa figura (le domande sono attualmente numerose, e alcune di queste assai problematiche), e chi sarà chiamato a farlo? Certamente in questi quasi 10 anni Benedetto XVI ha riflettuto e scritto, a riguardo, ma altrettanto certamente avrà sottoposto quei testi all’unica autorità deputata a modificare il diritto canonico a quei livelli – ossia il Papa stesso, quello regnante e, in tal senso, l'unico.
Ciò significa in qualche modo un ritorno sulla disputa di “Ratzinger Vs Rahner” sul “papato allargato”, e cioè un’accettazione delle tesi del gesuita, piuttosto contrastate all’epoca? È probabile che la questione non vada posta in questi termini. Piuttosto, l’esperienza di questi quasi dieci anni di “recinto di Pietro” popolato da due vescovi vestiti di bianco potrebbe lasciar intravedere di nuovo l’originaria “sfumatura diadica” che fin dalle origini il papato romano porta in sé: a differenza del normale episcopato monarchico, infatti, come ci è attestato fin da Ignazio di Antiochia, il papato romano ha annoverato una genealogia episcopale (trasmessaci da Ireneo) i cui nomi sono o personaggi soprattutto letterari (come Clemente I) o puri flatus vocis fino alla metà del II secolo. Ciò che invece già Ireneo ha evidenziato è che la grandezza della Chiesa di Roma si deve al suo essere stata consacrata dal sangue dei martiri e confortata dalla testimonianza degli apostoli.
Quali apostoli? Pietro e Paolo, ovviamente, che ancora oggi detengono insieme il ruolo di patroni di Roma, ma che – molto più significativamente – vengono invocati insieme dal Romano Pontefice ogni qual volta egli compie un atto di governo particolarmente rilevante (dalle benedizioni Urbi et orbi alle definizioni dogmatiche). Ogni turista, più banalmente, può contare due statue davanti alla Basilica vaticana di San Pietro, laddove non ne trova che una nel quadriportico della Basilica ostiense di San Paolo.
Il primato dell’ospitalità
Che vuol dire tutto questo? Che a Roma non si può sapere chi sia il Papa? Ci mancherebbe altro, certo che si può sapere: lo stesso Benedetto ha detto in mille salse che «la mia rinuncia è valida e il Papa è uno solo». Verrebbe piuttosto da osservare che l’episcopato monarchico romano gode da sempre di un particolare “privilegio di ospitalità”. Proprio uno dei primi e massimi testimoni della precoce evidenza della preminenza romana dell’ecumene cattolica, il già ricordato Ireneo, ebbe a polemizzare con Vittore per via della sua posizione circa la data di Pasqua, inusitatamente rigida: il futuro vescovo di Lione ebbe a ricordare in quel frangente a Vittore che il suo predecessore Aniceto, appena pochi decenni prima, aveva accolto a Roma Policarpo di Smirne (che di Ireneo era stato maestro) permettendogli di celebrare la Pasqua il 14 Nisan… all’altare papale.
Certo, le disposizioni canonistiche variano col tempo, ma l’episodio fu ricordato anche da Eusebio di Cesarea, il quale visse e scrisse dopo il Concilio di Nicea (che sulla celebrazione della Pasqua pose i termini tuttora validi): lo storiografo menzionò il fatto per magnificare il temperamento “pacifico e pacificatore” di Ireneo (nomen-omen), ma indirettamente evidenziò come foriero di un insegnamento perenne quell’ospitalità offerta da Aniceto alla cattedra papale… perfino laddove le norme canoniche erano mutate.
Non si parli allora di “papato allargato”, perché questo porta facilmente a spiacevoli fraintendimenti, né si ironizzi sulla cattedra petrina come se questa fosse quella “poltrona per due” di certe fortunate commedie cinematografiche: la compresenza dei due vescovi vestiti di bianco «nel recinto di san Pietro» ha mostrato però chiaramente che la prima sedes esercita la propria primazia nella carità, come già disse Ignazio di Antiochia… e in quella sua forma particolare che è l’ospitalità.
Non di rado, infatti, la cura pastorale che Roma ha avuto per “tutte le Chiese” è stata bilanciata e temperata dal fatto che i suoi pastori non erano romani, se non in quanto appartenevano al collegio cardinalizio. Aniceto e Vittore, i due primi personaggi storici della lista episcopale romana, venivano rispettivamente dall’Asia Minore e dall’Africa: analogamente, gli ultimi due sono un argentino e un tedesco…
Per una significativa “coincidenza”, le reliquie di Clemente I (che sicuramente fu un personaggio di spicco nel presbiterio romano, anche se non sembra essere stato un “episcopo” nel senso ignaziano del termine) furono riportate a Roma da due fratelli greci, originari di Tessalonica, che si erano recati ad evangelizzare la Moravia e di lì recarono in dono ad Adriano II i resti mortali di uno dei “papi” certamente in contatto con il Pescatore di Galilea.
I due fratelli erano Metodio e Costantino, che poi scelse “Cirillo” come nome monastico: da Adriano II i due ottennero il permesso di utilizzare la lingua slava nella liturgia e nella traduzione della Bibbia – un altro caso emblematico di “ospitalità” teologica e cultuale favorito dalla prima sede –, ma è soprattutto emblematico, in questo giorno di lutto e di gratitudine, ricordare quel che accadde quando, il 14 febbraio 869, Cirillo morì. L’antico tessalonicese morì infatti a Roma, e Adriano II – narra la “Vita di Cirillo” redatta in lingua slava –
comandò che tutti i Greci che erano a Roma e i Romani si riunissero portando ceri e cantando, e che gli dedicassero onori funebri non diversi da quelli che avrebbero tributato al papa stesso; e così fu fatto.
A questa pagina pensiamo e ripensiamo dal 2013, certi che essa sia stata ricorrente anche nei pensieri di Benedetto e di Francesco, il quale al venerato predecessore vorrà certamente far tributare onori funebri «non diversi da quelli che si tributerebbero al papa stesso» (segnaliamo che la CEI ha subito invitato a pregare per Benedetto XVI offrendo la messa per la morte del Papa, con la sola aggiunta del titolo “emerito” al formulario eucologico). E confidiamo che anche stavolta la prima sedes farà sfolgorare il proprio primato nell’ospitalità.
NOTA SULLE ESEQUIE:
Le spoglie del Papa Emerito Benedetto XVI riposeranno presso il Monastero Mater
Ecclesiae fino alla prima mattina di lunedì 2 gennaio; non sono previste visite ufficiali o preghiere pubbliche. Nello stesso giorno, a partire dalle ore 9, la salma verrà esposta per la visita dei fedeli nella Basilica di San Pietro.
Lunedì la Basilica resterà aperta dalle 9 alle 19, martedì e mercoledì dalle 7 alle 19.
I funerali presieduti dal Santo Padre verranno celebrati in Piazza San Pietro giovedì 5
gennaio alle ore 9.30.